Massimo
Bacigalupo
Attilio
Brilli, vedute e
paesaggi della Sublime Porta
Rileggere l’Oriente mediterraneo e arabo attraverso l’occhio di viaggiatori e avventurieri fra Settecento e Ottocento è un’esperienza istruttiva e stimolante. Ce lo consente Attilio Brilli con Il viaggio in Oriente (Il Mulino, pp. 355, €28,00), un volume succoso che ricostruisce con precisione e partecipazione vedute e personaggi fascinosi e poco noti, e tutta la questione del rapporto Occidente-Oriente. E’ una storia vecchia come le Crociate, o le Guerre Persiane, che qui cogliamo attraverso microstorie e testimonianze preziose.
Brilli ci ha già dato un voluminoso e leggibile studio del Viaggio in Italia (2006), rivelatore anch’esso di sguardi ed episodi, oltre che di “una grande tradizione culturale”. Analogamente, Il viaggio in Oriente fornisce un quadro ampio e circostanziato delle coste meridionali e orientali del Mediterraneo, e su lungo il Nilo e la penisola Araba fino alla Mecca e allo Yemen, luoghi che ricorrono nelle cronache di oggi non di rado per motivi luttuosi o da cui giungono reportage di viaggiatori contemporanei. Sicché è istruttivo disporre di una ricognizione dell’Impero Ottomano dalla cui dissoluzione dopo la I guerra mondiale discendono tensioni e conflitti dei nostri giorni, dai Balcani alla Palestina.
D’altra parte, come l’Austria felix, l’Arabia felix e l’impero che dipendeva dalla Sublime Porta appaiono meno felici di quanto vorrebbero i nostalgici. I viaggiatori, più disinteressati di quanto spesso si creda, tratteggiano un mondo dominato dal dispotismo e dalle angherie, dallo sfruttamento spietato di risorse e popolazioni. “Un vero sovrano conosce solo la propria spada e la propria borsa, e sfodera l’una per riempire l’altra”.
Sono parole dette nel 1814 da Mehemet Alì, pascià d’Egitto, a John Lewis Burckhardt, che si intrattiene nel 1814 con lui fingendo di essere un mercante arabo. Mehemet non ignora la sua vera identità di esploratore svizzero naturalizzato inglese, e vuole ottenerne preziose informazioni sullo scacchiere internazionale che, caduto Napoleone, si va ridisegnando. (Napoleone è stato vile, dice, avrebbe dovuto suicidarsi e non farsi esporre in gabbia all’Elba.)
Burckhardt non è il solo viaggiatore che si confonde con la variegata popolazione levantina, o fra le schiere degli innumerevoli pellegrini diretti alla Mecca. Uno dei più intriganti è Richard Francis Burton, spia, traduttore delle Mille e una notte e del Kama Sutra, spericolato viaggiatore in Asia e Africa, che nel 1855 pubblica Narrazione personale di un pellegrinaggio a Medina e alla Mecca, compiuto appunto sotto mentite spoglie di afghano. Quando una volta si tradisce facendosi vedere da un ragazzo nell’atto di urinare in piedi, all’occidentale, non esita a sgozzare il malcapitato (ma questa pare sia una leggenda che Burton sempre negò).
Medina, con la tomba del Profeta, raggiunta a così caro prezzo, gli si rivela “un museo d’arte piuttosto scadente o un negozio di anticaglie stracolmo di ornamenti privi di qualsiasi funzione”, ricordandoci l’analogo sconcerto dei pellegrini che giungono al Santo Sepolcro a Gerusalemme e vi trovano le varie chiese cristiane rumorosamente in concorrenza per mostrare la presunta tomba di Gesù.
Ma quando si trova davanti alla Kaaba della Mecca il mentito musulmano (che s’è fatto persino circoncidere per meglio simulare) non è meno commosso degli altri devoti: “la fantasia investiva come un miraggio incantevole l’imponente catafalco e il suo tetro contorno... Era come se le poetiche leggende degli arabi dicessero la verità e, invece della dolce brezza mattutina, fossero le ali degli angeli a increspare e a gonfiare la tenda che copriva il sacrario...”.
Prima di presentarci questa memorabile galleria di viaggiatori, Brilli ripercorre puntigliosamente modi e tempi del viaggio, storia e leggenda, non trascurando tutto l’armamentario di luoghi comuni esotici che fanno dell’Oriente un mondo peccaminoso di brame selvagge e donne schiave (bellissime, ovviamente). Il mondo immaginoso (e kitsch) di Tè nel deserto (e del più efficace ma pur sempre stereotipato romanzo di Bowles da cui è tratto il film).
Il viaggio in Oriente consta di otto capitoli, i cui titoli metaforici non devono trarre in inganno giacché la trattazione è sempre documentata pur non essendo greve di scienza e documenti. Brilli ha la capacità di raccontare le sue letture e ricerche in maniera sintetica, precisa, eppure avvincente. Si va dal capitolo introduttivo, “I veli dell’Oriente”, su ciò che si intende qui per Oriente, cioè il Vicino Oriente, distinto dal Medio Oriente (i luoghi degli odierni disastri: Afghanistan, Iraq...) e naturalmente dall’Estremo Oriente. Si parla qui dell’ “Uomo malato del Bosforo”, cioè dell’Impero Ottomano incapace di riformarsi. Veniamo quindi a “Strategie, avventure e miraggi dei viaggiatori”, dove apprezziamo lo spirito enciclopedico che guidò le spedizioni settecentesche, come quella danese del 1764 di Carsten Niebuhr, cartografo, Peter Forskaal, botanico, e altri, che raggiungono l’Egitto e lo Yemen e in gran parte muoiono di malaria.
“Forskaal muore l’11 luglio 1763, in vista del mare, buttato come un sacco mezzo vuoto di traverso alla groppa di un asino i cui fianchi s’imbrattano del sangue vomitato dal cavaliere”, e i sopravissuti stentano a ottenergli sepoltura (in magro compenso, Linneo diede il nome dell’allievo a una pianta egiziana, la Forsskalea). Del resto nel porto di Moca le autorità doganali “con il pretesto di ispezionare il contenuto delle casse, mandano in frantumi le fiale di vetro che contengono esemplari di animali terrestri e marini conservati sotto spirito...”.
La pacata ricognizione di Il viaggio in Oriente contiene non pochi episodi raccapriccianti. L’Oriente è un mondo ora seducente ora mortale, sempre estremo, diverso, e i coraggiosi che lo visitano prima dell’era di Thomas Cook e del turismo organizzato sul Nilo lo fanno col rischio di finire in una tomba anonima (quando gli va bene).
Il capitolo 3 tratta “I temi dell’orientalismo”: il dispotismo, il serraglio, l’harem, il bagno turco, l’odalisca, la donna velata, lo schiavo, il beduino. Tutti elementi esotici che le testimonianze smascherano ma per altre vie confermano non come un ricettacolo di fantasie represse dell’Occidente ma come un mondo altro che beffa tali aspettative. Brilli dedica un capitolo alla pittura d’argomento orientale, dove troviamo sia gli orientalisti sedentari (ma magnifici: Ingres), che i vedutisti come il pittore (e umorista) Edward Lear o il pentito Charles Gleyre, che prima conosce la perdita dell’identità nell’Oriente visitato e poi la cancellazione di quella esperienza a favore di una pittura accademica.
Nel capitolo V Brilli ricostruisce da par suo “L’avventura del viaggio”, dal bagaglio indispensabile ai mezzi di trasporto, i cavalli, i cammelli, le carovane, i predoni, i battelli, le malattie specifiche come l’oftalmia e naturalmente la peste, che riappare sinistramente nelle ultime pagine del libro. Alexander Kinglake, geniale autore di Eothen che anticipa Waugh e Chatwin, narra l’incontro in un vicolo di Costantinopoli con una donna bellissima che si toglie il velo e a un tratto lo tocca e grida “la peste!”.
Che il Viaggio in Oriente sia un viaggio nella morte? Colpisce l’osservazione dell’avventuriero Burton sulle lande attraversate fra Medina e Mecca: “un deserto popolato soltanto di echi, un luogo di morte per quel poco che c’è che vi possa morire, una desolazione assoluta nella quale non c’è altri che Lui”.
“Il Manifesto-Alias”, 12 settembre 2009