Massimo Bacigalupo
Isaiah Berlin e Andrea Carandini sulle tracce dell’Europa decente
Isaiah Berlin
(si pronuncia Berlìn, come la capitale tedesca), nato
a Riga nel 1908 e scomparso nel 1997 a Oxford, dove fu professore di filosofia,
continua a essere molto letto (e discusso) in Europa e fuori. E’ fresca la
pubblicazione di un quarto e ultimo volume di corrispondenza (Affirming. Letters
1975-1997, Chatto & Windus, 2015, pp. 704),
che riapre un’altra volta la discussione sulla sua statura e personalità. Era
un maître à penser?
Il suo liberalismo è ancora attuale? E che dire delle contraddizioni e delle
proscrizioni accademiche che le lettere impietosamente rivelano, dato che in
epoca di voluminosi epistolari scripta manent consentendo di cogliere in flagrante l’estensore?
Detestava, prevedibilmente, il radicalismo di Chomsky, ma con quest’ultimo
cercò un accomodamento rifiutato dal collega americano quando seppe cosa di lui
il professore aveva scritto ad altri. Questo, e lo sviluppo del pensiero di Berlin, rendono le lettere avvincenti. Una scelta oculata
del primo volume, A gonfie vele. Lettere
1928-1946, apparve nel 2004 presso Adelphi, che di Berlin
si è fatto promotore. E’ del 2015 la pubblicazione di un volumetto
testamentario, Un messaggio al
ventunesimo secolo (Adelphi, pp. 58), che ristampa un importante saggio
riassuntivo, La ricerca dell’ideale,
e ribadisce le convinzioni di Berlin, la sua fede
nella possibilità di una convivenza umana “decente”, il suo moderato ottimismo
per cui si congratula con i lettori che a differenza di lui vedranno il secolo
XXI, presumibilmente epoca di pace dopo tante nefandezze. E invece le cose
stanno andando ben diversamente da come Sir Isaiah si
augurava.
Con Berlin si confronta intensamente Andrea Carandini,
anch’egli non giovanissimo, in un denso volume anomalo, Paesaggio di idee. Tre anni con Isaiah Berlin (Rubbettino, 2015, pp.
381). Anomalo perché è una riflessione personale (il titolo lo annuncia), come
del resto sono spesso gli scritti berliniani, su
argomenti di solito riservati agli specialisti: le grandi idee di civiltà, da
Atene e Roma a Firenze, Parigi, Londra, e i pensatori da Rousseau a Nietzsche a
Cassirer a Nussbaum. Carandini è archeologo, ma è giustamente interessato a
comprendere perché le civiltà si sono fatte in un certo modo, attraverso
conflitti e accomodamenti. Chiude la sua lunga meditazione parlando dei
commerci globalizzati del terzo millennio a.C., non senza aver rammentato
qualche pagina addietro che il sedicente califfato dell’ISIS nulla ha a che
vedere con il periodo di notevole tolleranza imperiale che fu del califfo omayyade.
Sicché Carandini legge Berlin e ne segue
il cammino per tre anni e quasi quattrocento pagine anche per ripensare il proprio
percorso intellettuale e politico, dal marxismo del suo maestro Bandinelli al freudismo di Matte Blanco
al liberalismo “agonistico” di Berlin. Agonistico
perché fondato non sul superamento delle contraddizioni ma sull’accettazione e
il compromesso fra posizioni contrastanti. In questo atteggiamento Carandini trova una lezione per l’Italia, un suo proprio “messaggio
al ventunesimo secolo”: un invito a superare la contrapposizione sterile di
fazioni abbarbicate ai propri convincimenti (per cui anche Berlin
sarebbe stato vittima di damnatio memoriae in Italia da parte di marxisti, storici di altre
scuole ecc.), a favore di un vero pluralismo, che Carandini
come Berlin tiene a distinguere dal relativismo.
Bisogna saper ascoltare, imparare dagli avversari, scegliere il miglior male. Un
modello di convivenza sociale non utopistico, soprattutto non apocalittico.
“Da noi”
scrive Carandini “il pensiero progressista è sovente
un guazzabuglio di riformismo e radicalismo, che contrastandosi si
neutralizzano, confluendo in una palude residuale di pensieri superati. Ma per
progetti politici coerenti bisognerebbe avere una visione almeno per i prossimi
lustri: per muoversi verso una società decente oppure verso un cumulo di
desideri velleitari e scomposti. Quale potrebbe essere oggi un pensiero fecondo
per una liberaldemocrazia aperta al sociale,
pluralistica, agonistica, riformistica, insomma normale, capace di imparare
pragmaticamente dall’esperienza, tramite prove e errori?”.
Alla ricerca
paziente di risposte a queste domande che ovviamente premono a tutti, Carandini segue le orme di Berlin
nelle varie idee e ideologie che stanno a monte della modernità. I suoi
capitoli portano titoli come “Mania dell’uno” (l’eredità pestifera dei monismi
di ogni genere), “Contrasti sui Lumi” (responsabili appunto della riduzione a
una suprema Dea Ragione che infierirà sull’uomo a partire da Robespierre),
“Albe di nuovi mondi” (la scoperta del pluralismo e dello storicismo:
Machiavelli, Leibniz, Vico), “Verso il pluralismo”
(lo storicismo romantico di Hamann e Herder, eredi di Vico, su cui Berlin
ha scritto accanitamente), “Reazioni”: rivalutazione di Burke, simpatizzante
della rivoluzione americana con i suoi “diritti dell’uomo” e Bill of Rights, ostile a quella francese, tanto da essere
liquidato come reazionario. Qui Carandini sposa la
posizione del tardo Bobbio su Marx e Nietzsche
“reazionari”, in quanto “il valore del mondo borghese sfugge all’uno e
all’altro ed è stato combattuto tanto dal nazismo che dal comunismo”. Crollate le
utopie monistiche di un mondo di giustizia ed eguaglianza universale
(comunismo) o di dominio del più forte (fascismo), “si è costretti a tornare
alla contraddizione propria della democrazia borghese, con il suo stabile
conflitto fra diritti dell’uomo e mercato”.
Infatti una
delle tesi più note di Berlin riguarda i “due tipi di
libertà”, la libertà da e la libertà di, che confliggono
e vanno entrambe sia limitate che promosse. La mia libertà di agire come mi
pare inficia quella del mio vicino che non vuole rientrare nel mio progetto,
cerca la libertà dall’intrusione di interessi e libertà altrui. Il Bill of Rights statunitense si
riferiva a entrambe le libertà. La famose Quattro Libertà enunciate da
Roosevelt nel 1941 erano sia attive che passive, in realtà un riassunto del
Bill of Rights del 1789:
libertà di parola, libertà dal bisogno, libertà di fede, libertà dalla paura
(cioè dai totalitarismi).
Carandini indica le radici di questi pensieri di Berlin in Croce e in De Ruggiero (Storia del liberalismo europeo, 1925), entrambi importati a Oxford
da Collingwood, traduttore anche del libro di Croce
su Vico, che Berlin dice fu per lui una rivelazione,
pari alla scoperta di Machiavelli e poi di Herder. Gli
rivelarono, spiega in La ricerca
dell’ideale, la storicità, praticamente che non esiste un’unica risposta ai
grandi perché della convivenza umana, ma ogni epoca proietta una sua visione,
forse una lingua intellettuale.
Il giovane Berlin parla di questo lungamente nel celebre saggio Il riccio e la volpe, sulla filosofia
della storia di Tolstoj, in realtà in gran parte dedicato a de Maistre, reazionario che influì sull’utopista (?) Tolstoj.
“La volpe sa molte cose, il riccio una sola grande cosa”, diceva Archiloco. Tolstoj sarebbe stato (forse lo siamo tutti) un
po’ riccio e un po’ volpe, affascinato dalla realtà nella sua “infinite variety”
(Shakespeare) e alla ricerca di un principio che tutto spiegasse. In quel
vecchio saggio (citato persino da Woody Allen in un suo film: “Sarò riccio o
volpe?”) Berlin liquida professoralmente
“M. Henri Bergson”, ma in realtà conclude con pagine
sull’esperienza vitale di flusso in cui siamo immersi. E anche il pacato
paesaggista di idee Carandini ha parole commosse quando
evoca le rivelazioni dell’interiorità impalpabile di Proust.
“il manifesto Alias domenica”, 20 marzo 2016