Massimo Bacigalupo
Beat Hotel: Americani a Parigi in cerca di americani
A dieci anni dalla morte (1997), Allen Ginsberg e William Burroughs continuano a giganteggiare fra i protagonisti della cultura alternativa americana del dopoguerra. Del mistico e paranormale scientologo Burroughs sono uscite diverse opere presso Adelphi (Checca, La macchina morbida, l’edizione trascabile del Pasto nudo). Di Allen Ginsberg, personaggio tutto sommato più benevolo, è stato ristampato presso Guanda il classico Jukebox all’idrogeno, curato nel 1965 da Fernanda Pivano, che ancora contiene le poesie più importanti: i poemi Urlo e Kaddish, con altre più brevi ma non meno famose come Morte all’orecchio di Van Gogh!. Il titolo, Jukebox all’idrogeno, che Ginsberg stesso estrasse da Howl, è una frase che suona nell’orecchio:
che affondavano tutta la notte nella luce sottomarina di Bickford [una catena di ristoranti], scorrevano fuori e passavano pomeriggi di birra scipita nel desolato Fugazzi [un bar di New York], ascoltando il rimbombo della fine del mondo sul jukebox all’idrogeno...
Un viaggio nel passato della generazione Beat lo possiamo ora compiere minuziosamente grazie alle fatiche di Barry Miles, che in Il Beat Hotel (trad. Francesca Bandel Dragone, Guanda, pp. 323, 18,00) segue passo passo Ginsberg, Corso, Burroughs e gli altri: l’avventura parigina dei Beat (come dice il sottotitolo). Infatti in Rue Git-le-coeur sulla Rive Gauche si trovava il grosso e modesto albergo di Madame Rachou, con un’infinità di passaggi e corridoi angusti, servizi primitivi (uno per piano), e la possibilità di cucinare in stanza su un fornelletto e di ricevere chiunque o quasi. La padrona gestiva anche il bar al pianterreno e tollerava la vie de bohème versione anni ’50 (sesso e droga), accettando persino qualche quadro in pagamento.
Qui Ginsberg visse stabilmente nel 1957-58 con gli amici Peter Orlovsky e Gregory Corso, e vi tornò per diversi mesi nel 1961, sulla via dell’India. Burroughs vi rimase fino alla chiusura dell’albergo nel 1963, curando la pubblicazione di Il pasto nudo per la Olympia, casa editrice specializzata in pornografia da vendere agli americani e scritta (come ai tempi gloriosi di Henry Miller e Anais Nin) da americani espatriati per sbarcare il lunario. Quella del Beat Hotel è dunque la terza o quarta generazione di (poco?) gershwiniani americani a Parigi: la Stein, Anderson, Pound ai tempi di Apollinaire e Picasso, Hemingway, Fitzgerald Cummings e Sylvia Beach negli anni di Joyce e Valéry, Miller negli anni ’30, e finalmente i Beat che vanno a rendere omaggio a Duchamp, Céline, Genet e Artaud (ma ignorano i contemporanei Camus e Sartre).
Barry Miles sottolinea che il microcosmo del Beat Hotel è ancora una volta una colonia che ha scarsi rapporti con la cultura parigina, ma vive nel sogno dei predecessori americani, salvo poi appunto scoprire e visitare Céline (che già sembra avesse folgorato Miller al punto che egli riscrisse Tropico del Cancro dopo aver letto il Voyage).
Ginsberg era un trentenne con un’educazione universitaria, dalla curiosità insaziabile, e subiva l’ascendente dei maestri del ’900, riconoscendosi nella loro protesta:
Vachel Lindsay Ministro degli Interni,
Poe Ministro dell’Immaginazione,
Pound Min. delle Finanze...
l’Orecchio di Van Gogh sulle banconote...
Così scriveva a Parigi nel 1958, inventando il rap:
il povero Genet illuminerà i mietitori
dell’Ohio
la marijuana è un narcotico benigno ma J.
Edward Hoover [capo dell’FBI] preferisce
il suo scotch micidiale...
I Beat erano asceti moralisti che guardavano con orrore la cultura di massa USA che magari i critici parigini della Nouvelle Vague idolatravano:
Hollywood marcirà nei mulini a vento
dell’Eternità
Hollywood i cui schermi sono piantati nella
gola di Dio
Sì Hollywood avrà quel che si merita.
E poi, tipica di Ginsberg, la strizzata d’occhio autoironica: “La storia renderà questa poesia profetica e la sua terribile stupidità un’orrenda musica spirituale”.
Dopo tutto Ginsberg è un Woody Allen stralunato e predicatorio, che fa il guru anziché lo svampito, ma con la stessa distanza nei confronti del proprio personaggio, e lo stesso umorismo ebraico (e sfondo politico irriverente quando non anarchico).
Il Beat Hotel è notevole in quanto biografia collettiva, e dedica altrettanto spazio ai “procedimenti” di Burroughs (che qui scoprì il metodo del “cut-up” o ritaglio con cui compose molte opere) e del suo collaboratore Brion Gysin. Apprendiamo ad esempio che i capitoli di Il pasto nudo, libro in qualche modo creato anche da Ginsberg che ne battè parti a macchina a Tangeri, non hanno un ordine: Bill si riservava di stabilire la sequenza sulle bozze, poi accettò quella casuale in cui le bozze gli arrivarono. Burroughs sta ai Beat come Hoover al FBI, è una sorta di forza demoniaca di pura follia e (secondo Ginsberg e altri) grandezza. Con lui non si poteva ragionare.
Di Gregory Corso, l’estroso fanciullo del gruppo (aveva meno di trent’anni), Miles dice meno, anche se intitola un capitolo a Bomba, il poema-manifesto che Gregory compose nella sua mansarda. Unico eterosessuale della combriccola, Corso aveva la dote di attrarre ragazze benestanti americane di passaggio. “Gli chiedo subito metà dei soldi che hanno...” Così a volte riusciva a mantenere gli amici, regolarmente al verde. E per lui almeno c’erano molte Mimì.
L’inglese Barry Miles ha fatto un ottimo lavoro documentario e ha scritto un libro leggibile anche se un po’ catastale. E’ parco di citazioni dalle opere dei Beat, sicché il lettore non tocca con mano la loro creatività, solo i loro comportamenti di strada, caffè e letto. Nell’edizione americana c’è anche un divertente lapsus quando si afferma che i cut-up di Burroughs anticipano (sic) la filosofia di Antonia (sic) Gramsci... La saggia traduttrice ha saltato l’imbarazzante paragrafo.
Io avrei anche evitato di scrivere nella traduzione “&” quando questo segno appare nei testi di Ginsberg e compagni. So che qualcuno lo ritiene una finezza, ma il calco nasce da un fraintendimento: in inglese da sempre si scrive “&” o, a mano, una sorta di crocetta +, per evitare di scrivere le tre lette di “and”. In italiano è ovvio che “e” è ancora più breve di “&” sicché il calco non ha senso...
La voce stessa di Allen Ginsberg è invece ben presente in una eccellente raccolta della sua corrispondenza con il padre Louis, anch’egli poeta (minore) ma assai più tradizionale nelle forme: Affari di famiglia. Lettere scelte 1957-1965 (Archinto, trad. Marina Premoli, pp. 302, 22.00 – anche qui però troviamo i soliti “&”). Allen viaggia in Europa con il compagno Peter, scopre l’Italia nel 1957, giusto cinquant’anni fa, e ne scrive al padre con cui ha un rapporto di grande confidenza e affetto: “Mai stato così anticattolico come da quando ho fatto questo viaggio”. Mentre si pasce della nudità del David, “la grande dichiarazione storica di Michelangelo”, protesta per le foglie di fico dei musei vaticani: “spicca proprio come la manifestazione di sporcizia mentale che è di fatto”. Ma naturalmente si incanta poi ad Assisi davanti alle reliquie francescane. Il viaggio finisce al Beat Hotel, e Parigi è la città più bella per vivere (“ha un interesse universale”).
Ma il rilievo eccezionale di questa corrispondenza sta nell’intenso dialogo con Louis Ginsberg, ebreo progressista che pur amando il figlio (e proprio perché lo ama) non gliene perdona una sul fronte politico. Ogni volta che Allen si sbilancia a favore dei regimi comunisti o nelle critiche di Israele Louis gli risponde risentito: “Ascolta, ragazzo: perché non hai risposto alla mia sfida che ora ti ripeto per la quarta volta: cioè, nomina un solo paese che la Russia abbia sciolto dalla sua morsa dispotica in confronto alla quarantina di paesi che hanno ricevuto e ricevono l’indipendenza dall’Occidente. Rispondi, per piacere” (1962).
Quando nel 1974 Allen pubblica su “Liberation” (mensile newyorkese) delle Riflessioni ricorrenti su discussioni di Israele, Louis gli risponde con un articolo-lettera al Direttore. Al figlio scrive privatamente con la sua stessa ironia: “La peggiore forma di governo è la democrazia – ad eccezione di tutte le altre”. Forse solo in un ambiente ebraico americano poteva trovarsi una tale serietà di discussione protratta per decenni in lettere lunghe molte pagine. E la centralità degli affetti famigliari è anche caratteristica ebraica.
Allen e Louis spesso tennero letture poetiche congiunte, e dibatterono i loro disaccordi pubblicamente. Alla morte di Louis, Allen scrisse e musicò il bellissimo “Father Death Blues”, che gli sentimmo intonare accompagnandosi con l’harmonium quando girava per l’Italia sullo scorcio degli anni ’70. Analogamente, per la madre psicotica Naomi aveva scritto le pagine visionarie ed elegiache di Kaddish.
Al padre Allen racconta sempre con intelligenza e serietà le sue vicende e scoperte. Dalle lettere emerge il suo carattere di ottima persona che tiene a bada o convive con l’empito isterico della protesta per l’apocalisse che pure gli pare incipiente. Sembra molto lontano dal Beat Hotel questo mondo di affetti e di impegno instancabile per le proprie idee e i propri cari.
“Il manifesto-Alias”, 10
novembre 2007