Massimo Bacigalupo

Anne Tyler. Tutto torna a Baltimora

Siamo al ventesimo e probabilmente ultimo romanzo di Anne Tyler, la scrittrice di Baltimora fra le più amate (ma anche d’ogni tanto avversate) d’America: Una spola di filo blu (traduzione di Laura Pignatti, Guanda, pp. 391, € 18,50). Chi  conosce Tyler non sarà deluso,  e chi non la conosce potrebbe bene cominciare da qui, dalla fine. Una spola di filo blu è infatti un po’ una summa del  suo mondo che scorre di pagina in pagina,  anno in anno, decennio in decennio. Ci dà il piacere della lettura, di affidarsi alle sue abili mani e a quel rocchetto di filo che si dipana e che solo nelle ultime pagine  emergerà come tema. L’ampiezza della narrazione conferma l’importanza che Una spola di filo blu riveste per l’autrice, anche a confronto delle sue ultime prove, più  scorciate, come Guida rapida agli addii. Anne Tyler è del 1941, e anche qui il tema della tarda mezza età (chiamiamola così), o addirittura del fine vita, ha un ruolo centrale. Ma non ingombrante. La vita per Tyler non sta in una sola persona o prospettiva, ma è un continuo relazionarsi fra eventi, figure, tempi. E questo senso ce lo comunica sapientemente.  

Occorre un po’ di pazienza per imparare a conoscere la famiglia di (dis)adattati di questa puntata della sua saga, i Whitshank. La prima parte, più cronachistica,  procede con fare ingannevolmente  digressivo per 241 pagine, mentre le tre parti successive sono più brevi e scattanti nel rivelare altri scenari, specialmente la terza,  “Un secchio di smalto blu”, che anticipa l’ultima (meno di 20 pagine), la quale porta giustamente il titolo di tutto il romanzo. E’ come se ci si muovesse lentamente mentre la molla si avvita, e poi la si lasciasse scattare. Anche se, con tecnica sorprendente, gli scatti sono posti in un passato via via più remoto.

Anche qui niente di strano più di una tredicenne del North Carolina che praticamente seduce un ragazzotto ventiseienne,  e cinque anni dopo abbandona tutto per raggiungerlo a Baltimora e convincerlo che non può fare a meno di lei.  Si chiama Linnie Mae questa ragazzina dal gran seno che pare uscita da una canzone country, e Tyler si diverte a mettercela sotto gli occhi, e praticamente fra le braccia del suo ragazzo, determinato ma mai come lei.  Junior,  così lo chiamano, non racconterà a nessuno da dove viene per iniziare la sua buona carriera di mobiliere e costruttore e mettere al mondo (per volontà non sua ma dell’inesorabile Linnie) due figli. Però Linnie a un certo momento racconta la sua storia da Giulietta e Romeo a Abby, la futura nuora, che probabilmente la terrà per sé. Noi però come lettori di Tyler sentiamo tutto, vediamo il filo dipanarsi, i nodi venire al pettine e poi scivolare via. 

I personaggi di Tyler, si sa, sono degli eccentrici amabili, persone comuni, in cui però c’è sempre qualche granello di incertezza o qualche dubbio irrisolto. Si conoscono e non si conoscono,  ma in fondo si amano. Distrattamente. La storia torrida e forse crudele di Junior e Linnie Mae la scopriamo solo nella parte terza. La prima e più lunga, come s’è detto, è centrata sulla generazione di mezzo e su quelli che sono i veri protagonisti della vicenda, Red, figlio di Junior e Linnie, che ha continuato a lavorare nell’azienda familiare e a vivere nella casa del padre nuovo ricco, e la moglie Abby, stravagante assistente sociale e poetessa a tempo perso che spesso porta a tavola dei “derelitti” che hanno bisogno di sostegno e ricambiano con degnazione. Ma Red e Abby nella parte  centrale della vicenda sono ultrasettantenni, sicché come si diceva Anne Tyler guarda dalla prospettiva che è anche sua, pensando al non lunghissimo tempo  che resta e a come potrà terminare.  In effetti Abby ha dei momenti di assenza in cui rimane ferma per strada e non sa più dove è, mentre Red ha dei problemi di cuore. Sicché uno dei quattro figli, Stem, decide di trasferirsi con moglie e prole nella casa avita. Solo che Stem è anche lui frutto di una storia strana  e irregolare, non è in verità il figlio biologico di Abby e Red. Da ciò una permanente tensione fra Stem, le due sorelle e il fratello scapestrato Denny.

Denny ha la funzione di mandare avanti la trama, che si apre nel 1994, quando Red e Abby sono cinquantenni, con una telefonata in cui Denny annuncia al padre di essere gay. Una bufala, capiremo poi, ma fa parte del gioco a gatto e topo che l’inaffidabile Denny giocherà per il resto della vicenda, sparendo per anni, poi ricomparendo e pretendendo il suo posto a tavola e in casa senza dare spiegazioni, che nessuno comunque osa chiedergli. Una variante della parabola del figliol prodigo, che permette a Tyler di riassumere vicende familiari sull’arco di vent’anni,  prima di venire al presente del romanzo, il 2012, e in seguito portarci addirittura al 1926 e al giorno in cui Abby scoprì di amare il pacifico Red.

E’ una storia condotta per momenti significativi, per scene costruite con buon uso del dettaglio e dello sguardo di insieme. Tyler è una miniaturista che però non fa pesare la sua concentrazione su gesti e battute minime,  cioè non si tratta di una maniera, né di una esibizione di informazioni al lettore .”TMI”, too much information,  è l’accusa che si potrebbe fare a tanti narratori, americani e non, che accalcano nelle loro pagine una pletora di dettagli. Basta, basta, per pietà, come diceva Don Bartolo. In Tyler la miniatura è fatta senza parere, il dettaglio conta.  Un critico notava che, accusata da uno dei suoi detrattori di produrre una narrativa dolciastra come il NutraSweet, Tyler racconta qui di uno degli indesiderabili che Abby porta a pranzo con la famiglia, una certa Atta, che guarda i Whitshank dall’alto in basso, parla dei suoi antenati eccezionali, poi “prese una bustina di dolcificante artificale NutraSweet da una ciotola e la avvicinò agli occhi muovendo leggermente le labbra mentre leggeva i caratteri piccolissimi, poi la ripose nella ciotola. ‘Discendiamo da generazioni di celebri scienziati…’”.  Tyler sembra dire ai suoi non molti stroncatori che se pensano che i suoi libri siano tanto NutraSweet, comincino però a leggere quanto vi sta scritto a caratteri piccolissimi.

Questo miniaturismo scorrevole di Tyler non ci dà il senso di TMI, troppe cose che non volevamo sapere, ma del ritratto prezioso  di un mondo in movimento.  Per esempio il capitolo 5 racconta una settimana di vacanza al mare del clan Whitshank nel presente del 2012, una vacanza che si ripete con lo stesso rito da 36 anni. Nella casa vicina a quella affittata ci sono sempre gli stessi inquilini con cui però i Whitshank non si sono mai in tanti decenni presentati. Ma si guardano, e una delle figlie maritate nota che anche per i vicini il tempo passa: “Mi fa venire da piangere… Perché la vita è un cerchio, credo. La prima volta che abbiamo visto quelli della porta accanto erano le figlie, a portare gli amici, adesso tocca al nipote e ricomincia tutto da capo…”  E’  questo il senso di Una spola di filo blu, che qua e là in effetti commuove, ma è anche una commedia scritta con mano molto leggera.

Alla spiaggia, “gli adulti aprirono le sedie e si sedettero tutti in fila di fronte all’oceano mentre il nipote e il suo amico proseguirono fino al punto in cui la ragazzina si stava tuffando nella schiuma delle onde”.  Conosciamo tutti il quadro di Hopper del gruppo di persone sedute  contro una bianca parete, tutte volte al sole. Se ad alcuni Anne Tyler  ricorda l’America stereotipata delle copertine di Norman Rockwell, dentro di lei c’è abbastanza inquietudine e immobilità alla Hopper. Oltre alla capacità di fotografare meglio di una fotografia.  Non religiosa ma nata in una famiglia quacchera, Tyler conserva quel senso dell’illuminazione che fa l’individuo. Come a Denny sul treno nelle ultime pagine, non le piacciono le “carrozze silenziose”, cioè quelle dove sono vietati i telefonini. Le piace il brusio della città, della vita. E le piace farcene intravedere, con arte, il filo blu.

“Il manifesto, Alias”, 24 maggio 2015