Mentre presso Adelphi è pubblicato il carteggio fra Elizabeth Bishop e
Robert Lowell (Scrivere lettere è sempre pericoloso. 2014) ci pare buona cosa proporre questo saggio
di Massimo Bacigalupo apparso nel 2006 sul n.34 di “Semicerchio. Rivista di poesia comparata”.
Massimo Bacigalupo
miracolo
e disincanto: Elizabeth Bishop
Elizabeth Bishop è giustamente considerata una
presenza indispensabile della poesia del Novecento. Ce lo riconferma l’ampia
scelta di poesie Miracolo a colazione (traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti e Ottavio
Fatica, Milano, Adelphi, 2006, pp. 288, € 27,00), che prende il titolo da una
sestina relativamente giovanile e porta in copertina una deliziosa miniatura
della stessa Bishop (una cartolina augurale il cui testo legge
caratteristicamente: “May the Future’s Happy Hours Bring you Beans & Rice
& Flowers – April 27th, 1955 – Elizabeth”).
La scelta comprende 68 poesie, contro le 40 della
precedente bella traduzione di Margherita Guidacci, L’arte di perdere
(1982), del tutto ignorata dalla fascetta editoriale che ci informa che questa
è “la prima volta” che Bishop appare in traduzione italiana. (Una più esigua ma
significativa scelta di 30 poesie, pressoché clandestina, era apparsa nel 1993 a cura di Bianca Tarozzi.) Comunque ci
compiacciamo che finalmente Bishop abbia trovato un editore alla sua altezza,
che presumibilmente terrà questa elegante scelta in catalogo per anni a venire
(poi ne uscirà un’altra che affermerà di essere la prima!).
La pattuglia di traduttori che evidentemente hanno
lavorato di concerto (non è indicata ripartizione di compiti) è fra le più
valide. Ogni soluzione rivela una lunga riflessione e merita di essere
studiata, e l’esito complessivo è ottimo. Si potrebbe confrontare la sempre
notevole Guidacci con le nuove versioni per discutere appunto su cosa una
traduzione ha da essere. La diversità delle scelte e il passaggio del tempo non
significa senz’altro che la nuova traduzione sia preferibile alla vecchia.
Gioca su un altro tavolo, più scaltro.
Per esempio la toccante villanella che è difficile
leggere senza cedere alla commozione, One Art, che Guidacci traduce
logicamente Un’arte, qui diventa con un colpo di mano L’arte è sempre
quella. Non direi però che questo è il senso di One Art. L’arte di
perdere è un’arte, o “quell’arte” (Inf. 10.51), in quanto
distinta dalle altre (come la poesia).
Insomma Abeni-Duranti-Fatica rischiano di essere troppo bravi, e forse
occorrerebbe fare un discorsetto su “La modestia del traduttore”. Fatica ha
anche ben meritato con la sua Nota conclusiva, stringata e in chiave,
preparandoci ai rigori e abbandoni della cara Elizabeth.
Un mostro di intelligenza, come una volta notò
un’altra aspirante scrittrice che s’era messa a scuola da Marianne Moore. La
quale infatti è la fata madrina di Bishop, che continua a parlare di animaletti
e paesaggi in strofe intricate, ma poi si apre via via a riflessioni distese e
comincia forse a guardare non più a Marianne ma a Robert (Frost). Si veda la
lunga descrizione di paesaggi della Nuova Inghilterra che apre L’alce.
Il mondo di Bishop è quello regionale del Paese degli abeti aguzzi
(1896) di Sarah Orne Jewett, altra partecipe osservatrice, altra donna che
visse soddisfatta un “Boston marriage” con un’altra donna.
Meno soddisfatta Bishop, che invece come ben dice
Fatica è sempre sola, sempre pronta a perdere, terribilmente lucida sulla
vanità del tutto. Segnalo la bella prefazione di Tim Parks agli aforismi di
Mario Andrea Rigoni, Variazioni sull’Impossibile (Padova, Il Notes
Magico, 2006). Parks ci ricorda che scopo dell’arte è rendere sopportabile
l’insopportabile, anzi ci permette leopardianamente di affrontarlo, e la
paragona al “farmaco” che Elena nell’Odissea versa nelle coppe a
Telemaco e Menelao. Questa funzione è evidente nell’arte della Bishop, che crea
i suoi intarsi di parole americane, nette e succose, per celebrare quel che c’è
da godere (poco) e chiarire che si tratta di un lampo di breve durata.
Così avviene nella poesia di ambiente brasiliano
(paese dove Bishop si rifugiò per quasi due decenni) Canto per la stagione
delle piogge, che racconta un luogo di bellezza e amore con un tono di inno
protestante (altro carattere che lega Moore a Bishop):
Ascosa, oh ascosa
nella nebbia alta
la casa in cui abitiamo,
ai piedi della rupe
magnetica, gravata
da piogge e arcobaleni,
ove, presenze familiari,
spontanee, si aggrappano bromelie
nerosangue, gufi, licheni
e filacce delle cascate.
Sono strofe di dieci versi dove nell’originale ogni
verso rima con un altro. Questo non succede nella traduzione che però in altri
testi trova felicemente soluzioni di rime (o riesce a rispettare le chiuse
ricorrenti delle sestine).
Comunque
siamo nella casa della vita, della gloria, ma nell’ultima delle sei strofe la
gioia svanisce con il sopraggiungere dell’estate:
Senz’acqua
la grande rupe spiccherà
smagnetizzata, nuda,
senza il velo
di arcobaleni o piogge,
senza l’aria clemente
e l’alta nebbia;
traslocheranno i gufi
e le svariate
cascate avvizziranno
sotto un sole fermo.
And
the several / waterfalls shrivel / in the steady sun. Guidacci
aveva tradotto “sotto un sole implacabile”.
Entrambe le soluzioni hanno i loro meriti, forse quella nuova è
preferibile perché lascia al lettore estrapolare la connotazione negativa.
L’inglese di Bishop è di solito piuttosto lineare e
non presenta grandi difficoltà di lettura. Ci sono dei versi certo che
rimangono enigmatici, certe considerazioni di sapore metafisico sulla
conoscenza (At the Fishhouses) o sulle ragioni del viaggio (Questions
of Travel). Oraziana mancata, Bishop sogna un asilo
irraggiungibile, una casa sulla spiaggia:
I’d
like to retire there and do nothing,
or
nothing much, forever, in two bare rooms:
look
through binoculars, read boring books,
old,
long, long books, and write down useless notes,
talk
to myself, and, foggy days,
watch
the droplets slipping, heavy with light.
At
night, a grog à l’americaine.
(The End of March)
Quello americano continua a essere un universo
domestico, fatto di pochi amici e gesti solitari, e di un’arte che è
osservazione di un mondo moralizzato e confessione. Manca nella scelta
adelphiana uno dei tardi ampi ritratti brasiliani, Manuelzinho, che
Bishop stessa volle registrare e che è una contemplazione disincantata e
tenerissima dell’umanità nuda (quella che più tragicamente scoprì il vecchio
Lear) nei panni di un giardiniere indigeno amabile e incorreggibile. Sentire la
voce di Bishop leggerla con le sue pause, le sue cadenze, le vocali aperte...
Che sguardo freddo e amoroso, che amore freddo.
Bishop in fondo ci ha dato una manciata di poesie disincantate. E’ poco, ma è
pur sempre il meglio di una stagione. E il meglio che un lettore possa
scoprire, grazie anche ai valorosi che hanno fatto a gara coi loro vari talenti
per farla parlare in altre lingue.