Ritroviamo e poniamo nella sezione “Archivio” questo interessante saggio di Bacigalupo pubblicato nel 2003 fra gli Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere (6-6, pp. 296-323).

Massimo Bacigalupo

America: una cultura etica?

La svolta culturale

     Da alcuni anni gli studi letterari vengono iscritti in un ambito più ampio di studi culturali, anche in risposta alle esigenze delle nuove generazioni di studenti, fra cui i letterati puri o coloro che si dedicheranno all’insegnamento linguistico e letterario sono un’esigua minoranza, mentre la maggioranza dei discenti chiede degli strumenti che gli permettano di comprendere le linee portanti di una cultura, e anche le strutture politiche e giuridiche che essa si è data. Negli Stati Uniti i dipartimenti di inglese si sono spesso evoluti o scissi in dipartimenti di “cultural studies”, in cui i corsi e le ricerche riguardano insieme gli strumenti di comunicazione, i testi (che possono essere letterari quanto musicali, cinematografici ecc.), la storia e la società. Il rischio è evidentemente una perdita di specificità e competenza, giacché il letterato diventa una sorta di culturologo e si affaccia in campi la cui metodologia può difficilmente padroneggiare. Per esempio molta fortuna ha avuto in America negli ultimi decenni del secolo XX una critica “post-strutturalista” di tipo latamente filosofico, decostruzionista ecc. Ma naturalmente i filosofemi dei letterati stentano a convincere i filosofi, e nel nome del post-struttualismo sono state pubblicate dalle case editrici universitarie centinaia di volumi che ormai in gran parte possono interessare solo come documenti di una svolta della critica, per ciò che ci dicono dei loro estensori e della cultura, accademica e non, di cui facevano parte. E questo potrà essere il rischio dei troppo ambiziosi studi culturali, laddove il vecchio “close reading” (lettura ravvicinata) degli anni 1950, contro cui tutto quanto è seguito è una reazione, ha se non altro lasciato qualche importante appunto di lettura a cui chi vuole leggere, ad esempio l’opera poetica di T.S. Eliot, non può non far riferimento.

       Il nome  di Eliot non è casuale, in quanto egli per  molti versi indicò la direzione che avrebbe seguito la critica del suo tempo e creò l’opera più adatta ad esercitazioni di acribia e ricerca delle fonti. D’altra parte, Eliot, americano, fu molto impegnato su diversi fronti come direttore editoriale, membro di organizzazioni della chiesa anglicana a cui aveva aderito quando ottenne la cittadinanza inglese, e pubblicò fin dal 1947 un volume intitolato Notes Towards the Definition of Culture. Egli era ben lungi dal vivere in un mondo di pura letteratura, scrisse drammi di successo con l’occhio ai gusti del pubblico dei decenni centrali del secolo, e anche nell’opera poetica affrontò sempre di petto il mondo contemporaneo e i grandi eventi della sua epoca, soprattutto i due conflitti mondiali.

     Eliot appartiene al gruppo di scrittori emersi intorno al 1915 che la critica angloamericana chiama “modernisti”, e che appunto negli anni 1950 furono studiati come esempi di pura testualità. Oggi invece non ci sfugge quanto poco essi fossero isolati dalla cultura coeva, e ci fa sorridere la diffusa opinione critica di cinquant’anni fa che le loro opere fossero impersonali e in qualche modo atemporali, opinione che erigeva a dogma la teoria dell’impersonalità dell’arte esposta da Eliot in un saggio influente quanto apodittico del 1919, Tradition and the Individual Talent.

      Al Modernismo angloamericano vengono di solito avvicinati tutti i maggiori scrittori fra le due guerre: i britannici Virginia Woolf, D.H. Lawrence, W.B. Yeats, James Joyce, Samuel Beckett, e gli americani Gertrude Stein, Wallace Stevens, Robert Frost, T.S. Eliot, Ezra Pound, William Carlos Williams,  Marianne Moore, E.E. Cummings, Hart Crane, William Faulkner, F.S. Fitzgerald, Ernest Hemingway... Il termine Modernismo è dunque assai generico, ma indica una certa dose di sperimentazione con le forme espressive, che però è più o meno evidente in uno o l’altro degli scrittori or ora citati (per es., Lawrence, Frost e Fitzgerald si valgono di forme scarsamente innovative nei rispettivi generi). Comunque non sarebbe difficile raccontare la storia del primo Novecento in Europa e America scegliendo brani di questi scrittori che in passato si sono letti come autonomi, architetti di sinfonie astratte.

      Ciò che forse non è cambiato nel corso della rilettura degli ultimi decenni è il canone del Modernismo: è probabile che i nomi elencati sopra restano quelli più spesso citati e considerati più rappresentativi, a parte qualche cambiamento nell’ordine d’importanza relativa, a giudicare dallo spazio assegnato nelle storie letterarie e nelle antologie, e qualche aggiunta. Inerzia delle case editrici e degli studiosi? Evidentemente i canoni tendono a riprodurre se stessi,  e poi gli studenti degli anni 1960, che hanno ancora fatto in tempo a conoscere i maestri della generazioni eliotiana, da Lionel Trilling a Cleanth Brooks, sono i professori e antologisti di oggi, e non di rado (quando si aggiornano) travasano il vino vecchio in nuove bottiglie “culturali”.

       Dunque negli ultimi anni v’è stata una svolta culturale degli studi letterari, specialmente angloamericani. I “Dipartimenti di Studi Americani” riuniscono storici, letterati, storici della cultura, studiosi della comunicazione e delle arti. L’autorevolezza dei modelli accademici americani e la loro capacità di diffusione, sostenuta da una robusta economia editoriale, fa sì che la Gran Bretagna e l’Europa, per lo meno nei dipartimenti di inglese, abbiano seguito la stessa strada. Anche a Genova da qualche anno nella Facoltà di Lingue gli insegnamenti si chiamano non “Letteratura X” ma “Letteratura/cultura X”. E le ragioni non sono meramente di aggiornamento accademico ma rispondono alle reali esigenza del corpo studentesco che si dicevano.

 

Origini puritane

      Per quanto riguarda la cultura nord-americana, questo approccio si rivela particolarmente proficuo per ragioni che hanno a vedere con le origini stesse della cultura di oltreoceano. Le colonie sono nate, come sappiamo, quattro secoli or sono, e hanno dovuto affrontare in epoca relativamente moderna un periodo di formazione di cui in Europa non si conservava più memoria. La migrazione in una terra remota e pressoché vergine, il confronto con una natura inclemente, non umanizzata dal lavoro di generazioni, la creazione di istituzioni, la mappatura del territorio. Non per nulla i Padri Pellegrini del Mayflower si riconoscevano nella saga di Israele che ritorna nella Terra Promessa, e fecero della Bibbia, specie del Vecchio Testamento, oggetto costante di confronto e guida. I primi americani sono dunque una gente moderna e alfabetizzata che si trova in una situazione arcaica e primitiva, alla quale risponde tenendosi stretta all’ideologia cristiana e instaurando una morale severa, intollerante dei comportamenti asociali. I villaggi della Nuova Inghilterra furono tutti costruiti intorno al “Common”, il grande campo comune quadrato, sul quale si affacciava la “meeting house” o chiesa e in mezzo al quale si ergeva la gogna, dove ubriachi ladri adulteri e blasfemi venivano messi alla berlina per un periodo stabilito dalle autorità.

     In una società così fortemente segnata dall’impegno morale collettivo e dall’etica dell’utile, la produzione letteraria doveva rispondere a fini didascalici ed edificanti. Cronache, annali, sillabari, manuali, sermoni, poesie meditative: tutti generi che avevano i loro prototipi nei libri della Bibbia. A rischio di generalizzare, si potrebbe sostenere che la  cultura americana è restata fedele a questo primo modello, e che l’idea dell’intrattenimento, dell’arte come gioco e svago, le rimane sostanzialmente estraneo. Nel Settecento troveremo un’ampia pubblicistica imperniata su questioni legate all’Indipendenza: riflessioni politiche e personali (come l’Autobiografia di Franklin) o poemi sul destino glorioso della nuova America illuminista e democratica. Nell’Ottocento i capolavori del cosiddetto “Rinascimento americano” rivisitano la forma del sermone, dai conferenzieri e ideologi Emerson e Thoreau alle visioni di Melville e Whitman, autori di veri e propri libri profetici (Moby-Dick, Leaves of Grass) della Bibbia americana. A questa narratori come Poe e Hawthorne forniscono le parti narrative, con le loro storie edificanti e terribili.

       Una peculiarità della letteratura americana è che alcune delle sue opere maggiori sono difficilmente classificabili, Moby-Dick per tutte, e forzano la gabbia dei generi tradizionali. Il poema-manifesto di Whitman, Song of Myself, è nuovo nella forma come nei temi, anche se possiamo trovargli antecedenti in Ossian o nelle Upanisad, cioè in testi più o  meno arcaici per origine o scelta stilistica. Anche Hawthorne e Poe scrivono dei romanzi-saggi, e si rivolgono direttamente ai lettori con intenti didascalici ancorché ambigui.

        Questa tradizione didascalica si continua negli esponenti del realismo e del verismo. Henry James per quanto si dica allievo di Flaubert ha una fantasia mitico-allegorica. Nel Novecento T.S. Eliot, ammiratore di James, si vuole uomo di chiesa e i Four Quartets sono delle meditazioni cristiane, che dei lunghi sermoni puritani hanno l’incantamento, l’ipnosi ripetitiva. The Great Gatsby di Fitzgerald è una smagliante allegoria del fallimento dell’America; Farewell to Arms di Hemingway un duello puritano di Amore e Morte: questo per citare i romanzi forse più noti che l’America ha dato al Novecento. L’interrogazione sull’onestà della coscienza individuale è centrale in entrambi. L’imperativo morale di fondo può riscontrarsi anche nei prodotti della cultura di massa, in primis il cinema: l’intolleranza, l’ingiustizia, il razzismo, la disonestà sono spesso i mostri contro cui si scaglia l’eroe senza macchia, o anzi opportunamente umanizzato dalle sue debolezze, alla ricerca di un riscatto dall’inevitabile corruzione attraverso “una continua rinuncia al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso”.[1]

       La cultura americana ha il suo carattere distintivo in un assillo morale, e i suoi testi sono sempre in qualche misura didascalici, espressione non squisitamente letteraria ma funzionale, pratica: diario in pubblico con cui una coscienza si interroga (si pensi ai cosiddetti poeti confessionali del secondo Novecento: Robert Lowell, John Berryman, Elizabeth Bishop e, perché no, Allen Ginsberg). Allora è evidente che per intendere ad esempio Walden di Thoreau o Leaves of Grass di Whitman non bastano gli strumenti dell’analisi testuale ma occorre partire dalla storia contemporanea e dalle ideologie e dalle forme della retorica: non si può prescindere da un approccio culturalista.   

        Una forma del sermone è la geremiade, che apostrofa il popolo traviato richiamandolo ai valori fondanti della comunità  e alla parola di Dio. Come s’è visto le allocuzioni di Thoreau e Whitman possono leggersi come varianti del genere. Qui il predicatore si trova isolato davanti a una società complessivamente dimentica dei suoi ideali, sicché il sermone si muta nell’espressione di un dissenso individuale, che non ha bisogno di altra conferma della propria convinzione: la verità interiore di cui il poeta è portatore. Così Thoreau compone nel 1849 il suo saggio-conferenza Resistance to Civil Government, in cui rivendica all’individuo cioè a se stesso il diritto di negare la propria collaborazione a un governo le cui azioni ritiene inique: saggio che sarà letto da Tolstoi come da Gandhi e che è alle origine delle idee moderne della non-violenza e della resistenza passiva.

 

La critica di Hawthorne

     La  Nuova Inghilterra della prima metà dell’Ottocento vide il fiorire del Trascendentalismo di Emerson e di diverse comunità utopiste che cercarono di mettere in pratica gli ideali della giustizia, dell’eguaglianza e del lavoro condiviso.  La più nota, Brook Farm (1841-47), sita nei pressi di Boston, passò dal trascendentalismo al fourierismo. Attirò anche letterati, fra cui Nathaniel Hawthorne, che diede una versione dichiaratamente romanzesca della sua esperienza in The Blithedale Romance (noto in italiano col titolo Il romanzo di Valgioiosa), pubblicato nel 1852, solo cinque anni dalla fine dell’esperimento. Nativo di Salem, antico porto puritano tristemente famoso per la caccia alle streghe del 1692, Hawthorne è uno dei maggiori esempi della visione morale americana: perennemente insoddisfatto, scruta il suo animo e le vite altrui scorgendone le debolezze e allo stesso tempo sottopone a critica il proprio voyeurismo morale, che è poi quello del romanziere. Nel suo capolavoro The Scarlet Letter (1850) narra in terza persona le torture autoinflitte di un terzetto adultero, toccando senza remore un argomento sconveniente e allargando il campo dall’intimo alle strutture sociali, giacché la vicenda coinvolge una delle guide spirituali della Boston del Seicento, l’idolatrato reverendo Arthur Dimmesdale.

     The Scarlet Letter ha una lunga prefazione, The Custom-House, in cui Hawthorne racconta in prima persona come, ottenuto un impiego alla Dogana di Salem grazie ai buoni uffici del governo del presidente democratico James Polk, e prima di essere defenestrato dalla successiva amministrazione del presidente whig Zachary Taylor, egli abbia trovato nella soffitta della sonnolenta Dogana la cronaca  manoscritta da cui avrebbe tratto The Scarlet Letter, e la lettera stessa che la protagonista Hester Prynne fu condannata a portare tutta la vita sul petto: “A” per “Adulterio”. Questa introduzione, avverte una nota in un’edizione corrente, fu scritta da Hawthorne “per conferire realismo alla narrazione, per esprimere le sue idee sul romanzo e per attaccare i politici whig che avevano provocato il suo licenziamento”.  Si tratta in ogni caso di un’aggiunta che sfugge alla logica narrativa e presenta la stessa indifferenza nei confronti dei generi che si notava come caratteristica dei capolavori americani, tant’è vero che spesso nelle traduzioni essa risulta notevolmente scorciata. Hawthorne, geloso e solitario letterato, vi assume i panni bonari del pubblico funzionario e descrive con umorismo le macchiette dei vari dirigenti e impiegati in una istituzione che ha da decenni perduto la sua funzione (i commerci marittimi di Salem languivano, essendosi in gran parte spostati nella vicina Boston). Non senza dare prima un resoconto problematico dei rapporti della sua famiglia con Salem, a partire da William Hathorne (1607-1681) che arrivò dall’Inghilterra col primo gruppo di coloni nel 1630:

 

He was a soldier, legislator, judge; he was a ruler in the Church; he had all the Puritanic traits, both good and evil. He was likewise a bitter persecutor; as witness the Quakers, who have remembered him in their histories...[2]

 

Sono passati due secoli e un quarto, dice Hawthorne, dall’arrivo di questo accigliato progenitore sulla costa della Nuova Inghilterra, ed egli sottopone a un  pubblico processo l’antenato e il figlio John, che fu fra i giudici delle “streghe” del 1692,  e chiede pubblicamente perdono per i loro peccati. Tanto più che allude alla leggenda di una maledizione scagliata da una delle vittime contro il giudice e la sua famiglia, la cui efficacia, dice, sarebbe provata dalla decadenza degli Hathorne (“the dreary and unprosperous condition of the race, for many a long year back”). Quanto gli americani sentano la presenza del passato sembra confermato dal fatto che essi continuano a riflettere sui processi del 1692. A Salem esiste un monumento dedicato alle vittime, una specie di recinto chiusi da un basso muro di pietra su cui sono incise le proteste di innocenza degli accusati. La tomba di John è nei pressi. Ancora pochi anni fa il parlamento del Massachuisetts con un atto pubblico ha prosciolto – postumamente – le vittime di Salem. Evidentemente nella società americana permane una fiducia nella validità anche retroattiva (a distanza di oltre tre secoli) della Legge.

     The Custom-House è un avvio molto personale e coinvolgente, tutto sostenuto dalla disinvoltura del letterato che sorride pur parlando delle colpe famigliari. Probabilmente, osserva, i persecutori William e John si riterrebbero abbastanza puniti se sapessero che il loro discendente è uno... scrittore:

 

“What is he?” murmurs one gray shadow of my forefathers to the other. “A writer of story-books! What kind of a business in life, – what mode of glorifying God, or being serviceable to mankind in his day and generation, – may that be? Why, the degenerate fellow might as well have been a fiddler!” Such are the compliments bandied between my great-grandsires and myself, across the gulf of time! And yet, let them scorn me as they will, strong traits of their nature have intertwined themselves with mine.

 

La scrittura di romanzi non rientra, al dire dei progenitori, in nessuna categoria di lavoro onesto: non glorifica Dio e non è “utile all’umanità nei suoi giorni e nella sua generazione”. E non appartiene a nessun “kind of business”. Più avanti, dopo i ritratti dei colleghi, Hawthorne narra il reperimento (fittizio) dell’incartamento della storia di Hester Prynne e dice che esso rimane lettera morta finché la sua mente è occupata a far poco nella Dogana. Poi, con l’ascesa al potere dei whig, dopo un po’ di incertezza, la sua testa “cade” (1849), il che, dice, giustifica la pubblicazione di queste pagine così personali – sono pressoché postume! – e lo riporta al suo mestiere più congeniale. E il romanzo segue (1850).

            In  questo modo Hawthorne lega la sua escursione nel Seicento alla realtà politica e autobiografica immediata, e cancella il confine fra romanzo e attualità. Così come The Blithedale Romance dista pochi anni dagli eventi che lo ispirarono, e che i lettori sicuramente conoscevano. Una cronologia degli eventi pressoché contemporanea alla stesura dell’opera è .caratteristica comune a molti cospicui romanzi americani, da Fiesta di Hemingway a The Sound and the Fury di Faulkner a The Great Gatsby. Anche il mondo allucinato di Moby-Dick non si sottrae del tutto a questa costante: Melville era tornato nel 1841 dalle peregrinazioni nel Pacifico da cui trasse ispirazione per quasi tutti i suoi romanzi, e Moby-Dick uscì nel 1851. Questa riflessione sulla contemporaneità fa del romanzo a suo modo una cronaca, dunque uno strumento utile, quasi rispondendo al disprezzo per i pennaioli che Hawthorne attribuisce ai suoi antenati. Scrivere romanzi è un modo di glorificare Dio e essere utili all’umanità. Ed è anche un “business”: lavoro, professione.

    La critica dell’attualità è ancora più vistosa in The Blithedale Romance, dove Hawthorne assume i panni di un narratore non del tutto affidabile, Miles Coverdale, il quale partecipa tiepidamente all’esperimento comunitario di Blithedale, facendo dell’umorismo sulle differenze sociali, sui vari egoismi e sull’incompetenza agricola dei partecipanti. Su questo sfondo documentario ambienta la vicenda romanzesca di Hollingsworth, l’autoritario ed egocentrico capo della comunità, destinato al fallimento, e della sua compagna ideale Zenobia, donna imponente e volitiva con un passato di attrice, che però si vede sostituita nell’amore di Hollingsworth dalla eterea e mediumistica sorella (scopriamo solo alla fine) Priscilla, e finisce suicida per annegamento in una scena crudamente realistica. Coverdale è solo testimone della tragedia, e confidente dei suoi protagonisti, attento osservatore critico dell’ambiente sociale e delle trepidazioni degli animi. La posizione di Hawthorne nei confronti del “sacro esperimento” americano[3] non è dunque ottimistica. Salem è una città vecchia e polverosa abitata da macchiette che non hanno più alcuna funzione e da fantasmi gravati da pesanti colpe. I rivoluzionari di Blithedale sono un gruppo di incapaci, al meglio degli illusi, al peggio dei manipolatori. Il mondo giovane nasce vecchio, lo scrittore guarda l’attualità e vi scorge lo scontro di coscienze elementari, problematicità, giacché non vi è facile soluzione.

     Visto che Hawthorne era uno scrittore che godeva di un discreto successo, pienamente padrone dei suoi mezzi e corteggiato dagli editori, letto sia in patria che in Inghilterra, è notevole che i suoi romanzi altamente elaborati e compiuti pongano domande più di quanto non diano risposte. Come il suo predecessore Scott egli rivisita il passato nazionale, ma non per trovare glorie o consolazioni che illuminino il presente, bensì perché il passato è tutt’uno con la vita che in America si continua a vivere. Il Doganiere di Salem dialoga coi suoi avi prima che i whig neoeletti gli “taglino la testa”, poi continua il dialogo nel suo studio interrogando l’utilità del suo lavoro di letterato e narratore di storie (“A writer of story-books!”).

 

Romance e Novel: Henry James

    Nella prefazione al romanzo che seguì The Scarlet Letter e che è tutto ambientato a Salem, The House of the Seven Gables (1851), Hawthorne propone di distinguere il “Romance”, che sarebbe il genere di narrazione fantastica da lui praticato, dal “Novel”, da cui ci si aspetterebbe maggiore realismo e verosimiglianza. Così egli può di nuovo “collegare un tempo lontano con il presente stesso che va svanendo sotto i nostri occhi”,  parlando di una grande famiglia decaduta a causa di una maledizione ancestrale,  e dei suoi discendenti impoveriti che senza saperlo ospitano in casa un “dagherrotipista” erede dello stregone che maledì l’avo giudice. Qui almeno giustizia viene fatta e il romanzo ha un lieto fine quando la discendente del giudice Pyncheon sposa il fotografo (la consueta riflessione sulla rappresentazione e lo sguardo). Ma il tono di Hawthorne rimane ironico, descrittivo, insieme realistico e fiabesco.

            In un suo fondamentale libretto dedicato a Hawthorne, Henry James liquidava la distinzione fra novel e romance come una bizzarria irrilevante ai fini dell’arte del romanzo, di cui egli era paladino, cioè come una distinzione puramente contenutistica laddove dovrebbero predominare delle istanze formali.[4] In effetti Hawthorne non ha ambizioni teoriche, dice tranquillamente di scrivere di una landa che non è del tutto identificabile col mondo oggettivo come lo conosciamo e chiede indulgenza a riguardo. Ma la distinzione fra romance e novel ha avuto fortuna perché sembra indicare la differenza fra narrativa d’oltreatlantico e britannica. Moby-Dick, The Scarlet Letter, The Adventures of Huckleberry Finn, per non dire dei racconti di Poe, sono opere in cui il mito e la fantasia hanno più spazio che nelle opere di Jane Austen e George Eliot e persino Charles Dickens. Non si può generalizzare, ma la letteratura americana – da Hawthorne a James a Eliot – sembra attingere più direttamente di quella europea al mito, alla fiaba, e curarsi meno delle minuzie dei  caratteri e dei rapporti sociali. La ragione è appunto il ritorno dell’arcaico nel presente che come si diceva caratterizza l’esperienza del colono nel Nuovo Continente. Più che essere spettatore di un intrico e intrigo di rapporti sociali (si pensi anche a Proust), egli guarda gli uomini e le donne come dei solitari che si confrontano lungo tutto l’arco della loro vicenda coscienziale con le domande ultime: la natura, Dio, il peccato.

     Come s’è accennato, proprio Henry James che liquidava le teorie di Hawthorne e si riteneva un esponente del realismo e curava moltissimo le relazioni sociali durante una vita trascorsa in gran parte in Inghilterra, ha poi scritto sempre dei romances in cui vera protagonista è la coscienza. Si pensi a The Portrait of a Lady, forse la sua opera più compiuta, che ha tratti allegorici (l’amore contro l’interesse) ed è in sostanza la storia di una principessa rapita da Barbablù; o a The Bostonians, importante affresco sociale di James che forse a insaputa dell’autore ricalca alcuni episodi di The Blithedale Romance (che è anche una storia di bostoniani o bostoniane, e a Boston colloca alcuni episodi centrali). The Bostonians è un’ altra vicenda di fanciulla-medium contesa da una matrigna possessiva e un principe autoritario, sicché la vittoria di quest’ultimo non è proprio un lieto fine.

     James si avventurò scopertamente nel terreno hawthorniano dei fantasmi del passato in diversi racconti perturbanti che sono fra i suoi più noti: The Turn of the Screw, The Jolly Corner, The Beast in the Jungle, lo straziante The Altar of the Dead. Così lo scrittore forse più perfetto e maturo che l’America abbia dato ha continuato con la sua arte poderosa a narrare delle fiabe della nonna, come se queste potessero raffigurare i segreti della realtà e del mondo morale che soprattutto gli premeva.

     Un’arte morale. Forse James, per quanto autore di un’opera vastissima e di costante pregio (dai romanzi ai racconti ai saggi agli scritti di viaggio), fu meno sicuro del suo pubblico di Hawthorne, fu meno letto, giacché con lui si apre la stagione del romanzo alto, moderno, che ha bisogno di un pubblico appassionato ed è da esso idolatrato ma difficilmente si fa strada da solo nel cuore della massa dei lettori. E’ la stagione modernista, che come s’è visto in America ha numerosi esponenti, più o meno popolari.

 

La fatica di leggere: Faulkner

      Se la letteratura in America ha una vocazione didascalica, si spiega perché il pubblico accolga opere impervie come i romanzi di William Faulkner, in cui il piacere della lettura è in parte dovuto alla soddisfazione di risolvere un rompicapo. Per tutti, The Sound and the Fury, bellissimo e disperante, e soprattutto un altro esempio di gotico americano. Una vecchia famiglia del Sud oppressa dalle glorie passate. Un padre alcolizzato e inetto, una moglie nevrastenica, un figlio innamorato della sorella e suicida, un altro figlio idiota dalla nascita e castrato per un presunto tentativo di stupro ai danni di una bambina, un terzo figlio gretto fino alla paranoia, una figlia ninfomane e infine prostituta di alto bordo...  Faulkner nel 1929 non ha lesinato gli elementi sensazionali, ma per ricavarli da The Sound and the Fury occorre leggere il romanzo diverse volte. Visto che nel primo episodio monologa il figlio idiota che confonde tutto, e il fratello suicida Quentin porta lo stesso nome della nipote, la figlia del peccato della sorella. Capire dunque se l’idiota parli dell’uno o dell’altra non è all’inizio facile, ammesso che si capisca che sono due.

      Ma queste considerazioni sono basate sulla finzione di un lettore che si avvicini per la prima volta, ignaro, a The Sound and the Fury, come a un qualsiasi altro romanzo. Mentre nell’era modernista non esiste lettore ingenuo, i libri sono accompagnati dalla loro fama e da note e introduzioni, non vengono letti ma semmai riletti. Si pensi al caso classico dell’Ulysses di Joyce. Il romanzo diventa un manufatto culturale che si visita più che leggerlo, come si visita un’opera in un museo. Poi uno ne legge qualche pagina o, in una situazione di solito didattica, l’intero testo. Come nel museo non passeremo più che qualche minuto davanti a un’opera di Botticelli o Kandinsky. Basta il colpo d’occhio, se non siamo pittori o studenti di storia dell’arte.

            Queste caratteristiche impervie che di solito si associano alla stagione modernista in Gran Bretagna come in America (si pensi ai romanzi a loro modo ardui di una Virginia Woolf) si ritrovano frequentemente nella narrativa americana (per non dire della poesia) lungo tutto l’arco del Novecento. Alcuni degli scrittori più considerati degli anni ’60 come William Gaddis e Thomas Pynchon  hanno rivaleggiato con Faulkner e Joyce nel presentare opere immense e disagevoli, e lo stesso avviene oggi per un romanziere come Don De Lillo e persino per scrittori di western come Cormac McCarthy o Annie Proulx. Tutti autori che utilizzano uno stile congestionato e non standard nella punteggiatura, nella lunghezza dei periodi, aspirando come Faulkner a sedurre il lettore e condurlo nel loro labirinto passionale e fantastico. Sono dunque opere molto ambiziose, e gli editori non esitano a pubblicarle, vendono migliaia di copie, ma sarebbe interessante vedere quanti lettori effettivamente leggono il libro acquistato. La narrativa continua ad avere un ascendente culturale e morale, e in questo frequente ritorno al barocco, alle cadenze altisonanti e shakespeariane, ci ricorda che il libro che i coloni di Plymouth, Boston e Salem portavano con sé era la Bibbia di re Giacomo, modello insostituibile di sonorità sublime ed eccentrica. Non credo che in un altro paese occidentale si trovino analoghi esempi di libri difficili proposti al pubblico come un dovere culturale e forse alla fine anche letti e apprezzati da lettori che continuano a risentire della retorica del sermone.

 

Nel nostro tempo: Hemingway

            Naturalmente non tutta la narrativa americana presenta questi eccessi stilistici alla James e Faulkner. In tutto il mondo Hemingway ha fatto scuola col suo stile spoglio, che non usa una parola di troppo,  e che è una reazione alle ampollosità dei suoi predecessori. Ciò non gli impedì di trarre i titoli dei suoi romanzi da testi barocchi (The Sun Also Rises dall’Ecclesiaste, For Whom the Bell Tolls da John Donne, A Farewell to Arms da George Peele). Mentre altri seguivano il modello del sermone interminabile, appassionato e escatologico, Hemingway vigila sui minimi moti della coscienza con uno scrupolo morale a cui nulla sfugge, e pone l’individuo sempre al confronto con fatti estremi (la natura, la morte, l’amore negato)  chiedendogli di mantenere uno sguardo fermo. Celebre ed esemplare il racconto A Clean, Well-Lighted Place, sul solitario cliente sordo che attende la morte in un caffè spagnolo mentre i due camerieri che alla fine della giornata vorrebbero chiudere riflettono sulla sua condizione di confronto col “nada”. Il caffè diventa il simbolico “luogo pulito e bene illuminato” in cui tenere a bada i fantasmi o affrontarli con coraggio: è il ring del pugile, l’arena del torero, il fronte: tutti luoghi da Hemingway frequentati e resi simbolici. C’è un assoluto pessimismo ma anche la convinzione che se non altro ai propri occhi (o a quelli di Dio) l’individuo può uscire dal confronto ineguale con il nulla e la vanità del tutto con intatta stima di sé. Ma non è mai finita, e la battaglia continua “nel nostro tempo”.

    Questo è un altro titolo (della prima raccolta di racconti di Hemingway) che rimanda alla Bibbia (la “pace nei nostri giorni” o “nel nostro tempo”, vedi Isaia 39.8). E’ curioso che esso sia già citato sardonicamente nel 1776 da Thomas Paine nel suo libello incendiario Common Sense, a proposito di un oste conservatore (tory) che tenendo un bimbo per mano si azzarda a dichiarare: “Well! give me peace in my day”. Secondo Paine, un “padre generoso” avrebbe invece detto: “If there must be trouble let it be in my day, that my child may have peace”. Preferendo la lotta per l’indipendenza nei suoi giorni per garantire al figlio un’età pacifica.

      L’allusione hemingwayana è altrettato ironica, visto che nei suoi racconti v’è ben poca pace, e anzi essi sono scritti dal punto di vista della guerra in corso (la grande guerra in cui Hemingway giovanissimo era stato gravemente ferito e così aveva avuto il suo primo e decisivo incontro con la morte). La frase “peace in our time” sarà ancora usata in maniera proverbialmente infausta da Neville Chamberlain dopo che egli negoziò il Patto di Monaco nel 1938, e la ritroviamo senza ironia su una pagina dei Canti pisani di Ezra Pound rimasta esclusa dal testo definitivo:

 

and it might have been avoided if

            Joe Davis had gone to Berlin instead of to Moscow

 

            “in our time

Give to us peace”

(repeat here in Russian from the old Russian Anthem

            Give to us peace in our time, O Lord)[5]     

 

Pound nel novembre 1945 era ancora persuaso che la II guerra  mondiale fosse un optional, che “si sarebbe potuta evitare” con un po’ di diplomazia, e per lui quello che contava era preservare la pace a tutti i costi. Così nel 1945 egli non si sarebbe trovato fra gli sconfitti e in un campo di prigionia per soldati americani. Comunque egli è convinto che l’espressione “Dacci pace nel nostro tempo” derivi da un inno russo, e incarica se stesso fra parentesi di reperire il testo in caratteri cirillici: uno dei non molti alfabeti assenti nei suoi Cantos poliglotti (cinese, egizio, sumero, arabo  ecc.). I Cantos sono un esempio vistoso della vocazione didattica americana, visto che offrono una ricognizione didascalica di epoche storiche e sistemi di governo e fanno la cronaca parziale della lotta contemporanea per la “giustizia sociale” come Pound la intendeva.[6]

    In realtà la frase deriva da un inno della Chiesa d’Inghilterra, donde la citazione di Chamberlain e prima di Hemingway, di famiglia episcopale (così si chiama in America la chiesa anglicana) anche se più tardi  simpatizzante cattolico. Il racconto A Clean, Well-Lighted Place termina con la nota variazione sul Padre Nostro e l’Ave Maria: “Our nada who art in nada, nada be thy name, thy kingdom nada thy will be nada in nada as it is in nada...”[7] Presenta una situazione di tranquilla disperazione, tutt’altro che di maniera, e si conclude con una caratteristica scrollata di spalle del vecchio cameriere che ne è il vero protagonista. “Dopo tutto, disse a se stesso, è probabilmente solo insonnia. Molti devono averla”.

            Hemingway rientra dunque a pieno diritto nella perenne autoindagine della coscienza puritana, e si fornisce di uno strumento di analisi di incomparabile efficacia. I suoi racconti sono spesso basati su un piccolo fatto parzialmente autobiografico che egli però sottrae alla cronaca (per questo smise di fare il giornalista) per darvi una forma elaborata e lineare come quella di una barca a vela (vedi l’orgogliosa flotta mercantile americana del primo Ottocento). La sua indagine prosegue oltre i racconti nei romanzi degli anni 1920 e poi nei testi anomali degli anni 1930: Death in the Afternoon e Green Hills of Africa, che stanno fra romanzo e saggio e sfiorano, specie il primo, la prolissità. Ma raccolgono in qualche modo l’eredità di saggi-romanzi come Walden di Thoreau e Moby-Dick di Melville, opere quanto mai barocche ed eccentriche, tali che forse solo l’America alla ricerca della propria identità di metà Ottocento avrebbe potuto crearle. Hemingway era uno sperimentatore instancabile, e ha lasciato alla morte migliaia di pagine inedite (alcune pubblicate dagli eredi come romanzi, in seguito a rimaneggiamenti abbastanza discutibili).

 

 

Rompere con il passato: Emerson

      Di solito alla tradizione americana dell’autolacerazione puritana, del disagio perpetuo, alla quale di possono riferire in modi diversi Hawthorne e Melville, Poe e persino Mark Twain, e forse gli spietati indagatori di debolezze e falsità Hemingway e Fitzgerald, si oppone una più vistosa tradizione celebrativa e fiduciosa, che avrebbe per capostipite Ralph Waldo Emerson e che sarebbe poi criticata sottilmente da Hawthorne in The Blithedale Romance e da Melville in racconti tragicomici come Bartleby o Cock-a-doodle-doo, per non dire dell’epica di Moby-Dick o della satira di The Confidence-Man.  Emerson scrisse della Self-Reliance, cioè della forza dell’individuo, della sua fiducia nelle proprie capacità, e così diede espressione all’individualismo americano, esaltando la coscienza singola a scapito della società che vorrebbe renderla conforme ai propri dettati. Emerson è uno scrittore memorabile e entusiasmante, che ispirò trascendentalisti e riformisti e continuò a essere letto anche nel Novecento. Un maestro di moralità positiva che aveva il dono della metafora efficace e dello stile contagioso, come una guida religiosa che alla rivelazione cristiana sostituisce il nuovissimo testamento dell’uomo americano.

     Nel 1837 tenne all’Università di Harvard una conferenza intitolata The American Scholar in cui invitava gli studenti a rivendicare il ruolo di “uomini pensanti” piuttosto che di “meri pensatori” (“vittime della società”). Passava in rassegna gli influssi che formano lo “scolaro”. In primo luogo la Natura:

 

There is never a beginning, there is never an end, to the inexplicable continuity of this web of God, but always circular power returning into itself. Therein it resembles his own spirit, whose beginning, whose ending, he never can find – so entire, so boundless.

 

E’ un tutto vivente dove la materia non si distingue dallo spirito, e dove un palpito o polarità è analogo all’altro.

     Il secondo influsso è quello del Passato, di cui i libri sono “il tipo migliore”. Ma Emerson mette in guardia da troppa deferenza nel confronto delle scritture: “Ogni età deve scrivere i suoi libri; o piuttosto ogni generazione per quella successiva”. I libri devono ispirare, “occorre essere inventori per leggere bene”. In fondo essi conservano solo una piccola parte della visione dei loro autori, che va ritrovata fra tante pagine morte (“l’ora di visione del veggente è breve e rara fra giorni e mesi pesanti”). E’ caratteristico il rifiuto di una tradizione presa come un tutto indiscutibile, e il principio che essa va in qualche modo riinventata: che è quanto suggeriva Eliot nel già ricordato saggio Tradition and the Individual Talent, dove però proponeva antiromanticamente di guardare non agli autori ma alle opere. Per Emerson invece dobbiamo guardare agli uomini, non all’arte.

     Come terzo elemento dell’educazione Emerson indica l’Azione, che è in parte riflessione su quanto siamo andati agendo. Comunque lo scolaro non è un contemplatore. In lui “l’azione è subordinata, ma essenziale. Senza di essa egli non è ancora un uomo. Senza di essa il pensiero non può mai maturare nella verità ... Io so solo nella misura che ho vissuto. Sappiamo all’istante quali parole siano cariche di vita, e quali no.” Emerson dunque attende “il gigante provvido che distrugga il vecchio e costruisca il nuovo”, che verrà dalla “natura selvaggia e non considerata”, così come “dai tremendi druidi e vichinghi derivarono finalmente re Alfredo e Shakespeare”.

            Nella conclusione Emerson parla dell’America e afferma di trovare conforto nell’umiltà della musa americana:

 

The literature of the poor, the feelings of the child, the philosophy of the street, the meaning of household life, are the topics of the time. It is a great stride... I ask not for the great, the remote, the romantic; what is doing in Italy or Arabia; what is Greek art, or Provençal minstrelsy; I embrace the common, I explore and sit at the feet of the familiar, the low. Give me insight into to-day, and you may have the antique and future worlds.

 

Così il colto Emerson propugna un superamento della cultura europea alla ricerca dell’autenticità dell’esperienza. E lo dice con le sue frasi provocatorie quanto meditate, che hanno l’efficacia ritmica e drammatica della poesia. (Emerson è poeta nei saggi più che nei molti versi assai prosastici che scrisse.)

     Emerson è spesso considerato un moralista fumoso. In The American Scholar non manca di citare “un uomo di genio che molto ha fatto per questa filosofia di vita, intendo Emanuel Swedenborg”, e credo che non molti oggi lo seguirebbero su questa strada. Ma Emerson non ha cessato di essere guida a generazioni di “scolari”, americani e non, ed espresse il suo genio poetico solo in quegli ininterrotti soliloqui, pacati e nervosi, che sono i suoi saggi. Non mancano nemmeno i poeti e gli uomini di azione del secolo successivo che affermano di esserne stati ispirati. Il musicista Charles Ives, fra i maggiori innovatori del Novecento musicale, ne trasse costante nutrimento e a lui dedicò un movimento della sua Concord Sonata per pianoforte (gli altri sono intitolati a Thoreau, gli Alcott e Hawthorne).

    Leggiamo le frasi conclusive del saggio:

 

We will walk on our own feet; we will work with our own hands; we will speak our own minds. The study of letters shall be no longer a name for pity, for doubt, and for sensual indulgence. The dread of man and the love of man shall be a wall of defence and a wreath of joy around all. A nation of men will for the first time exist, because each believes himself inspired by the Divine Soul which also inspires all men.

 

Dunque l’America sarà la prima nazione di uomini perché ciascuno si riterrà ispirato dall’Anima Divina che a sua volta ispira tutti gli uomini. Individualismo, luce interiore, e uguaglianza, democrazia.

     La parola virtuosa di Emerson ha dato frutto. Il sistema universitario americano inizia ancora per tutti  con quattro anni di “collegio” in cui si studia anche le arti (lingue, letterature) e si impara a usare propriamente l’inglese. E si legge Emerson, Robert Frost, e magari Omero e Dante e Primo Levi. Per cui abbiamo a che fare con una cultura che influisce sulla nazione e la fornisce di ideali e manifesti, come The American Scholar. Questo a Emerson riuscì meglio che ai suoi seguaci, sia Thoreau che Whitman. Quest’ultimo diede praticamente esecuzione alla poetica del quotidiano e dello spirito divino onnipresente enunciata dal maestro, aggiungendovi un entusiasmo e una potenza poetica tutti suoi. Ma il suo stile era troppo personale e incolto per divenire “libro di testo dei principi”. Rimase l’autore di alcune famose poesie da antologia, tenuto leggermente in disparte. Come Melville, era un autodidatta. Fu questa la sorte del maggior poeta, forse, che l’America abbia avuto, confermando l’antica sintonia di questa cultura con la forma didattica. Non so se vi siano altre culture in cui un moralista-poeta come Emerson abbia avuto analogo ascendente. Si può pensare a Goethe, a Tolstoi o persino a Leopardi, ma essi paiono più influenti nella loro società come artisti che come moralisti e saggisti.

 

Pane e pietra: Wallace  Stevens 

      La recisa affermazione di indipendenza che Emerson enuncia nella sua chiusa (“Cammineremo sulle nostre gambe”: self-reliance, appunto) fa pensare alla chiusa del celebre poemetto The Man with the Blue Guitar (1937), di uno dei più impervi, influenti ed emersoniani poeti americani del Novecento, Wallace Stevens. Cent’anni dopo l’allocuzione di Emerson, egli gli fa eco:

 

Here is the bread of time to come,

 

Here is its actual stone. The bread

Will be our bread, the stone will be

 

our bed and we shall sleep by night.

We shall forget by day, except

 

The moment when we choose to play

The imagined pine, the imagined jay.

 

 

Lo slavista fiorentino naturalizzato americano Renato Poggioli tradusse questi versi nel 1954 come segue (omettendo chissà perché la dichiarazione “e dormiremo di notte”):

 

Ecco il pane del tempo da venire,

 

ecco la pietra genuina. Il pane

pane nostro sarà, sarà la pietra

 

nostro giaciglio. Ma durante il giorno

nulla ricorderemo, meno gli attimi

 

quando ci verrà voglia di suonare

del pino e della gazza imaginari. [8]

     

Stevens ha la stessa convinzione e forza retorica di Emerson, ma i suoi simboli restano più sfuggenti, e infine egli privilegia un momento estetico, fantastico, che medierebbe il ricordo della vera realtà dimenticata e occultata. Il poeta rimane un maestro o Rabbi che distribuisce il pane alla cena pronunciando frasi oscuramente profetiche. Va ricordato che negli anni in cui scrisse The Man with the Blue Guitar Stevens si trovava a contendere con le richieste di impegno sociale e politico rivolte agli intellettuali, e questo suo rito collettivo è la sua risposta sfuggente quanto sonora perché egli non vuole farsi mettere in un angolo o classificare come esponente dell’estetismo o altro. La sua risposta resta essenzialmente idealistica, nel nome dei valori emersoniani. Anche se c’è una tonalità elegiaca, un affidarsi al sogno, che Emerson – assetato di affermazioni nel mondo – avrebbe rifiutato.  

            Stevens potrebbe dunque vedersi come un continuatore dissimulato della visione positiva di Emerson, che celebra la potenza della coscienza. Whitman aveva accolto più apertamente la lezione positiva di Emerson e aveva rivolto l’attenzione ora su tutti gli aspetti anche più vili della vita quotidiana ora sull’ “Anima Divina” presente in ciascuno. La visione tragica di Hawthorne, Poe e Melville sarebbe invece continuata da tragediografi come Hemingway e Fitzgerald (quest’ultimo spesso ironico  ma anche appassionato) e da poeti come T.S. Eliot e Robert Lowell. In effetti Eliot cita Emerson ironicamente come immancabile presenza nella casa bostoniana in una poesia del suo primo volume.[9] Non c’è dubbio che egli rifiuti l’unitarismo emersoniano (religione della famiglia) per avvicinarsi alla Chiesa d’Inghilterra con la sua tradizionale visione del peccato e dell’Incarnazione. Però l’Eliot del tardo capolavoro Four Quartets è un meditatore sul tempo e la natura che ha molti tratti whitmaniani ed emersoniani. E nel conciliare Dante e la Bhagavadgita, entrambi esplicitamente citati, rivela un interesse per la spiritualità di tutti i tempi e le culture che è più whitmaniana ed emersoniana che cattolica. Sicché in qualche modo Emerson sembra continuare ad essere il maestro dei maestri, anche perché egli incarna al meglio e originalmente la tradizione a cui i suoi successori appartengono. Sono tutti dei pensosi maestri, e la loro parola privata è anche pubblica. Non parlano tanto attraverso personaggi drammatici ma in propria persona.

      Robert Frost, che fu in un certo senso il poeta nazionale americano intorno alla metà del Novecento, da tutti fin troppo amato, è una figura di sottile maestro che mantiene vigile la coscienza morale, che recupera il senso del terrore panico davanti all’inscrutabile destino, e che parla alla nazione, con un sottofondo di sottintesi e scherzo che guadagna il lettore dalla sua parte e lo conduce senza parere in territori metafisicamente impervi senza mai apparentemente staccarsi dal paesaggio familiare, dall’America rurale che è ancora quella della Nuova Inghilterra, scarsamente mutata nei cent’anni dacché Emerson vi pronunciò la sua dichiarazione d’indipendenza.  Le poesie di Frost, apparentemente semplici ma in realtà ambigue e problematiche, basate sulla solitudine dell’uomo nel cosmo, e sul carattere simbolico di tutto ciò che gli avviene, sono un notevole esempio di continuità del Seicento, della visione allegorica, in un clima mutato e in una lingua che è piena di linfe e toni nuovi.[10]

      In realtà è rischioso insistere sulla continuità e le costanti della cultura americana, che conosce apporti sempre nuovi da ondate di immigrati. Ma i nuovi arrivati non di rado interiorizzano la visione del paese d’adozione, e potremmo trovare  il tema della ricerca inesausta delle ragioni di vita attraverso una parola magistrale anche in scrittori ebraici come Saul Bellow, o nella predicazione di intellettuali e leader neri, o in intellettuali naturalizzati come il russo Josif Bodskij, divenuto Joseph Brodsky nonché poeta laureato nel 1991, e poi sepolto per sua richiesta a Venezia (come il da lui non apprezzato Ezra Pound e il predecessore di esilio e naturalizzazione Stravinskij/Strawinsky). Un poeta americano nato a Belgrado, Charles Simic, oggi molto stimato per i suoi testi di carattere surrealista e professore d’inglese all’Università del New Hampshire, confessa una ammirazione considerevole per Emerson, che ha chiaramente studiato per preparare i suoi corsi.

 

Lo scrittore  naturalista

            Se sfogliamo l’indice del volume La letteratura americana e altri saggi di Cesare Pavese, edito originalmente nel 1951, troviamo i nomi degli autori al centro dell’interesse suo e del pubblico italiano informato del tempo: Sinclair Lewis, Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters, Herman Melville, O. Henry, John Dos Passos, Theodore Dreiser, Walt Whitman, William Faulkner, Gertrude Stein, F.O. Matthiessen, Richard Wright. A parte i classici e l’interesse notevole per i modernisti Stein e Faulkner, l’attenzione di Pavese va agli scrittori che più rispecchiano la tumultuosa società americana, mettendone in luce le idiosincrasie becere ma generose (Lewis), narrando la vita soffocata e ipocrita della piccola città (Anderson, Masters), o tentando il grande affresco di denuncia e celebrazione da una prospettiva dichiaratamente radicale (Dos Passos, Dreiser, Wright). I giudizi di Pavese restano preziosi, precisi e alieni ai facili entusiasmi, e questi scrittori continuano a rappresentare l’America e la sua energia incontenibile (i romanzi-fiume di Dos Passos e Dreiser), anche se oggi sono meno letti e a volte le ottime traduzioni dello stesso Pavese non sono più in commercio.[11] Evidentemente l’editoria ha più interesse a promuovere il romanzo intimista dell’ultima scoperta di New York che a ristampare le vecchie glorie i cui nomi suonano ormai risaputi, anche se non so quanti giovani lettori colti abbiano seguito i consigli di Pavese e letto l’indimenticabile Dreiser.[12] O abbiano ascoltato Fitzgerald (tuttora uno degli scrittori più ammirati e letti in assoluto) quando affermava di stimare moltissimo Frank Norris, l’autore di McTeague da cui fu tratto un capolavoro del cinema muto, Greed di Stroheim.[13] Norris resta una lettura indispensabile, che aiuta appunto a intendere il naturalismo depurato e ironico di Fitzgerald.   

       Nel romanzo postumo The Pit (1903) Norris canta il vortice inarrestabile della borsa del grano di Chicago, che attira e distrugge i suoi personaggi, e ci porta nei vari luoghi della città: il teatro dell’opera, le chiese, le vie, le ville dei finanzieri. Non è la sua opera migliore ma costituisce uno sforzo di immaginazione notevole, aprendo la strada per esempio alla fondamentale trilogia di Dos Passos, U.S.A., che giustamente Pavese pone nettamente al di sopra delle altre opere di Dos Passos. U.S.A. è un romanzo-cronaca che, si ricorderà, alterna episodi della vite intrecciate di una serie di personaggi esemplari (il soldato, l’imprenditore, la donna in carriera) con ritratti ironici di figure storiche, da politici a inventori a industriali ad artisti, e con brani sperimentali che propongono un montaggio cubista di notizie e fatti diversi. Come in In Our Time del coetaneo Hemingway, lo sguardo intimo e sociale si incontra con le tecniche sperimentali che, si diceva, in America sono riproposte efficacemente come strumenti di comunicazione e trovano buona accoglienza presso un pubblico non necessariamente specializzato. Dos Passos non scrive libri difficili ma romanzi che riflettono in maniera che sembra trasparente la dinamica della società. In lui c’è anche l’eredità di Emerson mediata da Whitman, cioè il desiderio onnivoro di rappresentare la vita comune in maniera anche prolissa, come facendone l’inventario o il catalogo. U.S.A. è un poema epico nelle proporzioni e nelle strutture.

 

Fitzgerald commenta Gatsby

     Forse quel che sulla lunga distanza ha fatto passare Dos Passos in secondo piano è la minore tenuta stilistica in confronto ai coetanei Hemingway e Fitzgerald, che hanno continuato a consentire scoperte con l’orchestrazione sorvegliata e laconica delle opere migliori.[14] Quando uscì The Great Gatsby e l’autorevole critico H.L. Mencken scrisse in una recensione che “La vicenda è fondamentalmente banale”, Fitzgerald rispose:

 

I think the smooth, almost unbroken pattern makes you feel that. Despite your admiration for Conrad you have lately – perhaps in reaction to the merely well made novels of James’ imitators – become used to the formless. It is in protest against my own formless two novels, and Lewis’ and Dos Passos’, that this was written. I admit that in comparison to My Antonia and The Lost Lady it is a failure in what it tries to do but I think in comparison to Cytherea or Linda Condon it is a success.[15]

 

Dove si vede che Fitzgerald s’è messo alla scuola di Conrad per creare un’opera organica e strutturata in ogni particolare, in reazione – dice – contro i suoi stessi due romanzi precedenti (This Side of Paradise e The Beautiful and Damned), che hanno la forma delle loro storie, specialmente il secondo, il più naturalista d’impianto), e contro Lewis e Dos Passos (che nello stesso anno, 1925, pubblicò il sopravvalutato – non da Pavese – Manhattan Transfer). Con notevole modestia Fitzgerald conclude svalutando Gatsby a confronto di due romanzi di Willa Cather, rispettivamente del 1918 e del 1923,  ma vantando la sua superiorità rispetto a due opere recenti di Joseph Hergesheimer.

      Poco dopo nella lettera egli parla di New York e aggiunge: “I know nothing in the new Paris streets that I like better than Park Avenue at twilight”. Così rivela – nell’età degli americani a Parigi – la sua nostalgia per Manhattan e richiama alcuni brani evocativi di Gatsby: ad esempio la passeggiata in carrozza in Central Park del narratore Nick e della sua informatrice Jordan che termina con un classico primo bacio dei due innamorati non del tutto convinti:

 

It was dark now and as we dipped  under a little  bridge I put my arm around Jordan’s golden shoulder and drew her toward me and asked her to dinner. Suddenly I wasn’t thinking of Daisy and Gatsby any more but of this clean, hard, limited person who dealt in universal skepticism and who leaned back jauntily just within the circle of my arm. A phrase began to beat in my ears with a sort of heady excitement: “There are only the pursued, the pursuing, the busy and the tired”.[16]

 

Tutto qui è calcolato, ad esempio nel primo periodo la conclusione inaspettata del gesto con cui Nick attira a sé Jordan: “... e l’invitai a cena”. Un dettaglio poco romantico ma tipico dei riti di corteggiamento. Il motto conclusivo in qualche modo riassume la trama del romanzo, con la sua voluta superficialità, e ponendo come ultima categoria di persone “gli stanchi”: il tono di sazietà dei giovani-vecchi sempre alla ricerca di divertimenti e sempre annoiati. Fra gli stanchi sono le due donne seducenti del romanzo, Daisy e l’amica Jordan, praticamente copie l’una dell’altra. Nel senso che Jordan è una Daisy meno favolosa, e la relazione di Nick e Jordan che qui si stringe è una ripetizione strutturale in chiave minore di quella assai più fatale di Gatsby e Daisy.

     La vicenda “fondamentalmente banale” di The Great Gatsby rivela continui risvolti e simmetrie anche per la ricchezza delle notazioni, e ogni volta che lo apriamo scopriamo un aspetto che c’è sfuggito. Ma c’è anche in essa la passione di Firzgerald per “Park Avenue al crepuscolo”, e d’ogni tanto egli fa vibrare le corde dell’emozione, culminando nel celebre paragrafo conclusivo:  Nick rivisita la villa ormai deserta di Gatsby a Long Island e la sua mente corre ai primi navigatori cui apparve quel “verde seno del mondo”, e così mette in relazione il fallimento di Gatsby con quello dell’utopia americana, del sogno che balenò a cospetto di quella terra vergine. All’effetto generale contribuisce notevolmente la presenza (come già in The Blithedale Romance) di un narratore-osservatore  che è il confidente dei protagonisti, Nick, e che può narrarci i suoi pensieri e le sue conclusioni e magari parlarci, come fa nel penultimo capitolo, del sopraggiungere del suo trentesimo compleanno, quando gli restano poche illusioni. Fitzgerald aveva 29 anni quando pubblicò il suo capolavoro.

 

Verso Ovest: Willa Cather

      La stima dimostrata da Fitzgerald nella lettera a Mencken nei confronti di Willa Cather ci offre l’opportunità di segnalare che questa è una delle autrici americane del primo Novecento che meglio hanno retto alla prova del tempo. Essa sviluppò un tipo di romanzo poetico ma molto sorvegliato, episodico, quasi composto da una serie di racconti, costruito intorno a un nucleo lirico. E’ il caso di My Antonia (1918), storia di una figlia di pionieri cechi nel Nebraska: lo sfondo naturalista delle pianure è reso funzionale come in un quadro impressionista che ha come centro d’interesse un personaggio osservato con discrezione e reticente affetto. Cather propone dei ritratti di persone in qualche modo esemplari anche in O Pioneers! (1913), vicenda di una donna intraprendente che riesce a far fruttare le praterie con sagacia e preveggenza, identificandosi con la terra (il titolo deriva da Whitman, ma la Cather è aliena dall’empito del poeta di Leaves of Grass, lavora di cesello); e nel tardo Death Comes for the Archbishop (1927), celebrazione quasi troppo rosea di un personaggio storico, il vescovo cattolico francese del Nuovo Messico Jean Latour, che stabilisce un’intima relazione con la terra primitiva in cui si trova a operare, ma conserva tutto l’amore della tradizione mediterranea di un prelato educato a Parigi e sui colli di Roma. In altri due romanzi, The Professor’s House (1925) e The Song of the Lark (1915), ritratti rispettivamente di un professore universitario a confronto con l’età e di una giovane dell’Ovest che riesce a farsi strada contro tutti gli ostacoli e divenire una grande cantante lirica,  Cather ritorna sul Nuovo Messico e la cultura dei pueblo, che rappresenterebbe un paradiso fuori dalla storia alla presenza di paesaggi inediti, caratteristicamente americani: qui i suoi personaggi conoscono delle epifanie che permettono loro di acquistare fiducia nella loro personalità e destino.[17] 

    In questa passione per il Nuovo Messico Cather risentiva di una tendenza diffusa del primo dopoguerra, quando nacque la comunità artistica di Taos intorno a Mabel Dodge Luhan, ereditiera che sposò un indiano del pueblo e ospitò fra gli altri D.H. Lawrence. I paesaggi di Taos sono stati resi noti internazionalmente dalla pittura di Georgia O’Keeffe (1887-1986), longeva protagonista dell’arte americana e soggetto di famose fotografie: dipinse teschi di bufali, fiori voluttuosi, le chiese di terra sbiancata dalle  forme arrotondare caratteristiche della regione, il grande pino che sorge presso il ranch abitato prima da Lawrence e poi dalla vedova col suo secondo marito italiano. Il tutto con tinte piatte e colori netti, come a raffigurare i pianori desertici e sabbiosi.

      Per Willa Cather come per Georgia O’Keeffe è possibile un incontro fra la civiltà antica e tollerante del suo arcivescovo, con il suo rispetto per le arti e la cultura, e questa terra lunare e arida, dal cielo profondo blu e dall’aria frizzante data l’altitudine. E non c’è esaltazione del primitivo (come in Lawrence) in queste donne assai vigili e aliene al sentimentalismo. Anche Cather si potrebbe definire un’artista figurativa. Nella letteratura americana del secondo Novecento forse solo un’altra donna ha ottenuto uguali consensi, la poetessa Elizabeth Bishop (1911-1979). La quale ebbe a sua volta un’esperienza di incontro con l’America originaria, trascorrendo diversi anni fruttuosi in Brasile. E come la Cather era omosessuale. Come del resto la Stein e H.D., le due protagoniste del modernismo insieme a Marianne Moore, maestra della Bishop, che da parte sua rimase nubile vivendo gran parte della vita con la madre.

            E’ sempre istruttivo vedere quelli che una cultura ritiene i suoi esponenti più rappresentativi. La posizione di preminenza assegnata a scrittrici come Cather e Bishop, rivolte all’intimo attraverso un confronto con i grandi spazi ancora da scoprire con l’immaginazione, ci fornisce un’immagine non trionfalista ma moderatamente ottimista e tollerante delle scelte di vita individuali di un paese che spesso ci pare al contrario monolitico e acriticamente soddisfatto del proprio presunto primato.  D’altra parte questi scrittori ci segnalano una ragione oggettiva della lontananza dell’America dall’Europa che spesso può parere indifferenza. Essi sono rivolti ad Ovest più che ad Est, all’interno della coscienza più che all’esterno della politica e della storia. Dal Nuovo Messico, ma anche dalla stupenda Park Avenue al crepuscolo, l’Europa pare molto lontana.

             



[1] T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano, Bompiani, 2003, p. 73. L’originale legge:  “A continual surrender of himself as he is at the moment to something which is more valuable”.

[2] N. Hawthorne, The Scarlet Letter: A Romance, a cura di N. Baym, London, Penguin, 1983, p. 41.

[3] Cfr. T. Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America puritana, Bologna, Il Mulino, 1970.

[4] H. James, Hawthorne, a cura di L. Villa, Genova, Marietti, 1990.

[5] E. Pound, Canti postumi, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 2002, pp. 211-213.

[6] Sui Cantos come libro di testo, o dispense di un eccentrico professore, vedi M. Bacigalupo, Libri di Pound, in Il viaggio di Ezra Pound, a cura di L. Gallesi, Milano, Biblioteca Via Senato, 2002, pp. 17-27.

[7] E. Hemingway, Short Stories, New York, Scribner, 1995, p. 383.

[8] W. Stevens, Mattino domenicale e altre poesie, Torino, Einaudi, 1988, p. 93.

[9] T.S. Eliot, Cousin Nancy, in Poesie 1905/1920, a cura di M. Bacigalupo, Roma, Newton, 1995, p. 60.

[10] Vedi R. Frost, Conoscenza della notte, tr. G. Giudici, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 1988. Su Frost e la poesia americana una buona trattazione è G. Dowling, Someone’s Road Home, Udine, Campanotto, 2003.

[11] Pavese tradusse Il 42° Parallelo (1935) e Un mucchio di quattrini (1937), rispettivamente primo e terzo volume della trilogia di Dos Passos. Vedi M. Stella, Cesare Pavese traduttore, Roma, Bulzoni, 1977.  Una documentata panoramica sulla scoperta europea dell’America è T. Pisanti, Mito americano e ricezioni europee, “Trame di letteratura comparata” 5-6 (2003), pp. 29-44. Per uno sguardo americano sull’immagine dell’America nell’Italia del dopoguerra v. L. Fiedler, Vacanze romane. Un critico a spasso nell’Italia letteraria, a cura di D.F.S. Pardini, Roma, Donzelli, 2004.  Cfr. L. Sampietro, L’America vista da lontano, “Sole-24 Ore”, 19.9.2004, p. 31.

[12] C. Pagetti ha scritto una nuova introduzione a uno dei romanzi fondamentali di Dreiser, Sister Carrie (Nostra sorella Carrie, tr. B. B. Serra, Milano, Rizzoli, 1990).

[13] Cfr. F.S. Fitzgerald, Letters, a cura di A. Turnbull, London, Penguin, 1968, p. 162 (3.2.1920): “I’ve fallen lately under the influence of an author who’s quite changed my point of view... I’ve just discovered him– Frank Norris. I think McTeague and Vandover are both excellent... There are things in Paradise that might have been written by Norris – those drunken scenes, for instance – in fact, all the realism. I wish I’d stuck to it throughout!”

[14] In Italia purtroppo il libro più letto di Hemingway è Il vecchio e il mare, forse di tutte le sue opere quella meno riuscita. Una buona introduzione allo stilista magistrale è G. Cecchin, Invito alla lettura di Hemingway, Milano, Mursia, 1981.

[15] Fitzgerald, Letters, cit., p. 348 (4.5.1925).

[16] F.S. Fitzgerald, The Great Gatsby, a cura di W.F. Bevilacqua, Rapallo, Cideb, 1994, p. 91 (cap. IV).

 

[17] Di The Professor’s House è apparsa una nuova accurata traduzione di Monica Pareschi, La casa del professore, Varese, Giano Editore, 2003. Cfr. “Il Manifesto-Alias” 47 (29.11.2003).