Massimo Bacigalupo

Hemingway a 50 anni dalla morte

Cosa resta di Hemingway a 50 anni dalla morte? Hemingway ha scritto il romanzo moderno più importante dedicato in ampia parte a Milano – Addio alle armi, titolo che fra l’altro deriva da una poesia inglese del Cinquecento. Era infatti essenziale per la sua concezione della scrittura dare l’impressione ai lettori di essere sul posto, a dividere le sensazioni dei suoi protagonisti. La Parigi degli anni ’20 e la Spagna di Fiesta, il fronte italiano e le retrovie di Addio alle armi, il Kenia di Verdi colline d’Africa… Il modello era Tolstoi, nella capacità evocativa del realismo, anche se il metodo di scrittura si era rigenerato nel famoso stile delle frasi paratattiche e parallele.  Questo derivava in parte da Gertrude Stein, mentre il principio del minor numero possibile di parole e aggettivi era una regola giornalistica ribadita da Ezra Pound, e l’idea del racconto di gente comune in cui emerge un conflitto irrisolto, un groppo, era una lezione di Sherwood Anderson.

    Ma Hemingway seppe procedere genialmente per proprio conto e emerge in tutta la sua maturità fin da Nel nosto tempo, il primo libro di  racconti, poi collocato nell’epocale raccolta I quarantanove racconti, del 1938. E’ questo il volume che il lettore alla ricerca del maggior Hemigway deve tenere sullo scaffale, nell’ottima traduzione di Vincenzo Mantovani (Einaudi) che corregge tante precedenti traduzioni approssimative (come quelle di Linati e Vittorini incluse in Americana, 1941).

    Nella premessa (disarmante: “Ci sono molti tipi di racconti in questo libro. Spero ne troverete qualcuno che vi piaccia”) Hemingway dice che quello più vecchio, scritto nel 1921 (a 22 anni), è Su nel Michigan – semplice e partecipe storia di una deflorazione, a lungo censurata, che fece inorgoglire la Stein (che poi divenne madrina del primogenito di “Hem”). E dice che i suoi preferiti sono La vita breve e felice di Francis Macomber, In un altro paese (sulla Milano nebbiosa e anarchica del 1918, una sorta di anticipo di Addio alle armi), Colline come elefanti bianchi (tanto lodato da Milan Kundera – dialogo di una coppia in cui lui spinge lei ad abortire fingendo di lasciarle la scelta), Le nevi del Kilimangiaro (magnifica storia dello scrittore morente che vede in  flashback tutti i ricordi-racconti che ormai non scriverà più, fra cui gli assalti degli Arditi sul Pasubio), Un luogo pulito e ben illuminato (la grandiosa invocazione del “Nada nostro che sei nei Cieli, sia Nada il tuo nome”: il tema dell’insonnia e dello spazio mentale difeso contro gli incubi notturni), “e un racconto intitolato La luce del mondo che non è mai piaciuto a nessuno”.

    Be’, chi legge La luce del mondo lo apprezzerà – anche se pare trattarsi solo della lite di due puttane in un villaggio di poche case cui assistono Nick Adams, alter ego dell’autore, protagonista di molti racconti, e un suo amico, entrambi adolescenti. Alice è esorbitante (“doveva pesare 160 chili”), e uno dei presenti (siamo alla stazione dei bus) commenta: “Deve essere come salire su un pagliaio”.  La lite verte sulla conoscenza intima di un pugile, vantata sia dalla collega Ossigenata, magrolina, che dalla formidabile Alice, la quale smaschera le affermazioni dell’altra: “Non hai mai scopato Steve Ketchel in vita tua e lo sai bene…”. Lei possiede il segreto della verità. Il pugile è forse una versione degradata di Gesù, Alice è la sua Maddalena. Hemingway senza parere si metteva in competizione col “metodo  mitico” di The Waste Land di Eliot.

    Spesso i racconti sono impressioni di viaggio, scene realistiche-simboliche come l’incontro notturno con un altro pugile suonato (Il lottatore) o lo straordinario ritorno al Grande Fiume dai Due Cuori, il  paradiso di Hemingway (ma credo che trattandosi di un toponimo andrebbe conservato il titolo originale Big Two-Hearted River). Siamo nella Upper Peninsula del Michigan, dove il dottor Hemingway portava la famiglia in vacanza,  insegnava la pesca a Ernest, e dove questi a quanto racconta fu iniziato al sesso da una ragazzina indiana (Padri e figli) che poi lo tradì “spezzandogli il cuore” (Dieci indiani).   

    Non si sa abbastanza che Hemingway è un grande scrittore sperimentale che non si ripete mai, tranne forse in Il vecchio e il mare, forse l’unico fiasco (artistico) della sua carriera. Morte nel pomeriggio è un romanzo-saggio sulla corrida, in realtà un’enciclopedia alla Moby-Dick che va ben oltre il tema che pure lo innerva, come la balena per Melville. A Giorgio Manganelli piacevano le pagine dell’Epilogo in cui si cerca di dire sulla Spagna tutto quello che non si è detto nelle 300 pagine precedenti, e si conclude con una morale (lo scrittore americano è sempre moralista): “La gran cosa è durare e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e non accidenti troppo dopo. Salvi pure il mondo, chi vuole, purché voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme…”

    Scrivere solo ciò di cui si è assolutamente certi, lavorare per coglierne il sapore immediato, con arte che nasconda l’arte. Hemingway scrittore fra i più raffinati e colti passa ancora presso molti per un rozzo mestierante. Lo scrittore più famoso del secolo è anche uno dei più fraintesi. E invece egli ha l’arte di dire senza dire.

    Come ad esempio nel racconto del 1927 dedicato all’Italia fascista, Che ti dice la patria? (titolo italiano nell’originale, probabilmente preso da una scritta mussoliniana): tre quadretti sardonici, ambientati in Liguria, di un Paese che si va ingaglioffendo. Non gli piaceva l’odore del fascismo, e l’antipatia, si sa, gli fu ricambiata. I giudizi sarcastici sull’esercito italiano di Addio alle armi si devono anche al fatto che il romanzo fu scritto in pieno regime fascista. Non che per questo fosse facile reclutare Hemingway per una qualsiasi ideologia preconcetta. Come si è visto, non gli interessava salvare il mondo, gli bastava vederlo e dirlo.

      E’ rimasto proverbiale l’incidente del “Politecnico” di Vittorini che annunciò trionfalmente la pubblicazione a puntate del “romanzo antifascista” Per chi suona la campana nell’Italia liberata, salvo poi accorgersi che esso conteneva il resoconto di stragi compiute dai Repubblicani e censurarle, lasciando solo l’intreccio amoroso (anch’esso depurato).

    L’atteggiamento amorale di Hemingway davanti alla guerra non poteva piacere a nessuno. La prende come un fenomeno naturale, senza interrogarne le cause. E’ un momento in cui gli uomini si mettono alla prova. Simbolo in breve della vita nel suo complesso. Predomina sempre l’individuo, teso a difendere ad ogni costo il proprio rigore in un universo non di rado  orribile. Fino all’ultimo l’io controlla il proprio destino – e quando muore lo fa per propria mano.

 “Fogli di Via”, Novembre 2011