Anne di Baltimora
Anne Tyler è una
scrittrice che vale sempre la pena di leggere, salutata non a torto come “il
maggior romanziere di lingua inglese” da
Nick Hornby e Roddy Doyle. Le edizioni Guanda hanno pubblicato in Italia
già tredici sue opere, e ora propongono per la prima volta un suo romanzo che
risale giusto a 30 anni fa, scritto dalla impareggiabile Anne di Baltimora
quando aveva poco più di trent’anni (è del 1941, è sposata a un indiano – il
copyright porta il nome Anne Tyler Modarressi – parla solo attraverso le sue
opere perfette, non è un personaggio dei media). La traduzione di
Nella famiglia Peck c’è una tradizione di fughe e colpi di testa, che non scalfiscono il senso del clan. Il nonno Daniel aveva un fratellastro minore, Caleb, nato nel 1885, che dopo aver seguito per un po’ controvoglia l’avvocatura nello studio di famiglia, nel 1912 scompare senza lasciare traccia. Aveva detto di voler studiare musica, ma il padre autoritario si era opposto. E anche la prima moglie di Daniel se n’è andata ed è poi morta in un incendio. Daniel non fa una piega. “Tuttavia a volte di sera tardi prendeva la Ford e girava senza meta per le strade al chiaro di luna, finendo spesso nella parte più vecchia della città dove non aveva più alcun motivo di andare, e non conosceva nessuno, e non sentiva altro che i lievi fischi armoniosi dei cavi dei tram nel cielo buio sopra di sé”. Questi dettagli fanno intravedere nella austeniana Tyler - una scrittrice nella tradizione appunto delle grandi indagatrici delle menti soprattutto femminili in un contesto miniaturizzato (dico non solo Austen ma anche George Eliot) - un empito epico degno di un Whitman: una totale disponibilità ai fenomeni nella loro incessante peculiarità, come in Canto di me stesso.
In tarda età Daniel, fuggito anch’egli dalla prigione d’oro di Baltimora e accasatosi con gli eccentrici sposi cugini, si mette in testa di ritrovare il fratellastro Caleb, seguendo minimi indizi. Così incontriamo Daniel e Justine ad apertura di libro, nel 1972, quando vanno a New York avendo saputo della morte di un suo compagno di scuola. Forse la vedova saprà dirgli qualcosa? “Per risparmiare presero la metropolitana da Penn Station. Justine adorava le metropolitane. Le piaceva starci in piedi, sorreggendosi a un tubo di metallo tiepido, unticcio, con le gambe leggermente divaricate, molleggiandosi con le ginocchia per seguire gli ondeggiamenti del treno che correva nel buio”. Analogamente cent’anni prima Whitman guardava estasiato il traffico di Broadway: “Il cicaleccio della strada, i cerchioni dei carri, lo strepiccio delle scarpe, i discorsi di quelli che passeggiano, i grevi omnibus, il conduttore che interroga col pollice, lo scalpitare dei cavalli ferrati sul lastrico di granito...” Il poeta gode dell’infinita varietà e si interroga sul carattere transitorio di tutto ciò che vede, in primo luogo la vita degli uomini. Così il vecchio Daniel si sorprende quando capisce che “le persone invecchiavano e morivano e nella vita non si poteva mai tornare indietro... Dove finiva tutto? Dov’era andato quel piccolo nonno acquisito tedesco, bruno, che aveva un tempo? .... Erano tutti morti, ormai? E dov’era quel suo fratello silenzioso e musicale, che piegava la testa?”.
Sicché la ricerca di Caleb a sessant’anni
dalla sua scomparsa sembra un tentativo di ricomporre ciò che è inevitabilmente
strappato, è la ricerca del segreto della (dis)continuità, e una ragione di
vita. Finché c’è una pista da seguire in qualche luogo remoto Justine e il
nonno sono felici; quando i familiari abbienti, saputo dell’ossessione,
affidano la faccenda a un investigatore, i due si afflosciano. Eli,
l’investigatore dalla faccia di Abramo Lincoln, è di per sé un personaggio
colto con sapienza memorabile, brevemente, e funzionale, come tutto in questo
romanzo perfettamente costruito. Si apre nel 1972, poi ci porta nelle vicende
lineari di un secolo di Peck, per chiudersi alla vigilia del
Tyler è al suo meglio quando
jamesianamente non lascia che la sua intelligenza sia offuscata da un’idea: non
ha convinzioni di cui persuaderci. Lo spazio americano provinciale coi suoi
“diner”, rigattieri e ospizi (questa sì una discesa a inferi whitmaniani!) è il
più adatto perché la sua scrittura prenda il volo senza una parola di troppo,
assimilando tutto, sobria ma sicurissima. Fra le stramberie di Duncan c’è
l’idea di un film: “Penso di comprarmi una cinepresa e andare a filmare dove
non succede niente. Diciamo che c’è un touch-down a una partita di football: io
riprendo un giocatore solitario all’altra estremità del campo. Se vedo un
borseggiatore, trovo qualcuno che sta leggendo il giornale proprio vicino alla
vittima... Sarà il primo film realista che sia mai stato girato. Nella vita
reale non sei mai concentrato sul punto dove succede qualcosa...” Questo è
quanto più Tyler si avvicini a dirci le sue intenzioni. Ma ovviamente la
narrativa vive sempre per statuto di cose che succedono, non dei vuoti in cui
non succedono, pena il manierismo e
“Il Manifesto-Alias”, 18 febbraio 2006