Massimo
Bacigalupo
Thoreau. Laghi, insetti, alci, corteccia, e un
pellerossa
Fa piacere viaggiare per i
luoghi (tuttora) selvaggi del nordest Usa con Henry David Thoreau (pare si
pronunci thòro), grazie all’edizione
bilingue di I boschi del Maine
(traduzione di Anna Banfi, La vita felice). Molti non hanno mai sentito il nome
di questo grande eccentrico dei dintorni di Boston (1817-62), i meglio
informati sono al corrente della sua rilevanza politica per via del saggio Disobbedienza civile che fu letto e
praticato nel Novecento dai padri della non violenza, gli happy few sanno persino del suo libro principe Walden, spesso tradotto in italiano, cronaca di un soggiorno in una capanna sull’omonimo laghetto presso Concord:
“Sono andato nei boschi perché volevo vivere deliberatamente, confrontandomi
solo con i fatti essenziali della vita e vedere se potevo imparare ciò che essa
aveva da insegnare, e evitare di scoprire, morendo, di non aver vissuto. Non
volevo vivere quel che non era vita, il vivere essendo così caro; né volevo
praticare la rassegnazione a meno che non fosse proprio necessario”. C’è una
filosofia, un entusiasmo asciutto, in questo romantico yankee, che guarda la
natura con freddezza ma ne vive ogni palpito, laconicamente. Walden è un breviario
filosofico-naturalistico, soprattutto letterario, che tutti i ragazzi americani
trovano (a brani) nelle loro antologie, e che ha qualcosa della straordinaria
originalità dei coevi Moby-Dick e Foglie d’erba. Un po’ di romanticismo,
un po’ di secentismo, un po’ di filosofia indiana (Thoreau, a differenza di
Melville e Whitman, aveva studiato: a Harvard), ma soprattutto l’esperienza
personale del nuovo mondo, un continuo dialogo di interno ed esterno. Un libro
da portarsi in viaggio, dall’inglese non facile, intricato, adatto a palati
fini quanto ai saccopelisti.
I boschi del Maine è invece una cronaca fattuale di una spedizione
compiuta dal poeta-naturalista con un amico dal 20 luglio al 3 agosto 1857. Il
gusto del libro sta nel fatto che è assai meno letterario e programmatico di Walden e saggi come Camminare. Si accontenta di descrivere minuziosamente gli eventi: un
mondo di laghi, temporali, insetti (innumerevoli e fastidiosissimi), isolotti,
uccelli, alci, scoiattoli, rapide, canoa, tenda, corteccia, tisane di erbe e
tabacco improvvisato, qualche incontro con altri solitari. Si respira la
libertà dalla necessità di intrattenere e fantasticare. Tutto è netto, da
quando si parte in diligenza con il cane di un passeggero che vi corre accanto,
al primo incontro con l’indiano che farà da guida ai due, Joe Polis. Lo trovano
intento a trattare una pelle di daino e gli chiedono se conosce qualcuno
disposto ad accompagnarli. “Ci rispose, parlando da quella strana distanza in
cui l’indiano sempre abita per il bianco: ‘Me piace venire io; volere prendere
alce’, e continuò a raschiare la pelle”. Purtroppo la volenterosa traduttrice
qui come altrove non comprende il senso dell’originale e scrive “Ci rispose senza quel curioso distacco con cui gli
indiani sono soliti rivolgersi ai bianchi”. Per fortuna la presenza del testo
inglese in questo comodo libretto permetterà al lettore di sorvegliare la
traduzione dove necessario, e di scoprire ad esempio che i pini di cui si parla
a pagina 250 non hanno “un diametro
difficilmente inferiore a ottanta o novanta piedi”. Un pino con un diametro di
trenta metri sarebbe davvero eccezionale. Peccato che la traduzione sia
manchevole, per quanto meritoria nell’affrontare le difficoltà di un resoconto
in fondo naturalistico, dunque pieno di nomi scientifici e comuni di piante e
animali. Ma sono incidenti non rari nella nostra editoria, e bisogna essere grati
dell’occasione di leggere queste pagine così fresche di uno scrittore-osservatore
che non lascia nulla nel vago.
L’indiano Joe Polis è al centro della narrazione, che ne
fornisce un ritratto cumulativo. “Hanno denti forti, e notai che usava spesso i
suoi dove noi useremmo una mano”. “Dopo aver ripreso i posti nella nostra
canoa, sentii che l’indiano asciugava la mia schiena, su cui aveva
accidentalmente sputato. Disse che significava che mi sarei sposato” (cosa che
invece T. non fece mai). Thoreau si accorda con Joe che si insegneranno a
vicenda tutto quel che sanno; in lui in effetti c’è qualcosa dell’indiano nella
sua laconicità di autore di migliaia di pagine. E Joe rivela una certa
ammirazione per i due escursionisti che condividono con lui le lunghe fatiche,
e la rivela lesinando le parole: “Agli indiani piace sbrigarsi col minimo
possibile di comunicazione e trambusto. Ci stava in realtà facendo un grande
complimento, pensando che preferissimo un cenno a un calcio”. Thinking that we preferred a hint to a kick
– il testo è ricco di queste frasi memorabili e chi lo frequenterà lo troverà
salutare nella sua assoluta nettezza.
“Il manifesto-alias”, 26 maggio 2013