gente di Liguria

Massimo Bacigalupo

Michel David, il francese che raccontò Freud allItalia

Michel David (pronuncia /davìd/ alla francese), 82 anni il 21 giugno 2006, fece breccia nella cittadella della critica letteraria italiana nel 1966 con La psicoanalisi nella cultura italiana (III ediz. 1990). E’ anche un instancabile viaggiatore in territori poco frequentati della cultura, animato da una curiosità che ha dato luogo a innumerevoli contributi originali, non privi di una vena umoristica. Lo visito in Via Palestro per chiedergli di Sigmund Freud, i 150 anni della cui nascita si ricordano in queste settimane.

     Studente a Parigi, mi racconta l’illustre savoiardo e genovese d’acquisto, nella Parigi occupata, aveva frequentato i normalisti Pontalis e Laplanche, autori in seguito di un classico Dizionario di Psicoanalisi.  Il loro comune maestro era Ferdinand Alquié, autorevole professore di filosofia che era stato psicoanalizzato intorno al 1930 dal primo freudiano francese. “Alquié balbettava, noi ridevamo, ma ci raccontava la sua analisi, e  così ho incontrato Freud”.

     Attraverso Pontalis (che una volta gli additò il suo maestro strabico Sartre, rientrato dalla prigionia tedesca grazie a qualche protezione superiore) David conobbe nel 1945 Jean d’Ormesson, poi romanziere e accademico di Francia, che saputo che il giovane aveva studiato italiano gli consigliò di far domanda per un posto nella Marina che organizzava una missione a Genova per sminare il porto. Qui dunque giunse David ventunenne, e si poté godere lo splendido balcone dell’ufficio di Via Corsica, lui che non aveva mai visto il mare. Fu un amore che gli durò tutta la vita.

     Nel 1952 tornò a Genova in veste di Lettore di francese, e conobbe Tilla Parodi, sua moglie. Fu allora che notò la resistenza alla psicoanalisi dei critici universitari italiani. Per quanto da Genova si fossero formati psicoanalisti come Emilio Servadio e Faraisen, fratello del regista Fersen, seguiti negli anni ’60 dalla scuola di Romolo Rossi, e in ultimo dal gruppo degli junghiani di Franco Rossi.   

     “Anche oggi del resto sono pochi i critici che si servono di strumenti freudiani. Un’eccezione genovese è Elio Gioanola, a lungo osteggiato, autore di studi psicoletterari di Pirandello, Gadda, Leopardi. Ha scritto da poco un romanzo, appunto Giallo al Dipartimento di Psichiatria (Jaka Book). Il siciliano Francesco Orlando, formato da Lampedusa, segue tuttora il metodo psicoanalitico nei suoi libri estrosi (da anni si dedica agli ‘oggetti desueti’, la chincaglieria evocata in letteratura, cioè all’importanza dell’insignificante). Il genovese Sanguineti è stato uno dei primi scrittori freudiani, anche se non saprei quanto Freud conti nella sua critica. Un suo allievo, Tornitore, si è occupato delle sinestesie, che sono pur sempre un fatto psicologico”.

    Sinestesie è una delle parole che accende l’interesse sempre tematico di David. Altri di questi suoi termini-chiave sono diario intimo e romanzo psicologico. Intorno a lui, nel suo indescrivibile studio-antro alchemico, sono decine di faldoni, altro termine-David. Sul dorso sta scritto “Petrarca” o “America” o “Poe” o “haiku”, dentro ci sono ritagli e ritagli.

     Il ritaglio (di giornale) è stato il metodo di lavoro prediletto di David, “il mio internet, che diventerà obsoleto quando tutto sarà digitalizzato”. Lui sottolinea  a penna e ritaglia. E quando occorre scrivere un articolo basta aprire un faldone e iniziare a comporre tutti questi discorsi intorno alla cosa.  Infatti David è un fenomenologo (si è occupato di Bachelard, “e poi c’è quella storia del pollo di Derrida...”). Non è tanto appassionato di cose quanto del loro rifrangersi prospettico.

      Dopo Genova, e prima della cattedra di Italiano a Grenoble, David è all’Università di Padova, dove lavora con i maestri Folena e Branca, affiancato da giovanotti come Mengaldo. “In quei loro seminari solo Zanzotto citava Freud”. E Zanzotto è rimasto un poeta del profondo, dei  lapsus.   

      A Padova David mette da parte per un po’ la psicologia del Canzoniere di Petrarca e apre il faldone della psicoanalisi in Italia, per rispondere alle sue domande su quella forte “resistenza”. Il libro che fa scalpore, edito da Boringhieri, nasce “quasi involontariamente, da solo”, ed è così lungo che del materiale tagliato fa un secondo volume, edito da Mursia (Psicoanalisi e letteratura).

      La prima recensione è quella di Montale sul Corriere, seguito da Arbasino, da una lettera di Moravia (“Io non sono mai partito nei miei libri da un’idea che mi fosse suggerita dalla psicanalisi...”). Testi che David pensa di ristampare in una futura raccolta di saggi intitolata L’immaginario della biblioteca.

    Già, biblioteca è un’altra parola-David. Un’altra ancora è un nome a tutti ignoto, Gian Dàuli (assente ad es. sia nella Garzantina Letteratura che nel Dizionario Bompiani delle opere). Solo un vecchio signore genovese, in una conferenza del 2006 di David, si è illuminato: “Da ragazzi leggevamo di nascosto Dàuli e Pitigrilli, erano i libri proibiti che sapevano di zolfo”. Però La rua di Dàuli è “uno dei grandi romanzi italiani del ’900”, pieno è vero di materia carnale, il che rende ancora più difficile comprenderne la scomparsa dalla memoria. E Dàuli, non Vittorini e Pavese, è stato il primo a importare (come traduttore ed editore di Modernissima) gli scrittori angloamericani in Italia. Aveva anche due donne, una moglie a Milano e una – americana – a Rapallo, la Edith Carpenter, che in effetti era una conoscente della madre di chi scrive.

     Dall’ossessione-Daùli Michel David ha tratto una voluminosa tesi di dottorato francese di Sorbona in due volumi, mai pubblicata, consultabile nel suo studio e, mi dice, in qualche biblioteca italiana. (Ma c’è anche un suo bel libro illustrato su questa straordinaria figura, edito da Scheiwiller.) Dàuli c’entra con la materia dell’inconscio: la sua “rua” è la ruota delle pulsioni, del desiderio e del potere che gira e schiaccia tutto e tutti.

     Ma ormai tutti questi faldoni sono destinati ad aprirsi sempre più di rado. Possiamo mandargli uno studente sulle tracce del romanzo psicologico o del libraio Pino Orioli, amico ed editore fiorentino di D.H. Lawrence e Norman Douglas. David confessa di sentire gli anni. Da mesi non tratteggia i pastelli (copie di foto e cartoline) con cui si distrae, e non tocca il pianoforte (“suonavo anche il sassofono soprano, strumento introvabile”). Prende la quotidiana “cura Mangini” (“quel caffè è uno spettacolo fenomenale, gli habitués, gli occasionali, ci passano proprio tutti, è un teatro”). Non vede l’ora di trasferirsi, come ogni estate, nella natia St-Michel-de-Maurienne, sul versante nord della Val di Susa (“ma lì sono contenti che la TAV riduca il traffico veicolare inquinante”). A St-Michel fa fresco, e David  vegeta. “Non leggo più romanzi, leggo i giornali come romanzi. Oggi del resto chi legge quelli nuovi? Pensa all’evento che era 40 anni fa un nuovo Piovene, Moravia, Pasolini...”. Sul tavolo vedo Moana tutta la verità. Inizia a raccontarmi perché e come conosca la parentela della protagonista.

      Ma presto la memoria torna indietro. “Nella Parigi occupata frequentavo la libreria-biblioteca circolante La Maison des Amis du Livre della savoiarda Adrienne Monnier, che spediva libri in prestito anche in Italia... a Montale, a Pound.” Dirimpetto c’era la libreria circolante angloamericana Shakespeare & Company di Sylvia Beach, compagna nella vita della Monnier, che aveva un’aria da contadina rotondetta in grandi vestiti di lana a sacco, mentre l’americana Sylvia era esile e mascolina.

       Il libro di memorie di Sylvia,“Shakespeare & Company”, è appena stato ristampato da Aragno. Recente è lo studio di Laure Murat, Passage de l’Odéon. Sylvia Beach, Adrienne Monnier et la vie littéraire à Paris dans l’entre-deux-guerres (Fayard). Apro il bel libro dalla carta ruvida prediletta in Francia e vedo una foto di Sylvia e Adrienne nella cucina vuota con la didascalia: “Nothing to cook! After the liberation”.

      Sylvia pubblicò nel 1922 Ulysses di James Joyce con la copertina blu esposta nel Bloomsday (16 giugno) 2006 alla Biblioteca Universitaria di Genova. Adrienne ne favorì la traduzione francese ed editava la rivista Le Navire d’Argent. David mi mostra il numero del 1° febbraio 1926, contenente la prima traduzione mondiale di Svevo (“un cimelio che ho lasciato intonso”).

     “Mi son perso Hemingway quando nel 1945 ‘liberò’ la Shakespeare & Company e... il bar del Ritz. Peraltro l’assistente della Monnier, il savoiardo Maurice Saillet, mi fece cortesemente un’avance al bar vicino. La cosa mi colse di sorpresa, e gli dissi: ‘Pardon, je ne suis pas pour hommes...’ Come vedi, è tutta una serie di casi, un  grande casino”.

      David non pubblicherà più? Riesco a sottrargli una manciata di articoli in fotocopia, con titoli come “Boccaccio pornoscopo?”. Fa parte di uno dei libri che David ha pronti nei faldoni, quello sulla psicocritica (ce n’è anche uno sugli scrittori liguri: sulla mensola c’è un suo pastello di Francesco Biamonti su uno sfondo di mimose, accanto a un altro suo nume tutelare genovese, l’incomparabile Alberto Pescetto). Forse troverò un editore incuriosito da questa messe impareggiabile di uno spiritello che continua a veleggiare al soffio della brezza lontana e ironica del padre Freud.

Il Secolo XIX, 5 luglio 2006