Da
Il viaggio di Ezra
Pound, a cura di
Luca Gallesi, Milano, Biblioteca di Via Senato Edizioni, 2002, alle pp. 17-27,
preleviamo il saggio del nostro collaboratore Massimo Bacigalupo.
Massimo Bacigalupo
libri di Pound
The
poetry does not matter.
T.S. Eliot
0.
I Cantos sono un libro fatto di vita,
odi e amori, ma anche di libri. Pound inforcava i
suoi occhiali e leggeva i tomi di poesia, arte, storia, economia ecc. per cui
si accendeva e di cui ci parla nel poema. Come un insegnante che presenti un
programma di letture commentate agli studenti. Un corso per anno, o per volume di canti (che come si sa
uscirono via via in gruppi di estensione variabile,
da un minimo di undici a un massimo di venti). Ecco gli anni accademici di Pound e i titoli ideali o reali dei corsi da lui impartiti,
con le letture proprio indispensabili per seguire le lezioni:[1]
1. 1917-1925 Canti 1-16 [“Il Rinascimento di Sigismondo Malatesta”]
C. De Lollis, Vita e poesie di Sordello da Goito, Halle,
1896.
Omero, Odyssea, Paris, 1538.
B. Varchi, Storie fiorentine, 3 voll.,
Firenze, 1857-58.
C. Yriarte, Un Condottiere au XVe Siècle,
Paris, 1882.
2. 1925-1928 Canti 17-27 [“Venezia e Ferrara nel Rinascimento”]
A. Lazzari, “Ugo e Parisina nella realtà
storica”, Rassegna Nazionale, 1915.
Monumenti per sevire alla
storia del Palazzo Ducale di Venezia,
Venezia, 1868.
G.B. Pigna, Historia de Principi di
Este, Ferrara, 1570.
3. 1928-1930 Canti 1-30 [Raccolta delle precedenti dispense con una
postilla di 3 canti con qualche osservazione su Petrarca,
Rime, Fano, 1503, ecc.]
4. 1930-1935 Canti 31-41 “Jefferson-Nuevo Mundo”
J. Q. Adams, Diary,
London, 1928.
T. Jefferson, Writings,
20 voll., Washington, 1905.
M. Van Buren, Autobiography, Washington, 1920.
5. 1935-1937 Canti 42-51 “La
quinta decade: Siena – Le riforme leopoldine”
N. Mengozzi, Il Monte dei Paschi di Siena...,
Siena, 1925.
A. Zobi, Storia civile della Toscana,
Firenze, 1850-52.
6. 1938-1940 Canti 52-71 “Cina – John Adams”
C.F. Adams (a cura di), The Life and Works
of John Adams, 10 voll., Boston, 1856.
S. Couvreur (a cura di), Li-ki,
Ho Kien Fou, 1913.
G.A.M. de Mailla, Histoire
générale de la Chine, Paris, 13 voll., 1777-1783.
7. 1940-45 Canti 72-73 “[Marinetti,]
Cavalcanti – Corrispondenza repubblicana”
F.T. Marinetti, "Quarto d'ora di poesia della X Mas (musica
di sentimenti)" (ora in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, 1983).
A. Mussato, Ecerinide, trad. M.T.Dazzi, Città di Castello, 1914.
8. 1945-1948 Canti 74-84 “Canti pisani [Confucio oggi]”
Confucio, Studio integrale, a cura di E. Pound,
Rapallo, 1942.
Confucio, L’asse che non vacilla, a cura di E. Pound, Venezia, 1945.
J. Legge
(a cura di), The Four
Books, Hong Kong, 1861.
M.E. Speare
(a cura di), The Pocket
Book of Verse, New York, 1940.
9. 1948-1955 Canti 85-95 “Rock-Drill [Imperatori, maghi e presidenti]”
T.H. Benton, Thirty Year’s
View 1820 to 1850, 2 voll., New York, 1854.
S. Couvreur, Chou King,
Sien Hsien, 1934 (Paris, 1950).
Filostrato,
Life of Apollonius of Tyana,
a cura di F.C. Conybeare, Loeb
Classical Library, 2 voll., London, 1912.
10. 1955-1959 Canti 96-109 “Troni [Legislatori cinesi, bizantini e
inglesi]”
F.W. Baller,
The Sacred Edict of K’ang Hsi,
Shanghai, 1892.
E. Coke, Second Part of the
Institutes of the Laws of England, London, 1797.
Paolo Diacono, Historia Longobardorum (in Patrologia Latina).
J.F. Rock, The Ancient Na-khi Kingdom of Southwest China, 2 voll.,
Cambridge, Mass., 1947.
11. 1959-1969 Canti 110-117
“[Commiato: i Na-khi]”
J.F. Rock, “The Muan Bpö Ceremony or the
Sacrifice to Heaven as practised by the Na-khi”, Annali Lateranensi,
16 (1952).
E’ una lista piuttosto arida, che però ci permette di seguire gli
interessi onnivori di Pound sull’arco di
cinquant’anni, e ci dà la misura più precisa del suo ciclopico poema, che è un
percorso fatto di scoperte di mondi, personaggi e soprattutto testi, da cui Pound tipicamenter trasceglie
brani significativi sottolineandoli e commentandoli. Sono quasi tutte opere
poco frequentate, che probabilmente non conosceremmo se non ci iscrivessimo al
corso “brevi cenni sulla storia dell’universo” impartito dal Dott. Pound, che non per nulla
nel 1939 ebbe una laurea ad honorem da Hamilton
College dove aveva studiato, e dunque poteva a pieno diritto fregiarsi del
titolo di dottore. Naturalmente la lista non esaurisce la biblioteca dei Cantos, che comprende tanti altri classici (Dante e
Ovidio per dirne due imprescindibili) e fonti più o meno peregrine, le
biografie che Pound amava leggere. Per esempio la
tarda passione di Pound per il giurista Edward Coke (che si prouncia non
come in Coke di Coca Cola ma in cook
“cuoco”) deriva tanto dalla lettura delle sue opere labirintiche tipicamente
secentesche quanto da una biografia di lui dovuta a tale Catherine
Drinker Bowen, The Lion and the Throne (Boston,
1956). E la fondamentale scoperta del mondo magico dei Na-khi,
che fa da sfondo agli ultimi episodi del poema, prima di sostanziarsi della
lettura delle opere affascinanti del botanico Joseph Francis Rock, sembra essere stata stimolata da un libretto
eccentrico di Peter Goullart,
Forgotten Kingdom
(London, 1957).
La lista conferma il
metodo di Pound. I Cantos
sono composti di una decina di libri a sé stanti che tuttavia costituiscono un
progetto unificato. Ogni libro ha uno o più episodi centrali che occupano
singoli canti o gruppi compatti: dal fosco
Sigismondo Malatesta, il “Principe” di Pound, dei canti 8-11, a Edward
Coke, abbastanza sommariamente evocato nei canti 107-109, all’America di Jackson narrata dal senatore Benton
nei canti 87-89, alla Siena del Monte dei Paschi e di Pietro Leopoldo I
granduca di Toscana (1765-90), di cui Pound celebra
le riforme illuminate nei canti 42-44. A questi episodi ogni volume (corso,
seminario) avvicina digressioni, contrappunti e momenti lirici. Così nella Quinta
decade, significativa perché Pound disse di
avervi messo a punto la forma-Cantos dopo
vent’anni di ricerche, ai canti di Siena segue l’invettiva medievale contro
l’usura (45), poi un predicozzo al lettore (46) in cui Pound
fa il punto sulla sua “storia” (“this tale”) e sui
conflitti del presente, fascismo, new deal, parlando in prima persona nel tono
del suo combattivo giornalismo. Quindi si passa ai riti della fertilità sulle
sponde del Mediterraneo (47), i lumini che i tigullini
pongono in mare nelle sere d’estate, e Pound legge
Esiodo per invitare a “cominciare ad arare / quando le Pleiadi scendono al loro
riposo”, finché l’aratura si confonde
con l’atto sessuale (“Hai trovato nido più morbido del cunnus
/ o hai trovato miglior riposo...?”). E’ probabile che Pound
si compiacesse della possibilità di allinearsi con la sua poesia (siamo appunto
nel 1937) a due iniziative di Mussolini: la battaglia
del grano e la propaganda demografica. La sua antica passione per i misteri
pagani e la sua celebrazione alla D.H. Lawrence della ritrovata pienezza dei sensi al sole
d’Italia acquista anche un significato politico.
Tornando alla costruzione
esemplare della Quinta decade, il canto 48 avvicina “idrogrammaticamente”
esempi negativi e positivi insistendo sul ritrovato ritmo naturale, il 49 ci
porta nella Cina senza tempo dei “Sette laghi”: “Il potere imperiale è? E per
noi cos’è? // La quarta dimensione: l’immoto. / E il potere sulle bestie
selvagge”. Il 50 riprende secondo il
principio, diciamo, della forma-sonata, l’episodio precendente
Siena-Toscana, e il 51 ripete a sua volta in una
lingua meno arcaica la denuncia dell’usura. Costruzione musicale per un Pound che a Rapallo dedica non poco del suo tempo a portare
concertisti nel Salone comunale per sentire l’integrale delle sonate per
violino e pianoforte di Mozart o i vecchi spartiti ritrovati e adattatati ed
eseguiti dagli amici Gerhart Münch
e Olga Rudge.
Se guardiamo i manoscritti della Quinta decade vediamo che Pound ha penato a
tenere a bada la sua saeva indignatio, che minacciava di prendergli la mano persino nel
canto 49 dei Sette laghi, che non per
nulla ricorda in conclusione che le bestie selvagge vanno domate. Qui l’iroso Pound ebbe meno successo in seguito dati i tempi che
correvano. E’ curioso già che dopo la Quinta decade, i canti 52-71
facciano eccezione fra le sezioni del poema nel non avere la forma musicale del
tema e variazioni ma essere una pura trascrizione condensata dei 23 volumi (fra
storia cinese e carte di Adams) che Pound aveva sulla scrivania. Forse il poeta volle innovare,
e comunque era anche troppo preso dal materiale per concedersi sosta nel darne
conto. Sono lezioni senza digressioni, un menestrello che racconta la storia
della Cina cantilenando, e poi si arrangia con il più arduo soggetto dei primi
anni della Repubblica americana... Ma il canto 52 si apre con una indegna
tirata antiebraica, a dimostrazione ancora una volta che Pound
si atteneva alla consegna mussoliniana. Le leggi
razziali erano state approvate nel 1938 e i canti 52-71 furono composti
abbastanza affrettatamente fra estate 1938 e marzo 1939. C’era quasi
l’impressione che Pound ormai volesse sbrigarsi in
fretta dei Cantos: diceva con soddisfazione
che gli restava un unico volume da comporre, su temi religiosi o paradisiaci
(cioè disegnando un giusto paradiso secondo le sue concezioni paganeggianti).
Che l’abito del poeta ormai gli stesse stretto? E invece i volumi-corsi
successivi furono almeno quattro, e furono preceduti dalla lunga pausa di
riflessione e sconvolgimento del 1940-45.
Qui il professore Pound, non accontentandosi più dei suoi canti, fece lezione
direttamente all’uditorio inglese e americano di Radio Roma, facendosi
precedere da una dichiarazione che lo presentava appunto come “Doctor Ezra Pound”.
Gli anni accademici furono tre: 1940, 1940-41, 1942-43. I corsi, interrotti
dopo il 23 luglio, ripresero nel 1944 sui giornali di Salò, mentre Pound ritornava a Confucio nell’avventurismo del periodo
estremo del fascismo.
Le trasmissioni di Pound, come tante sue lettere pur importanti, oggi si
leggono con fastidio per la loro “colossale ignoranza”, per usare parole sue,
ma più per il pregiudizio antiebraico tetramente ribadito, in quella maniera
sprezzante da ragazzaccio tipica di Pound che dato
l’argomento e l’epoca fa accapponare la pelle. Qui veramente torna alla mente
il giudizio di Montale: “Chi gli ha parlato, nei suoi anni buoni, non può non
aver riportato l’immagine penosa di un uomo non cresciuto, di una forza non
convogliata in un’unica direzione, e, in definitiva, spesa tutta in superficie”
(“Lo zio Ez”, 1953, Sulla poesia, Milano,
1976, p. 486). Se solo Pound avesse avuto il buon
senso di tacere senza accanirsi contro coloro che erano già vilipesi e
perseguitati... E’ facile giudicare dopo, si dirà, ma la cecità e insensibilità
del poeta veggente in questo caso sembra essere stata davvero eccezionale.
Ma, per tornare alle
lezioni-trasmissioni, sicuramente i pochi che avranno la pazienza e lo stomaco
per leggerle-ascoltarle, vi troveranno come sempre delle perle di intuizioni e
allusioni che lo riporteranno nell’atmosfera più respirabile del Pound lettore e visitatore di mondi lontani sulle gambe e
sulla carta. La poesia, è stato detto, è legata alla memorabilità
dell’espressione e forse della personalità espressa. Per esempio, scrivendo
queste pagine, ho pensato alla frase di Eliot, “The poetry does not
matter”, e l’ho rintracciata nel suo secondo
“quartetto”, East Coker
(sez. 2). E’ una frase molto piana che esprime bene il Pound
dei Cantos, che al suo meglio forse riesce a
fare poesia perché si dimentica di essere poeta e si getta tutto nella passione
di spiegarci il suo Sigismondo, il suo Leone il Saggio (96), il suo Apollonio
di Tiana (94): un mago che forse aveva del buon
senso. Fra storia, economia, esoterismo. Fra i
cataloghi delle biblioteche.
E qui si potrebbe fare
un excursus sulle fonti di approvvigionamento del Pound-lettore.
Le bancarelle del Lungosenna dove trovò l’Odissea del
1538 tradotta da “Andreas Divus
Iustinapolitanus” (chi mi dirà a che città si chiami
in latino Iustinapolis?). La libreria di Adrienne Monnier, probabilmente,
quando era a Parigi e a Rapallo nei primi tempi. Montale stesso gli offriva di
trovargli libri a Firenze per la sua “edizione” di Cavalcanti (uno dei “libri
di Pound” su
cui molto vi sarebbe da raccontare) e alcuni glieli procurò. Poi riuscì a farsi
arrivare le opere di Jefferson e John
Adams e la storia della Cina di de Mailla per trarne altrettante “decadi” di canti.
Dall’America i genitori gli inviarono un tesoro di famiglia, un volume
giapponese a soffietto con le otto vedute classiche di una regione fluviale
cinese e relative poesie manoscritte, che divenne dopo circa dieci anni il
canto dei sette laghi (49), sorta di introduzione al viaggio in Cina della
sezione 52-61. Intanto in un baule riposavano le carte di Fenollosa
e potevano sempre essere tirate fuori per ricavarne qualche frammento come le
parole scritte in lettere maiuscole nel canto 49 o il carattere cinese in
apertura ai canti 52-71.
L’edizione di Legge dei Quattro
libri confuciani fu un altro acquisto importante:
Pound ne ricavò il testo cinese fotoriprodotto
nel volume Testamento di Confucio, edito nel 1942 presso gli orfanelli
di Rapallo. Una foto scattata verso il 16 maggio 1945 a Genova in Via Fieschi 6, dove era trattenuto dal U.S. Counter
Intelligence Corps in attesa che si prendessero
provvedimenti a suo riguardo, ce lo mostra nell’atto di tradurre questo
opuscolo rapallese in inglese, ampliandolo alquanto
(uscì nel 1947 col titolo The Great Digest). Tutti i Canti pisani recano nei
manoscritti e dattiloscritti caratteri cinesi tratti dai Quattro libri,
solo alcuni dei quali sopravvissero nel testo a stampa, sicché è probabile che
a Pisa avesse con sé l’edizione di Legge.
E qui a Pisa trovò un’altra
fonte importante, non in libreria ma nella latrina:
That from the gates of death,
that from the gates of death: Whitman or Lovelace
found on the jo-house
seat at that
in a cheap edition! [and
thanks to Professor Speare]
hast’ou swum in a sea of
air strip
through an aeon of nothingness,
when the raft broke and the
waters went over me[2]
Che dalle porte della morte,
che dalle porte della
morte: Whitman o Lovelace
trovati
sul sedile della latrina addirittura
in edizione economica! [e grazie al professor Speare]
hai nuotato in un mare di asfalto
attraverso un eone di nulla,
quando la chiatta si spezzò e le acque mi travolsero
Questo è l’ingresso dell’editoria in paperback
nei Cantos. Infatti l’antologia di Speare era appunto un “pocket book” che chissà un soldato
si era portato dietro dal College, o forse veniva distribuito alle forze armate
che non ne facevano gran conto se lo dimenticavano in latrina. Ma per Pound fu una scoperta: il suo amato Edward
Fitzgerald col malinconico Rubaiyat
(canto 80), e il secentesco Lovelace, di cui Speare ristampa manco a farlo apposta una poesia intitolata
“To Althea, from Prison” (canto 81), e
persino il padre Whitman, con i cui ritmi possenti e
sensuali Pound non tarda a trovare una sintonia
(canto 82). E allora gli viene in mente di fare una storia poetica della poesia
inglese:[3] Fitzgerald e Khayyam e Rossetti
nel canto 80, Edmund Waller,
i liutai elisabettiani e i loro precedenti in Chaucer
nel canto 81, Swinburne e Whitman
nel canto 82, Yeats nell’83:
Then resolve me,
tell me aright
If Waller sang or Dowland
played.
Your eyen two wol sleye me sodenly
I may the beauté of hem nat susteyne
And for 180 years almost
nothing.
Ed ascoltando al leggier mormorio
there came new subtlety
of eyes into my tent,
whether of spirit or
hypostasis... (canto 81, p. 1020)
Dunque
risolvimi, dimmi bene
Se Waller cantò o Dowland suonò.
I tuoi due occhi mi
uccideranno prontamente
La loro bellezza non
posso sostenere
E per 180 anni quasi niente.
Ed ascoltando al leggier mormorio
nuova sottigliezza
d’occhi venne nella mia tenda,
fosse di spirito o ipostasi...
E’ il famoso brano spiritico del canto 81, dove la storia poetica in
qualche modo si trasforma in visione palpabile: occhi di visitatrici che il
poeta “vede” “nella mia tenda”. I “180 anni” sono l’epoca pressoché priva di
poesia inglese fra Chaucer (fonte del verso sugli
occhi assassini), morto nel 1400, e l’epoca di Shakespeare
(nato nel 1564). Infatti Pound aveva sotto gli occhi
il Pocket Book di Speare, che si apre con Chaucer, “Ballade of Good Counsel”, e passa subito a
William Stevenson (“morto nel 1575”), “Jolly Good Ale and Old”, dove Pound (ri)trovò il ritornello:
Back and side go bare, go
bare,
Both foot and hand go cold;
But, belly, God send thee good
ale enough,
Whether it be new or old.[4]
Dorso e fianco vadano spogli,
piede e mano abbian freddo;
ma, pancia, Dio ti mandi birra a sufficienza
non importa se giovane
o vecchia.
Donde un appunto sulla penultima pagina del canto 80:
When a butt is ½ as tall as a
whole butt
That butt is a small butt
Let backe and side go bare
and the old kitchen left as
the monks had left it
and the rest as time has cleft
it.
[Only shadows enter my tent
as men pass between me and the sunset,] (p. 535)
Quando una estremità è la metà di una estremità intera
è una estremità piccola
Dorso e fianco vadano spogli,
e la vecchia cucina lasciata come i monaci la lasciarono
e il resto come gli anni lo scavarono.
[Solo ombre entrano nella mia tenda
mentre gli uomini
passano fra me e il tramonto,]
Solo ombre... Pound sembra giocherellare (il
ragionamento sul mezzo “butt” pare uno scherzo, e vale a ricordare il dorso
della ballata di William Stevenson). E’ in quella condizione sospesa quando ci si
lascia portare dai ricordi, dagli scherzi del caso. Subito apparirà una scrofa
oltre il filo spinato, poi il ricordo (a proposito di vecchia Inghilterra) di
un lontano Natale passato con lo scrittore italofilo Maurice Hewlett quando gli
apparvero dei fantasmi su Salisbury Plain, così come erano apparsi in sogno a Wordsworth nello stesso luogo.[5] E
fantasmi benevoli lo visiteranno – “ombre” – nella tenda qualche pagina più in
là.
Ma per tornare ai “180
anni” di silenzio poetico, la frase corrisponde appunto al vuoto che c’è
nell’antologia di Speare fra Chaucer
(1340-1400) e i poeti del tardo ’500: Stevenson
(+1575), Drayton (1563-1681), Marlowe
(1564-1593) e Shakespeare (1564-1616).[6]
“Quasi nulla”, spiega agli allievi il maestro Pound.
Poi l’occhio gli cade sulla “Ballade of Good Counsel” di Chaucer, l’unica sua poesia antologizzata
da Speare (in una versione moderna di Henry Van Dyke)
e quella che apre il Pocket Book:
Flee from the crowd and dwell
with truthfulness:
Suffice thee with thy goods, tho’
they be small:
To hoard brings hate, to climb
brings giddiness;
The crowd has envy, and success blinds all;
Desire no more than to thy lot may fall;
Work well thyself to counsel
others clear,
And Truth shall make thee
free, there is no fear!
...
Therefore, poor beast, forsake
thy wretchedness;
No longer let the vain world be thy stall.[7]
Fuggi la folla e abita con la sincerità:
accontentati dei tuoi beni benché piccoli:
l’accumulare porta odio, il salire confusione;
la folla ha invidia, il successo tutto acceca;
non desiderare più di quanto ti è dato;
opera bene tu per ben consigliare gli altri,
e la verità di renderà libero, non temere!
...
Perciò, povera bestia, abbandona la tua miseria;
non lasciare più che il mondo vano sia la tua stalla.
Pound
lesse senz’altro queste righe, perché sulla terza pagina del canto 82
annota una variazione del penultimo
verso:
(Cythera Cythera)
With Dirce in one bark convey’d
Be glad poor beaste, love follows after thee (p. 1028)
(Cythera Cythera)
Con Dirce in un unico
battello trasportati
Sii contenta povero animale, ché amore ti segue
Qui ci avviciniamo alla poesia visiva. Nel canto 80 si parlava del
pianeta Venere apparentemente portato dalla “chiatta della luna”, dal crescente
(“Cythera in the moon’s barge whither? how hast thou
the crescent for car?”, p. 1002). Qui il pianeta vicino al crescente ricorda
a Pound un verso da “Dirce” di W.S. Landor (per una
volta non in Speare),[8] e
poi il conforto che la prospettiva dell’amore può dare (variazione su Chaucer).
La “Ballata del buon
consiglio” di Chaucer ebbe però un frutto assai più
vistoso: dopo aver desunto dalla scelta di Speare la
constatazione del quasi-vuoto fra Chaucer
e l’età di Shakespeare, Pound
prende spunto dalla ballata di Chaucer per la sua
apostrofe sulla vanità, o piuttosto per il modo in cui la sviluppa, fino a
citarla riportarne un verso fra virgolette:
Learn of the green world what
can be thy place
In scaled invention and true
artistry,
Pull down thy vanity,
Paquin pull down!
The green casque
has outdone your elegance.
“Master thyself, then others
shall thee beare”
Pull down thy vanity...
(canto 81, p. 1022)
Apprendi dal mondo verde quale sia il tuo posto
nell’invenzione proporzionata e l’arte vera,
deponi la vanità,
Paquin
deponila!
Il casco verde ha vinto la tua eleganza.
“Sii padrone di te stesso, e altri ti tollereranno”
deponi la vanità...
Il penultimo verso è la pseudocitazione di Chaucer, che nel secondo ritornello della versione di Speare dice: “Subdue thyself, and others thee shall hear”
(sottometti te stesso, e altri ti ascolteranno). Pound
conserva la rima (aggiungendovi una “e” per conferirvi una patina di falso
antico) ma non resiste alla tentazione di migliorare la versione. L’originale
di Chaucer legge: “Daunte thy-self, that dauntest otheres dede”, che è assai più pungente delle due versioni moderne:
censura te stesso, tu che censuri gli
altri.
La ballata di Chaucer letta in Speare è solo
uno degli stimoli che entrano in gioco nella pagina di Pound.
Lo stesso termine “vanity” sembrerebbe derivare dall’Ecclesiaste o Qohelet
(anche riportato in Speare nella versione classica
detta di Re Giacomo): “Vanity of vanities,
saith the Preacher; all is vanity”.
Ma a parte quanto Pound aveva scritto dissennatamente
del “veleno” delle sacre scritture ebraiche,[9] mi
sembra che egli usi “vanity” solo nel senso di
orgoglio, laddove nell’Ecclesiaste ha il significato
di “cosa vana”. Il Qohelet propone una visione
cupa della vita come vana e senza frutto in quanto condannata all’estinzione,
nell’uomo come nella bestia; Pound censura la vanità
umana per riaffermare i valori in cui crede:
... it is not man
Made courage, or made order,
or made grace (canto 81, p. 1022)
...non fu l’uomo
a fare il coraggio, o l’ordine, o la grazia
Cioè queste virtù si trovano in natura, anche se c’è una licenza
poetica nell’attribuire agli animali del coraggio o perlomeno nel contrapporlo
a quello umano. Questo brano di Pound, forse il più celebre, è dunque una confluenza di
molte voci, molti libri. E’ un pastiche in un certo stile, il che non impedisce
al poeta di dirvi cose che gli stanno a cuore e soprattutto nel finale di
montare una propria sommessa autodifesa, di figlio rispettoso della tradizione
(proprio lui!), soprattutto di uno che se ha sbagliato è per aver troppo fatto, per non essersi tirato
indietro. E a forza di errori egli si vanta (“pull
down thy vanity”!) di aver
“raccolto nell’aria una tradizione viva”. E questo è un bel verso, memorabile
come “La poesia non conta” del più prosaico Eliot.
Abbiamo dunque visto
che anche nei momenti migliori e meno programmatici Pound non è mai
troppo lontano dalla sua scrivania di umanista che scrive un poema didattico
compulsando e chiosando testi più o meno sacri letti con perenne curiosità alla
ricerca di quello che chiamava il “dettaglio luminoso”: un frammento, una
frase, di cui vale la pena di raccontare e che dovrebbe contenere in nuce una rivelazione imprescindibile. Come un umanista Pound scava nelle biblioteche e copre campi diversi del
sapere, seguendo solo il suo gusto e il suo risentito senso morale, paradossale in quanto lo scopriamo simpatizzante
con figuri di dubbia onestà intellettuale. Le lettere scritte da Washington nel
dopoguerra sono piene di ammirazione per quel valent’uomo che fu il senatore Joseph McCarthy,[10]
come nell’anteguerra Pound stimava padre Charles Coughlin (1891-1979),
noto agitatore antiebraico e filofascista (vedi lo
studio di Leo Lowenthal e Norbert
Guterman, Prophets
of Deceit: A Study of the Techniques of the American Agitator
(New York, 1949), dove troviamo tutta la casistica e retorica che torna
nell’agitatore Pound). Però è questa volontà di
affrontare il mondo e di compromettersi con la storia in cui “nessuno è
innocente” che rendono l’impresa poundiana
affascinante. Per quanto amante dei suoi paradisi liguri e veneziani, egli
aveva l’assillo di scendere nella mischia, cedendo a fantasmi e ossessioni e
venendone travolto.
Ma torniamo ancora brevemente alle biblioteche, da cui non si penserebbe
che il nostro umanista attardato potesse trarre materiali e principi così
incendiari. Una delle fonti citate all’inizio di questa carrellata è la Patrologia
latina. Le Letters permettono di datare
con certezza, fra 8 dicembre 1939 e 12 gennaio 1940, il momento in cui Pound riuscì a
portarsi a casa il volume 122 dell’immane raccolta per leggere con comodo le
opere a lungo pregustate di Giovanni Scoto Eriugena, “whose text I have wheedled
out of Genova” dice.[11]
L’ha proprio sottratto a una delle biblioteche. Forse si potrebbe ancora
trovare a Genova il volume con i suoi segni, se ve ne lasciò. Ne uscirono dei
progetti di studi rimasti tali, e alcune citazioni e versi dei Canti pisani:
“hilaritas”, “omnia quae sunt lumina sunt”...
Trovò nel volumone quello che gli piaceva, anche una
poesia in onore della brava tessitrice moglie di Carlo il Calvo (canto 83),
paragonata ad aracne, la buona ragna. Nel dopoguerra,
a Washington, Pound continuò a leggere la Patrologia
di Migne, traendone ad es. le pagine sui Longobardi
da Paolo Diacono nel canto 96. Mary de Rachewiltz ci
dice che egli ottenne di consultare i volumi “con provvedimento speciale
dell’Università Cattolica di Washington”.[12]
Forse anche il Bibliotecario della Biblioteca del Congresso chiudeva un occhio
e forniva qualche libro in consultazione, la benzina della poesia.
Infatti le “decadi” di
Washington riprendono dopo la pausa della guerra la forma messa a punto nella Quinta
decade: episodi, ripetizioni, liriche, letture commentate... Ma in modo più
rarefatto. Resta la necessità per il lettore-scolaro di procurarsi il volume
commentato, se no la lezione-canto non si segue. Pound
amava le note a pie’ di pagina, ne estraeva
informazioni. Lasciava correre l’occhio. Per qualche passo cercava il collage di tipo futurista, non
senza una certa monelleria per stordire i profani. Come nel passo del canto 96
(p. 1254) dove troviamo citazioni greche e caratteri cinesi affiancati, ma
sbaglieremmo se ci venisse l’idea che gli uni siano una traduzione degli altri.
Qui come altrove Pound fabbrica una sorta di pseudofilologia poetica. Non di rado polemizza con i
professori che hanno curato i libri di cui si serve. Questo ego soverchiante fu
forse ciò che lo aiutò a tenersi a galla in condizioni così ardue ed eccezionali,
a non perdere la fiducia nella sua voce, nel suo canto. La parola di Pound resta robusta fino alla fine. Magari non sappiamo
cosa stia dicendo, e dubitiamo dell’esattezza dei suoi giudizi. Ma non c’è
dubbio che sia una voce autorevole, che scandisce le parole, imperterrita.
Parla fra sé e sé di argomenti oscurissimi, ma come
dando per scontato che l’uditorio non stacchi la spina. Conduce il gioco.
Inizia un nuovo canto, un nuovo corso. Buon lavoro.
Ancora in quella che è
l’ultima pagina compiuta del poema (canto 116) lo troviamo nell’atto di
commentare, di fare della filologia poetica:
but about that terzo
third heaven,
that Venere,
again is all “paradiso”
a nice quiet paradise
over the shambles,
and some climbing
before the take-off,
to “see again”,
the verb is “see”, not “walk
on”
i.e. it coheres alright
even if my notes do not cohere.
Many errors,
a little rightness,
to excuse his hell
and my paradiso. (p. 1484)
ma quanto a quel terzo
terzo cielo,
quel cielo
di Venere,
di nuovo è tutto “paradiso”
un bel paradiso
tranquillo
sopra le
macerie,
e un bell’arrampicarsi
prima del lancio,
per “rivedere”,
il verbo è “vedere” non “andare avanti”
cioè per parte sua è coerente
anche se le mie note
non lo sono.
Molti errori,
un po’ di giustezza,
per scusare il suo inferno
e
il mio paradiso.
In stato d’animo confessionale, Pound
rivendica qualche intuizione nel suo “paradiso” (per cui vagamente intende i
canti scritti negli anni 1950, in parte anche i Pisani). Ma non si
perita di paragonare la sua opera addirittura a quella di Dante, il cui
inferno, come il suo paradiso, sarebbe viziato da “molti errori”. Per quanto
riguarda la filologia, egli sta spiegando ai suoi allievi, se ben lo
intendiamo, l’ultimo verso dell’Inferno, dove, dopo “una bella
arrampicata”, Dante e Virgilio, escono fuori “a riveder le stelle”. Vedere,
sottolinea Pound, trovandovi non so quale pregnanza.
E’ la condanna degli insegnanti dover convincere gli studenti che hanno
scoperto qualcosa di importante e inedito, e Pound
non vi sfugge. Ma la sua filologia poetica desta suggestioni: quando dice “it coheres” si riferisce col
pronome al verso commentato, ma anche all’Inferno e alla Commedia
nel suo insieme, e forse al cosmo, che continua a dargli barlumi di senso e a
volte di generosità, indicando a lui e a noi la lezione, il “buon consiglio”,
di accettare il nostro posto con un pizzico, almeno, di umiltà. Ormai i versi
sono di poche parole, i referenti sfuggono, ma Pound
non rinuncia a condurre la sua impresa e il suo lettore a riveder le stelle: “to lead back to
splendour”, come dice l’ultimo verso del canto e dei Cantos (p. 1486).
Sullo sfondo di questa
conclusione in crescendo è la lettura poundiana delle
Trachinie e l’idea della rivelazione dello
splendore del tutto all’eroe nel momento supremo. La tragedia per Pound finisce in una riaffermazione dell’io nel mondo, in
un tutto congegnato. Non c’è il fatalismo del tragico shakespeariano.
C’è, un poco astratta, la virtù della carità paolina.
Pound conosceva sicuramente il passo della Prima
lettera ai Corinzi dalla sua educazione nella chiesa anglicana episcopale, e la
citazione ritorna mimetizzata felicemente nel primo dei Pisani a
proposito del negro che gli fabbrica un tavolo:
of the Baluba
mask: “doan you tell no one
I made you that table”
methenamine eases
the urine
and the greatest is charity
to be found among those who
have not observed regulations
(canto 74, p. 856)
dalla maschera Baluba: “non dire a nessuno
che ti ho fatto quel
tavolo”
la metenamina
è diuretica
e la maggiore è la carità
reperibile fra coloro che non
hanno osservato le regole
Questo è un epitaffio migliore per Pound di
tante riaffermazioni risicate di coerenza e splendore. (Notevolissimo l’a-parte
sui benefici di una certa sostanza per la minzione: attività importante almeno
quanto la composizione di poesie.) Come il suo soccorritore negro, il poeta non
ha osservato le regole, e ha dato, almeno occasionalmente, prova di carità. Ciò
che qui è implicito è reso esplicito nella chiusa dei Cantos:
“Charity I have had sometimes, / I cannot make it flow
thru”. “A volte ho avuto carità, / non riesco a farla
scorrere”. L’ostacolo permane, riconosciuto. Per Pound
la soluzione è che l’impedimento e il fallimento personale non inficiano lo
scorrere universale, in cui, beato lui, non cessa di credere:
Hilary stumbles, but the
Divine Mind is abundant
unceasing
improvisatore
(canto 92, p. 1192)
Ilario incespica, ma la Mente Divina è abbondante
incessante
improvisatore
Anche sant’Ilario, vescovo di Poitiers (c. 315-367), “incespica”, e ciò
nonostante “il cosmo continua” (canto 87, p. 1110), fornendo continui spunti ai
poeti e ai lettori. Chissà se questi peccatucci di Ilario – autore di
importanti inni e trattati -- sono un’altra scoperta fatta da Pound nella Patrologia. Sarà per la prossima
lezione.
[1] Molti volumi effettivamente appartenuti a Pound sono elencati e utilizzati nelle edizioni dei Cantos di Mary de Racheilwtz, Milano, 1961, 1985.
[2] E. Pound, I Cantos, a cura di M. de Rachewiltz, Milano, 1985, p. 1007 (canto 80). (I riferimenti nel testo sono a questa edizione. La traduzione è di regola mia.) La parentesi quadra è di Pound, un ringraziamento allo scoliasta che si pone nella scia di quello ad Andreas Divus nel canto 1.
[3] Ne scrive il 19-10-45 da
Pisa alla figlia, parlando di “canti inglesi”, che “danno un riassunto della
storia inglese e una sintesi scorciata dello sviluppo della metrica inglese”. Vedi Paideuma,
27.2-3 (1998), 103.
[4] M.E. Speare, Pocket Book, p. 2. L’ultimo verso potrebbe aver influito su quello succitato del canto 81: “whether of spirit or hypostasis”.
[5] W. Wordsworth, Il preludio, Milano, 1990, libro XII. La visione degli spiriti a Salisbury era già stata narrata da Pound in “Three Cantos” (1917).
[6] E’ strano che Speare ignori perlomeno Wyatt (1503-42), Surrey (1516-47), Spenser (1552-99) e Sidney (1554-86). Donde un maggiore effetto di “vuoto” fra Chaucer e Shakespeare, che colpì Pound.
[7] M.E. Speare, Pocket Book, p. 1.
[8] Si trova però nell’Oxford Book of English Verse di A. Quiller-Couch, Oxford, 1926, p. 665. Il testo di Landor ha “boat” anziché il “bark” di Pound.
[9] E. Pound, Carta da visita (1942), Milano, 1974, p. 28. Il problema cointinua ad assillarlo a Pisa e nei Canti pisani, quasi per fare ammenda, cita diversi brani contro l’usura dalla Bibbia d’ordinanza per i prigionieri.,
[10] Vedi ad es. E. Pound, “I Cease Not to Yowl”:
Letters to Olivia Rossetti Agresti,
a cura di D.P. Tryphonopoulos e L. Syrette,
Univ. of Illinois Press, 1998, pp. 106, 112, ecc.
[11] Letters
of Ezra Pound 1907-1941, a cura di D.D. Paige, New York, 1950, p. 333 (16-1-1940).
[12] Cantos, p. 1608.