Massimo Bacigalupo

Cohen. Cascata di metafore radicate nella carne.

Notissimo e bravissimo cantautore canadese, nato a Montreal nel 1934, Leonard Cohen è anche un poeta cospicuo. Pubblicò la prima raccolta nel 1956 col titolo Let Us Compare Mythologies, ora accuratamente edita in italiano con testo a fronte da Minimum Fax: Confrontiamo allora i nostri miti, traduzione di Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, pp.151, € 12,50. Forse De Cataldo esagera un po’ nella prefazione dicendo che di Urlo di Ginsberg, uscito nello stesso anno, e dell’esperienza Beat, oggi “si sono pressoché perse le tracce”, laddove Cohen resta sulla breccia. Ma l’entusiasmo per questo poetico cantore privo di isterismi ginsbergiani ma in fondo appartenente alla stessa cultura ebraico-americana si può comprendere.

     I testi di Cohen sone sempre lucidi e ispirati, anche in questa prima raccolta che è più letteraria (alla Dylan Thomas) delle prove successive. Eppure si alternano ballate suggestive o impressionanti, immagini di vita urbana, fresche espressioni di sensualità, prose poetiche, storie truci di Marinelle canadesi uccise a coltellate, immagini della storia ebraica e del genocidio. Un testo è dedicato a Irving Layton, figura di padre selvaggio dei poeti canadesi: “Nessuna risposta nei tuoi deliziosi / racconti zarathustriani, / di come le strade e i vicoli del paradiso / non fossero sicuri per le ragazze sacre...”

    Il mondo  creativo di Cohen è sempre in movimento  e i significati si fissano solo brevemente: “Ho sentito di un uomo / che pronuncia le parole così splendidamente / che se solo ne proferisce il nome / le donne gli si concedono. // Se io sono muto accanto al tuo corpo / mentre il silenzio sboccia come tumori sulle nostre labbra / è perché sento che un uomo sale le scale / e si schiarisce la voce alla porta”. Cohen riesce a essere insieme colto, individuale e popolare. Le sue canzoni sono in fondo cantate a voce bassa, come delle riflessioni non senza malinconia ma anche sicure della loro passione vitale. 

    Da un periodo trascorso sull’isola di Hydra, dove il poeta possiede una casa,  nasce cinque anni dopo la raccolta Le spezie della terra, anch’essa curata egregiamente per Minimum Fax da De Cataldo e Abeni (pp. 207, € 13,50), con una nota molto pertinente di Moni Ovadia: “Leonard Cohen è uno di quegli artisti e intellettuali ebrei che riesce ancora a mantenere vivo lo spaesamento e la contraddizione che hanno caratterizzato il sentire ebraico nel corso della bimillenaria diaspora; questa capacità rischiosa è sempre più rara e malvista nel mainstream dell’ebraismo, molto tentato dalla lusinga nazionalista”.

    Ovadia cita il testo in prosa che chiude il volume, Passi dal diario di mio nonno: “Non mi emoziono alla vista dei battaglioni ebrei. Ma c’è una sola scelta tra i ghetti e i battaglioni, tra le fruste e la più frusta arroganza patriottica...”.

    Un’altra scelta forse c’è, ed è quella della ricerca di comunicazione poetico-sensuale-musicale cui Cohen (come il suo estimatore Ovadia) dedica il suo talento. Le spezie della terra è un libro ricchissimo, semplice e misterioso: “Morto, me ne stavo sdraiato / Sul mio letto d’amore inzuppato, / E gli angeli in fronte mi hanno baciato. //  Ne ho afferrato forte / Una per la veste, e le ho fatto la corte / Per farne la mia donna nella città della morte...”.

    Dopo l’atto sessuale, scrive un commentatore, il poeta ha un momento di illuminazione trascendente. Lo stesso critico suggerisce che Penzola, Jocko è “un’apostrofe al fallo”: “E’un coso  che penzola, Jocko, / ma noi non ci vogliamo dentro troppa carne. / Fallo come nelle preghiere del Quattrocento, / amore senza orgasmo, / amore costante, / e passione senza carne. // Tirala lunga, Jocko, / come la lunga serpe dal braccio di Mosè: / come deve aver urlato / nel vedere una serpe che usciva dal suo corpo; / non c’è da stupirsi che non si sia mai sentito santo: / è questo l’urlo che vogliamo stanotte...” 

    Il processo metaforico è così libero e aereo che il testo si offre a più letture. Sono le urla di piacere delle ragazze che il poeta e il suo sesso pregustano sul fare della notte? Probabilmente. Jocko, dice una nota del traduttore, è nome consueto per una scimmia; ma jockstrap è un sospensorio, e sicuramente a questo anche si allude.

    Lo spirito di Cohen è fermamente radicato nella carne. “Fa’ del mio corpo / uno scrigno per i vermi / e della mia anima / fragranza di chiodi di garofano... Conduci il tuo sacerdote / dalla tomba al vigneto, / Deponilo / dove l’aria è soave”. Così l’ultimo testo del libro, augurale e quasi rituale.

    Ovadia, sempre spiritoso, raccomanda anche la Canzone del cornuto e il catalogo ironico e amoroso dei luoghi comuni antiebraici: “Per te / sarò un ebreo del ghetto / e ballerò... e avvelenerò pozzi / in tutta la città”. Che nell’originale suona felicemente “For you / I will be a ghetto jew...”.

   Secondo il chiosatore Harrell Thompson, quarant’anni fa un periodico canadese scrisse che i principali temi di Cohen erano “sesso, LSD, marijuana, poesia, coscienza espansa”. Aveva fama di enfant terrible. Col passare del tempo non è mutato il suo atteggiamento dissacrante, ma la sua poesia è sempre stata per buona parte celebrativa, gaudente, ancorché critica. Nella sua ultima raccolta,  Il libro del desiderio, uscita nel 2007 negli Oscar, lo troviamo addirittura trasformato in monaco zen, che detta apoftegmi  come: “E’ così divertente / credere in D-o / Ci dovresti provare qualche volta / Provaci adesso / e scopri se / D-o vuole / o non vuole / che tu creda in Lui”. E si firma con una decina di nomi, da “Eliazar figlio di Nissim prete di Israele”, a “Zikan l’inaffidabile, monaco zen”, a Leonard Cohen, “fondatore dell’Ordine del Cuore Unificato”.

     Il libro del desiderio è un capolavoro pop in cui testi poetici brevi e lunghi si alternano a disegni, soprattutto autoritratti e nudi femminili insieme sensuali e poetici, e a sigilli, fra cui appunto quello del Cuore Unificato, geniale e augurale variazione sulla Stella di David.

“Il manifesto-Alias”,  8 maggio 201