Krippendorff, Shakespeare nostra utopia
Di Shakespeare si
occupano di solito gli specialisti, che lo studiano l’un contro l’altro armati
a furia di proposte e controproposte critiche e testuali, e i teatranti, che lo
mungono con maggiore o minore rispetto visto che certi copioni garantiscono un
buon riscontro di botteghino. Per registi, attori e maestri di recitazione i 36
drammi costituiscono un repertorio insostituibile per imparare e insegnare cosa
è il teatro. “Ma Shakespeare è troppo vasto e importante per lasciarlo agli
esperti” scrive Ekkehart Krippendorff,
fino al 1999 professore di scienze politiche a Berlino e autore di molte
opere di grande respiro sul senso stesso della politica (L’arte di non essere governati, Critica della politica,
entrambe edite da Fazi), ma anche su Goethe, su viaggiare in Italia e ora
appunto su Shakespeare politico.
Drammi storici, drammi romani, tragedie (trad. R. Benatti e F.
Materzanini, Fazi, pp. 346, € 29,00). Uscito in Germania nel 1992, è un libro
che attinge all’immenso cantiere della critica shakespeariana, cioè solidamente
documentato, ma che beneficia della sua extraterritorialità, dei seri
interrogativi contemporanei con cui avvicina il testo. Krippendorff è autore di
grande vigore intellettuale, di posizioni progressiste, ma assai pessimista
sulle strutture che gli uomini si sono dati per governarsi: “Fino a oggi, tutta
Così decontestualizzate e in traduzione, sembrano affermazioni piuttosto estreme. In realtà fanno parte di un ragionamento serrato e non retorico che passa con coraggio ma anche con ponderazione dal mondo di Shakespeare al mondo di tutti. L’Introduzione propone una rassegna dei temi politici di fondo del drammaturgo: i “meccanismi di riproduzione del dominio” e la “profonda paura (di S.) di fronte al potere sovrano, di fronte a ogni potere di governo, dei danni che esso può provocare alla società e che di regola causa” (mia la sottolineatura). Qui emerge la posizione propositiva dell’autore: “I drammi, a qualsiasi genere appartengano, ruotano attorno a una problematica centrale per la convivenza umana, quella della possibilità di una guida politica della comunità legittimata da un orientamento verso la giustizia e dalla risoluzione non violenta dei conflitti”.
Più avanti indicherà diverse volte un’immagine della politica non come gestione del potere ma come servizio, tutto il contrario – sottolinea nell’ultimo ottimo capitolo a proposito della Tempesta – dell’utopia. “Il grande compito che ne deriva – la domanda ancora senza risposta – è creare istituzioni che regolamentino la società e la collettività senza la seduzione dell’esercizio del potere, per cui non sembri più desiderabile vivere sotto i riflettori dell’opinione pubblica, sulla scena degli affari di stato nei telegiornali quotidiani”. I politici dovrebbero essere un po’ meno attori o prime donne, e fare il loro mestiere in tranquilla oscurità. Ma probabilmente il talento politico è legato al piacere del potere (giacché come insegna il proverbio “comandare è meglio che camminare”).
Tuttavia questo piacere, stando a
Shakespeare, si accompagna una buona dose di infelicità. “Egli indica un passo
avanti in questa direzione, chiamiamolo tranquillamente ‘critica politica’:
tutti i sovrani storici che ci presenta sono infatti uomini profondamente
infelici, indipendentemente dal fatto che abbiano avuto una morte violenta”.
Questo deve essere vero anche per l’eroico re-soldato Enrico V, che spesso
calca le scene italiane e cinematografiche, che conduce una imperialistica
guerra di aggressione contro
Altri temi politici sono la critica dell’individualismo e di “una sfera politica estranea alla collettività”, come anche “la scoperta della relazione tra virilità, brama di potere e violenza” e “l’esclusione delle donne dalla società e conseguente predisposizione alla guerra... conferma anticipata di alcuni punti centrali della critica femminista verso i rapporti storici di potere”.
Nelle avvincenti letture che Shakespeare politico offre di undici drammi, il corteggiamento comico di Enrico V alla principessa francese è riletto in questa ottica di genere, come anche il ruolo di Fulvia nel gioco di potere fra suo fratello Augusto e Marco Antonio in Antonio e Cleopatra. Laddove Cleopatra, rappresentante del Terzo Mondo contro Roma, afferma la vittoria della vita sulla politica sconfiggendo e irridendo col suo suicidio e la sua fama postuma il gelido vincitore Augusto.
Infine Krippendorff isola il tema della
“legittimità del potere” e delle sue fondamenta. Nei tempi moderni la
legittimità si riduce alla “ricerca del consenso” e all’efficienza
socioeconomica, mentre “la reale legittimità dell’autorità si manifesta laddove
essa resiste a una crisi d’efficienza (una sconfitta militare per esempio, oppure una crisi economica)”. O, potremmo
aggiungere nel
Augusto, per tornare ad Antonio e Cleopatra, rappresenta evidentemente la legittimità come esercizio del potere, coercizione ed efficienza, separazione della sfera individuale e affettiva da quella politica. Cleopatra appartiene all’“infinita varietà” della creazione, anzi l’incarna, da una posizione tutta corporea (il sesso) e metafisica (la statura semidivina dei due amanti). La vittoria di Augusto, di Roma sull’Egitto, determinerà la futura storia del mondo. Ma “Quale prezzo ha dovuto pagare Roma e abbiamo dovuto pagare anche noi europei che siamo gli eredi politici e storici di Roma? Simili domande, tuttora senza risposta, emergono dal dramma nel momento in cui il sipario cala sugli innamorati suicidi e sull’odioso personaggio ancora in vita, con cui dovrebbe iniziare un periodo di pace...”
Sicché, suggerisce Krippendorff, non si tratta qui di metafisica, o di un ritorno al potere “per grazia divina”, ma “una metafora dell’irrinunciabile necessità di giustificare moralmente l’azione politica... le cui conseguenze devono essere subite da milioni di essere umani... La politica è azione morale – oppure non è politica, è politica distruttiva, è agire distruttivo”. Così Shakespeare – che come noto non offre opinioni o giudizi espliciti – rivela la natura delle cose, le spaccature che si aprono nella storia in seguito a eventi come l’assassinio di Cesare e la vittoria di Augusto, e fa sentire gli spettatori eredi di una tradizione luttuosa da cui non si sfugge ma da cui si può imparare.
Krippendorff offre come s’è detto undici letture che veramente ci consentono di avvicinare o tornare con sguardo fresco ai drammi. I titoli isolano i temi su cui si appunta la sua indagine: Troilo e Cressida e “la recita finale della ragion di Stato”, Riccardo II e “il peccato originale della politica”, Enrico IV e “la conservazione del potere”, “l’inarrestabile ascesa” (hitleriana) di Riccardo III, Coriolano come “eroe e guastafeste del dominio di classe” (quello che dice la verità sui rapporti di potere e deve essere dunque eliminato), Giulio Cesare o “Sei ancora potente, il tuo spirito cammina” (i cesaricidi come costruttori involontari del cesarismo), Re Lear come “parabola dell’irragionevolezza del potere”, Amleto come “rinuncia fallimentare all’ascesa”.
Qui Fortebraccio che va in Polonia a combattere per un palmo di terra è visto alla luce della prima Guerra del Golfo coeva alle lezioni shakespeariane di Krippendorff, e sarebbe la molla che convince Amleto – sin lì estraneo al meccanismo di Elsinore – a buttarsi a capofitto nel gioco al massacro. Una lettura anche in questo caso convincente e ricchissima di spunti che saranno preziosi per lettori e registi e anche per chi vuol ripensare creativamente la politica, oggi.
“Il manifesto-Alias”, 15 ottobre 2005