Massimo Bacigalupo

ma chi accusa Hemingway non conosce il suo stile

 

Il giornalista tedesco Rainer Schmitz ha pubblicato a ottobre un inconsueto dizionario letterario, Che ne è stato del teschio di Schiller? (Was geschah mit Schillers Schädel?, Eichborn, 900 pagine, 1200 voci, 39,90), che ha per argomento – recita il sottotitolo –  Tutto ciò che non sapete sulla letteratura. Alla voce “Hemingway”, Schmitz riporta una lettera del 1950 in cui l’autore di Fiesta afferma di aver ucciso 122 tedeschi durante la sua campagna per la “liberazione del Bar del Ritz di Parigi” (come la chiamano scherzosamente gli addetti).

      Anticipata in Germania dal Bild”, la notizia è stata ripresa da "Repubblica” (“Hemingway criminale?”, 27 settembre), poi il Corriere ne ha tratto spunto per imbastire un dibattito sul “nichilista che sapeva uccidere”, con interventi di Giovanni Reale, Emanuele Severino e altri. Rincara la dose, sempre sul Corriere”, Ennio Caretto che, a proposito dell’epistolario di Martha Gellhorn, terza moglie dell’autore di Per chi suona la campagna (sic), ci rivela che Ernest lasciava a desiderare anche come amante: “wham, bam, grazie signora, o addirittura, wham, bam e basta”  (Mio marito Hemingway, violento e codardo, 4 ottobre). Così l’imputato Hemingway è ancora una volta processato sommariamente sulle pagine culturali dei giornali.

    Ma i capi d’accusa non sono una novità. Gli studiosi di Hemingway e i lettori delle sue lettere conoscono da sempre le sue vanterie su presunti massacri di nemici. In un documentato articolo sulla Hemingway Review” (2002), “Corrispondente o combattente: l’oscura esperienza di ‘combattimento’ di Hemingway nella II guerra mondiale”, William E. Cote  ha affrontato  la questione partendo dal fatto che Hemingway era accreditato come corrispondente di guerra e dunque non avrebbe dovuto partecipare ai combattimenti, e ricorda che la sua posizione fu oggetto di messaggi e preoccupazioni del quartier generale alleato (che voleva sfruttarne l’immagine e allo stesso tempo tenerlo a freno). Nessuno degli amici giornalisti (fra cui Frank Capa) che gli  furono vicini nelle tre settimane dell’operazione (gonfiati a oltre 100 giorni nei racconti di H.) lo vide compiere atti di guerra. Poi vennero le lettere incriminate, in una delle quali (1948) affermava di avere ucciso ventisei tedeschi “sicuri”, senza contare i “possibili”. Due anni dopo i “sicuri” diventano addirittura i 122 di Schmitz.

     Conoscendo le condizioni mentali assai precarie di Hemingway, alcoolista cronico, le sue millanterie non stupiscono, e molti testimoni ricordano simili racconti esagerati e il fatto che egli non distinguesse fantasia e realtà. La crescita esponenziale dei nemici uccisi richiama una scena famosa dell’Enrico IV di Shakespeare in cui Falstaff si vanta di aver sgominato degli attaccanti nel corso di una rapina, e mentre va raccontando l’episodio il numero degli avversari fatti fuori cresce esponenzialmente fra l’incredulità e i lazzi degli astanti (e Falstaff ne è ben consapevole). Analogamente Pablo Picasso ebbe modo di udire, durante una cena a Parigi, Hemingway che si vantava di aver ucciso una SS, e ne trasse la lapidaria conclusione: “Era falso. Se fosse stato vero non avrebbe passato in giro i distintivi”.

         Putroppo Hemingway è uno scrittore popolarissimo quanto sconosciuto, e ben pochi dei lettori dei dibattiti sulle sue imprese belliche e amatorie sanno che egli è uno stiliste e creatore di linguaggio paragonabile nel ’900 solo a Joyce, Faulkner e pochi altri. Nel suo bel saggio I testamenti traditi (Adelphi), Milan Kundera analizza un suo straordinario racconto, Colline come elefanti bianchi, dove - sullo sfondo di un brullo paesaggio in una stazioncina spagnola - una coppia dialoga dell’aborto (mai citato esplicitamente) che l’uomo vorrebbe imporre alla donna senza sembrare costringerla: “Guarda, se non ti va, lasciamo perdere. Non te lo farei fare se tu non volessi...”.

     Kundera rivela come funziona il dialogo, come il racconto è insieme “supremamente astratto e concreto”, “non ha niente di scontato” e non permette “un giudizio morale”. Poi cita un biografo di Hemingway che legge ogni riga in relazione alle vicende coniugali dello scrittore, cioè semplicemente come trasposizione di una realtà biografica, lasciandosi andare alle ipotesi più inverosimili e irrilevanti. E’ questo, secondo Kundera, tradire il testamento di uno scrittore, come significa tradire Kafka leggerlo come un santo e mistico ebraico e non come quello scrittore modernista che soprattutto è.

      Dibattere il “nichilismo” di Hemingway, scrittore di forte risentimento morale da bravo puritano americano, è perdere di vista l’essenziale. Era nichilista il personaggio del racconto Un posto pulito e illuminato bene, che eleva un famoso inno al “nada”? “Nostro nada che sei nei cieli...” Certo che no, perché crede in quel “posto pulito e illuminato bene”, che è la coscienza e la scrittura, e nel famoso codice hemingwayano: non bluffare, davanti al pubblico e soprattutto se stessi, il più esigente dei tribunali. Il confronto con la pagina è come il momento della verità della corrida, secondo la celebre formula: Grace under pressure. Che poi il povero Ernest fosse negli ultimi anni un fantasma di se stesso, vittima della paranoia, autore di lettere “imperdonabili”, non toglie nulla alle battaglie espressive (e morali) che effettivamente vinse senza bluffare, e che sono ancora tutte lì come un grande dono di cui nutrirci. 

“Il manifesto-Alias”,  28 ottobre 2006