Pubblicato su “Semicerchio” nel 2007

Massimo Bacigalupo

le riscritture di Dante in inglese

Una rassegna delle riscritture di Dante in inglese comprenderebbe autori e opere fra  i maggiori di quella letteratura: La Rima del vecchio marinaio di Coleridge, Il sogno di Iperione di Keats, Il trionfo della vita di Shelley, La profezia di Dante di Byron... Per non dire di curiosità quali la Colombiade (1807) di Joel Barlow. Fra i moderni almeno La terra desolata e i Quattro quartetti di T.S. Eliot, le Note per una suprema finzione di Wallace Stevens, i Cantos di Ezra Pound.[1] Fra i contemporanei navigano “in piccioletta barca” Seamus Heaney e Derek Walcott. Per citare due altri Nobel per la letteratura, Dante ha esercitato un ascendente profondo anche su Samuel Beckett[2] e Josif Broskij, che in una nota lezione di poesia è riuscito a trovare Dante in un idillio rurale di Robert Frost, Come In.[3] Poi c’è l’immenso campo del Dante di James Joyce. La zia “Dante” di Stephen appare non a caso già sulla prima pagina del Dedalus. Su molte di queste operazioni hanno riaperto la discussione le cinquecento pagine dell’antologia Dante in English,[4] oggetto di una istruttiva polemica a causa della lunga e avventurosa introduzione di Eric Griffiths (su Dante come “scrittore postcoloniale” e altre amenità).[5] Meno controverso è stato The Poets’ Dante,[6] antologia di impressioni dantesche di poeti novecenteschi, perlopiù anglosassoni, da Ezra Pound a Edward Hirsh.    

     Le traduzioni, assai numerose, accompagnano e precorrono le riscritture. Dante in English si apre con il rifacimento che Geoffrey Chaucer diede nei Canterbury Tales del 33° del Paradiso.

 

Thow Mayde and Mooder, doghter of thy Sone,
Thow welle of mercy, sinful soules cure,
In whom that God for bountee chees to wone,
Thow humble, and heigh over every creature,
Thow nobledest so ferforth our nature,
That no desdeyn the Makere hadde of kynde
His Sone in blood and flesh to clothe and wynde.

(The Prologue to the Second Nun’s Tale)

 

Ritradotto in italiano, questo il senso approssimativo:

 

Tu vergine e madre, figlia del tuo figlio,

tu fonte di misericordia, cura delle anime peccatrici,

in cui Dio per bontà volle dimorare,

tu umile e alta più di tutte le creature,

tu nobilitasti la nostra natura a tal segno,

che il Creatore non ebbe disdegno

di vestire suo Figlio di sangue e carne.

 

Le due traduzioni più note dell’Ottocento dello stesso passo leggono:

 

O virgin mother, daughter of thy Son,

Created beings all in lowliness

Surpassing, as in height, above them all  

Term by th' eternal counsel pre-ordain'd,

Ennobler of thy nature, so advanc'd

In thee, that its great Maker did not scorn,

Himself, in his own work enclos'd to dwell!

                        (Henry Cary, 1814)

 

Virgin mother, daughter of your Son,

more humble and sublime than any creature,

fixed goal decreed from all eternity,    

you are the one who gave to human nature

so much nobility that its Creator

did not disdain His being made its creature.

                                   (H.W. Longfellow, 1867)

 

Sullo scorcio del Novecento, mezzo millennio dopo Chaucer, la preghiera di San Bernardo suona così:

 

            Thou Virgin Mother, daughter of thy Son

Humble and high beyond all other creature,

The limit fixed of the eternal counsel,

            Thou art the one who such nobility

To human nature gave, that its Creator

Did not disdain to make himself its creature.

                                                  (Allen Mandelbaum, 1984)

 

Se con Cary siamo nel campo del miltonismo e di un certo arbitrio, i due americani Longfellow e Mandelbaum sono anche dei filologi aderenti all’originale (vedi il gioco finale su creatore/creatura). Sorprende che Longfellow usi la più moderna seconda persona “you” mentre Mandelbaum ritorna al “thou” arcaico di Chaucer e Cary. Mandelbaum introduce inoltre un’inversione al verso quattro, facendo precedere “nobilility” a “gave”, e sceglie di rendere “termine fisso” come “limit fixed”, di nuovo più arcaico e ambiguo di “fixed goal”. Longfellow ha il coraggio di scrivere semplicemente “Virgin mother” senza pronome, ricalcando l’originale, a costo di abbreviare il verso di una sillaba. Resta comunque bellissima la soluzione di Chaucer, che inserendo “and” (“Thow Mayde and Mooder”) rende con maggiore efficacia l’ossimoro iniziale. Vediamo per curiosità come i tre traduttori rendono “ventre”:

       

For in thy womb rekindling shone the love

Reveal’d, whose genial influence makes now

This flower to germin in eternal peace!   (Cary)

 

That love whose warmth allowed this flower to bloom

within the everlasting peace -- was love

rekindled in your womb... (Longfellow)

 

            Within thy womb rekindled was the love,

By heat of which in the eternal peace

After such wise this flower has germinated. (Mandelbaum)

 

“Womb” è parola più nobile di “ventre”, ma certo sarebbe stato difficile tradurre “belly” (pancia) o “uterus”. Per il resto Longfellow colpisce di nuovo per la modernità ed eleganza delle soluzioni. Mandelbaum segue più da vicino l’originale, ma questo lo costringe a servirsi di riempitivi pedestri come “After such wise” (per “così”). “Warmth” sembra anche tutto sommato suonare meglio di “heat” (per “caldo”), visto che si tratta del calore che fa maturare i fiori e non di una batteria per polli, anche se forse qui Mandelbaum (se ci ha pensato) ha voluto rendere l’asprezza prosaica di “caldo”.

           Queste e altre traduzioni sono importanti sia come segni della penetrazione di Dante nella cultura anglosassone, sia come letture, interpretazioni, legate al loro tempo e alla sua lingua. E’ anche interessante pensare a chi le ha lette e ne è stato influenzato. Cary (1805-1812), il primo traduttore integrale, fu letto dai romantici inglesi, e lodato da Coleridge, sicché divenne mediatore della presenza dantesca in Keats, Byron e Shelley, che presto appresero l’italiano e poterono affrontare direttamente l’originale (di cui Shelley tradusse alcune parti). Longfellow è al centro del dantismo americano del secondo Ottocento, dal quale prendono le mosse indirettamente Pound e Eliot, che sono i principali fautori di Dante nell’epoca delle avanguardie del secolo XX.

     Pound nel fresco saggio giovanile Lo spirito romanzo (1910) cita Dante nella versione in prosa dei Temple Classics, volumetti assai ben curati da Philip Henry Wicksteed, H. Oelsner e altri nei primi anni del Novecento, e assai diffusi (l’Inferno, con la traduzione di John Aitken Carlyle del 1849, uscì nel 1900 e fu ristampato 14 volte fino al 1926, data dell’edizione da me consultata). Questi eleganti volumetti non indicano sul frontespizio il nome dei curatori, che va cercato fra le note in fondo al volume, quasi si trattasse di un’opera collettiva.

     Wicksteed rende così l’avvio di Paradiso 33:

 

Virgin mother, daughter of thy son, lowly and uplifted more than any creature, fixed goal of the eternal counsel,

thou art she who didst human nature so ennoble that its own Maker scorned not to become its making.

In thy womb was lit again the love under whose warmth in the eternal peace this flower hath thus unfolded.[7]

 

Si può capire perché questa traduzione molto semplice e chiara, la prima integrale a essere edita con testo a fronte, fosse la più utilizzata da Pound e Eliot ma anche la più diffusa al loro tempo. Potevano attraverso la traduzione letterale avvicinare l’originale senza dover prima farsi strada fra le maglie di un “linguaggio poetico”, cioè le emozioni e il gusto di un traduttore-interprete. Inoltre ogni canto nel “Temple Dante” è preceduto da una breve introduzione, e l’edizione è accompagnata da note, diagrammi, citazioni-epigrafi. Ad esempio in fondo al Paradiso (14 edizioni fra 1899 e 1932) è riportata una citazione da San Bernardo sulla beatitudine dell’accordo dell’uomo con la volontà divina. Un’edizione in qualche modo trasparente, come nella seconda metà del Novecento sarà quella, sempre in prosa con testo a fronte e ampiamente annotata (1970-75), curata da Charles Singleton, il “provvido amico straniero” ricordato da Montale in Altri versi, che probabilmente avvicinava Dante con la sensibilità del New Criticism.

 

The glory of the All-Mover penetrates through the universe and reglows in one part more, and in another less.

 

Così Singleton rende la prima frase del Paradiso, che nell’edizione Temple legge:

 

The All-Mover’s glory penetrates through the universe, and regloweth in one region more, and less in another.

 

Come si vede, la differenza è scarsa, e entrambe le traduzioni usano curiosamente “reglows” per “risplende”, che in italiano è senz’altro parola più comune di “reglows” in inglese.

     In Singleton ogni cantica è presentata in due volumi, uno con testo e traduzione, l’altro di commento. L’edizione Temple ha il vantaggio del formato tascabile, per cui possiamo immaginare i giovani turisti inglesi e americani  (fra cui anche Pound e Eliot) arrivare in Italia con il loro Temple Dante, e leggerlo nei treni e sulle sponde del Garda. Altri turisti avranno portato con sé Dante in una delle numerose traduzioni disponibili al momento della partenza, fra cui non mancano quelle di poeti più e meno importanti, nell’anteguerra Laurence Binyon (la cui traduzione si valse della consulenza dello stesso Pound), nel dopoguerra Dorothy L. Sayers (1949), Geoffrey Bickersteth (1955), John Ciardi e C.H. Sisson (1980): tutte versioni integrali, tutte  tranne quella di Sisson in terzine rimate. In seguito, la Oxford University Press americana ha messo in cantiere una nuova versione di Robert Durling, in prosa ma stampata come se si trattasse di versi per facilitare la lettura. Il dantista insigne Robert Hollander e la moglie Joan sono anch’essi al lavoro su una nuova versione integrale in versi.  Altri poeti di fama hanno tradotto una sola cantica, più o meno liberamente: l’americano Robert Pinsky e l’irlandese Ciaran Carson l’Inferno (rispettivamente 1994 e 2002), l’americano Merwin il Purgatorio (2000). Pinsky e Carson riproducono con rime-assonanze la terzina, ma mentre Pinsky non rispetta l’andamento del testo originale, che pure riporta (la sua traduzione conta dunque di regola meno versi dato il carattere più compatto dell’inglese), Carson segue le terzine dantesche ma lavora con molta libertà colloquiale:

 

    One day, to pass the time, we read of Lancelot,

who loved illicitly. Just the two of us;

we had no thought of what, as yet, was not.

   From time to time that reading urged our eyes

to meet, and made our faces flush and pale,

but one point in the story changed our lives.

    For when we read of how the longed-for smile

was kissed by such a noble knight, the one

who for eternity is by my side

    all trembling kissed my trembling mouth.

 

Pinsky mantiene un tono più elevato:

 

... One day, for pleasure,

We read of Lancelot, by love constrained:

Alone, suspecting nothing, at our leisure.

   Sometimes at what we read our glances joined,

Looking from the book each to the other’s eyes,

And then the color in our faces drained.

   But one particular moment alone it was

Defeated us: the longed for smile, it said,

Was kissed by that most noble lover: at this,

    This one, who will now never leave my side,

Kissed my mouth, trembling...

 

 

Pinsky, contrariamente al suo solito, qui amplia l’originale. E si prende la libertà di suggerire che la scena del bacio fra Lancillotto e Ginevra non è riferita da Francesca ma testualmente citata, come suggerisce il corsivo. Mi sembra che vi sia un certo impaccio, ad esempio nel quintultimpo verso, e nella ripetizione di “this”: “at this, / this one”. A Pinsky sembra soprattutto interessare raccontare pianamente e prosaicamente la storia.

     Naturalmente per valutare queste singole prove non basta citare qualche scampolo, occorre considerare l’effetto complessivo, e questo può solo farsi dopo una lunga familiarità. In ogni traduzione troveremo dei brani apparentemente meno riusciti, ma ciò che conta è se e come hanno dato un’idea di Dante al lettore. Poeti come Pinsky e Carson, essendo addentro alla lingua e cultura dei loro paesi, hanno il vantaggio di una autorevolezza di percezione generale che può rendere le  loro traduzioni più efficaci. D’altra parte gli studiosi che offrono una prosaica guida alla lettura hanno il vantaggio di conoscere l’italiano. I lettori continueranno ad avvicinare Dante in modi imprevedibili. C’è sicuramente bosogno di entrambi i momenti, perché se Dante interessasse solo agli studiosi egli non sarebbe tanto letto e dibattuto, quasi popolare.

    A cosa porti tutto ciò è difficile dire. Di rado mi è capitato di incontrare un inglese o americano che conoscesse un po’ Dante, ma forse non sono tanti nemmeno gli italiani a cui certe parole (a parte quelle più abusate) ricordano immediatamente un passo della Commedia. Nel mondo ristretto dei lettori colti e appassionati di poesia antica e contemporanea Dante ha di sicuro un ruolo centrale. Lo ha ribadito l’irlandese Seamus Heaney, formatosi come tutta la sua generazione sul Dante di Pound e Eliot, ma che in seguito si è nutrito del Dante creativo e imprevedibile visionario del Discorso su Dante di  Mandel’štam, con quella famosa metafora delle terzine come aeroplani che lanciano altri aeroplani.[8] La passione di poeti come Pinsky e Carson che lasciano scorrere nella mente le parole delle loro nuove versioni e cercano assonanze e rime fa pensare a una libera musica dantesca che si trasmette di poeta in poeta, libro in libro.

     Anche di sito in sito, visto che ormai molti siti internet offrono il testo della Commedia e di molteplici traduzioni, dando la possibilità di confrontare a scelta ora Dante e Cary, ora Dante e Longfellow, ora due e più traduzioni. Però un giro in Valdarno con in tasca la compatta edizione Temple del 1901 potrebbe essere un’esperienza ancora più illuminante per lo studente del 2000 che forse sarà il traduttore poeta e commentatore del futuro.

    Molti recensori si chiedono il perché della fortuna particolare dell’Inferno in questi anni, e rispondono che ciò si deve agli orrori che ci stanno intorno quotidianamente e ai ricordi dei disastri della guerra del Novecento. Pinsky, nato nel 1940 e dunque adolescente negli anni della guerra fredda, scrive che “L’Inferno è la maggiore opera mai scritta sulla condizione morale che nel gergo dei nostri giorni è detta ‘depressione’”.[9] In realtà l’Inferno a causa della sua azione più vivida e passionale ha sempre colpito maggiormente l’immaginazione dei lettori, non solo stranieri, ma fin dai tempi di Shelley gli anglosassoni più avveduti hanno scoperto le atmosfere rarefatte e squisite delle altre cantiche. Shelley tradusse il canto di Matelda, Eliot imitò il Purgatorio in Mercoledì delle ceneri, Pound sognò tutta la vita “la materia del Paradiso di Dante” che a suo dire corrispondeva a una reale visione estatica-letteraria.  Al culmine dei Canti pisani cerca di recuperare questo mondo vitreo di prismi: “Vidi solo gli occhi e lo spazio fra gli occhi, / colore, diastasis...” (canto 81).

     La fortuna di Dante oggi si deve come accennato sopra alla sua capacità di interessare poeti e lettori con le sue storie di uomini e donne e vicende convulse e con la sua visione universale. “L’aiola che ci fa tanto feroci...” Questa perdurante attualità si deve alla penetrazione avvenuta appunto fin dai giorni di Chaucer, ma confermata in modo determinante dai grandi dantisti-poeti anglosassoni dell’Ottocento e Novecento. Sono loro ad aver fatto di Dante un punto di riferimento irrinunciabile e così a stimolare il desiderio di rileggerlo e riscriverlo.

     Pound si provò addirittura negli ultimi mesi di guerra, fra gli ulivi di Rapallo, a rifare Dante direttamente in italiano in due canti guerreschi (72-73) da cui riporto un breve flash di paradiso terrestre:

 

E come onde che vengon da più d’un trasmittente

Sentii allora

Le voci fuse, e con frasi rotte,

E molti uccelli fecer contrappunto

Nel mattino estivo,

                        fra il cui cigolar

In tono soave

            “Placidia fui, sotto l’oro dormivo”

Suonava come nota di ben tesa corda.

            “Malinconia di donna e la dolcezza...”

                                                           cominciai[10]

 

Il risultato è un collage che sulle prime suona addirittura grottesco, ma in ogni tratto vediamo messa in pratica la lezione della metafora e della visione dantesca con una forza immaginativa di tutto rispetto. Lo stilnovo con le sue donne leggiadre e la storia che si riversa sulla pagina in tutta la sua concretezza irriducibile: sono due aspetti di Dante che hanno affascinato la mente anglosassone, pragmatica quanto curiosa di vacanze nel tempo e nello spazio.         

“Semicerchio” n.36, 2007   

 



[1] Vedi Dante among the Moderns, a cura di Stuart Y. McDougal, University of North Carolina Press, 1985.

[2] Vedi Daniela Caselli, Beckett’s Dantes, Manchester University Press, 2006; Ineffability, Naming the Unnamable: From Dante to Beckett, a cura di Peter S. Hawkins e Anne Howland Schotter, New York, AMS, 2000. 

 

[3] Vedi I. Brodskji, Dolore e ragione, Milano, Adelphi, 1998.

[4] Dante in English, a cura di Eric Griffiths e Matthew Reynolds, London, Penguin, 2005.

[5] Vedi la recensione di Helen Vendler e la replica di Griffiths, “London Review of Books”, 1 e 22 settembre 2005.

[6]  The Poets’ Dante,  a cura di Peter S. Hawkins e Rachel Jacoff, New York, FSG, 2001.

[7]  The Paradiso of Dante Alighieri, London, Dent, 1932, pp. 399-401.

[8]  Vedi Osip Mandel’štam, Sulla poesia, Milano, Bompiani, 2003, p. 135.

[9] The Pageant of Unbeing, in The Poets’ Dante, cit., p. 311.

[10]E. Pound, I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Milano, Mondadori, 1985, p. 829-31. Cfr. Furio Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al Novecento, Roma, Carocci, 2009, pp. 95-111; Serenella Zanotti, Da Dante a Mussolini: appunti sull’italiano di Pound, in Scrittori stranieri in lingua italiana dal Cinquecento ad oggi, a cura di Furio Brugnolo, Padova, Unipress, 2009, pp. 375-93.