Massimo Bacigalupo
sognando
Mejerchol’d a New
York con Martha Cooley
Sogno, realtà, e teatro, Pietroburgo e New York, solitudine e affetto
si sovrappongono nelle pagine del secondo avvincente romanzo di Martha Cooley, Una sognatrice (trad. Federica
Oddera, Guanda, pp. 346, € 16,00). L’opera prima della Cooley, L’archivista, si muoveva nel
mondo felpato della biblioteca universitaria dove si conservano le lettere
riservate di T.S. Eliot alla fiamma giovanile Emily, una storia vera dalla
quale prendeva le mosse la biografia del bibliotecario vedovo e della ragazza
che lo assedia per ottenere l’accesso all’agognato carteggio. In Una sognatrice lo spunto reale è
più remoto: l’arte e il destino feroce di Vsevolod (“Seva”) Mejerchol’d
(1874-1940), geniale innovatore del teatro e vittima di Stalin, la cui vicenda
si intreccia stranamente con quella di una donna, Camilla, stretta in un nodo
di tensioni e interrogativi familiari ed esistenziali.
Camilla gestisce a New
York un redditizio negozio di oggettistica teatrale per amatori, “La Quarta
Parete”. E’ separata senza figli, ma la morte improvvisa di un’avvenente e
spregiudicata cugina nubile la rende responsabile della figlia di lei, la
venticinquenne Danny, che vorrebbe sapere perlomeno chi era suo padre e perché la
madre l’ha sempre parcheggiata dai cugini. Camilla si tira indietro, ma a
incoraggiarla ad assumere un ruolo attivo nella vita di Danny è un... fantasma,
quello che ci accoglie ad apertura di libro.
“Pensate a me come a un
essere reale. Che lo sia o no, non ha importanza, si tratta di una vana
questione teorica”. Questo narratore ironico che riappare puntualmente fra un
capitolo e l’altro è, ci spiega, nientemeno che il “doppio” di Seva
Mejerchol’d, da tempo condannato all’inattività (siamo nel 1999), ma che ora ha
deciso di dare una spinta alla brava Camilla assumendo la regia dei suoi sogni,
e facendovi apparire lo stesso Mejerchol’d , nonché Jordan, il padre della
sognatrice, magistrale profumiere e uomo di mondo, che in effetti fece la
conoscenza del regista-attore russo durante un viaggio di lavoro a Parigi e gli
chiese anche di aiutarlo a disegnare una nuova bottiglietta di profumo a forma
di...
Predisposta così la sua
tavolozza, Martha Cooley, che richiama più volte nel racconto l’immagine del
giocoliere e del mimo, riesce a metterla in moto con un’agilità che cattura
l’attenzione e la simpatia del lettore. Camilla sogna all’inizio di ogni
capitolo. Poi nel corso delle sue giornate piene di lavoro, confidenze con
l’amico gay Stuart, distratti ma focosi amplessi con l’amante operaio Nick,
trattative con l’ex marito con cui è in ottimi rapporti (ma che sospetta abbia
avuto una relazione con Danny), Camilla ricorda squarci del sogno, con cui il
benevolo doppio le fornisce indizi sulla pista da seguire. Una scatola di carte
del padre relative alla Russia rimasta in soffitta, la madre morta nel
partorirla lasciando affranto il marito...
Mentre il doppio ci racconta
le vicende di Mejerchol’d fino alla prigionia e all’ultimo confronto con il
giudice e il boia, sempre con un tono teatrale e pretestuoso che però nulla
toglie alla sostanza tragica dei fatti, Camilla ripercorre le tappe
fondamentali della sua vita cercando di darsi ragione dei suoi principali
rapporti affettivi. E la sua ricerca diventa quella del lettore (e
dell’autrice) per trovare il bandolo dell’intreccio così ben costruito. Camilla
diviene un’immagine della coscienza inquieta di una donna a metà della vita,
insieme guidata dal caso o destino e decisa entro certi limiti a guidare e
scegliere.
A parte i siparietti del
“doppio”, è Camilla a parlarci, con grande efficacia e immediatezza: “Chissà
per quanto tempo mi sarà ancora concessa la grazia di trovare connessioni?
Anche questa finirà un giorno. Non esistono prove per quel momento. Immagino la
dura bellezza del lasciare andare, dell’essere lasciati andare: atti di
abbandono, i soli ancora in attesa di essere recitati”. The grace of connection ricorda la famosa ingiunzione di E.
M. Forster: Only connect. L’arte del romanziere nel tessere la
sua trama, l’arte quotidiana del vivere in un mondo di senso.
“il manifesto-Alias”, 17
settembre 2005