Il saggio di Massimo Bacigalupo,
lui stesso protagonista della stagione che vi viene evocata, è preso dal Catalogo
della rassegna Il cinema indipendente italiano 1964-1984, Filmstudio, Roma, 17 novembre-1 dicembre
2003.
Massimo Bacigalupo
40 anni dopo. Il cinema underground italiano
I “film sperimentali”
italiani hanno quasi quarant’anni, essendo stati prodotti negli anni intorno al
1970. Furono un progetto visivo, quasi figurativo, e infatti furono spesso
distribuiti in musei d’arte contemporanea. Tutto nasceva dalla suggestione
dell’immagine, atta a rappresentare quello che si agitava nelle menti dei
film-maker, che insieme scoprivano tecniche e cose che pensavano di voler e
riuscire a dire. Ma l’impatto dell’immagine è una quantità indeterminata; un
segno significa solo nell’ambito di una sintassi. Isolato corre il rischio di
essere un mero oggetto. I film sperimentali sono in effetti oggetti, che però
occupano del tempo per svolgersi. E lo spettatore comincia ad agitarsi sulla
poltroncina.
I metodi più usuali erano un’accelerazione
della sequenza delle immagini, che di per sé doveva stimolare una certa
agitazione partecipe. Un altro era il rallentamento esagerato e provocatorio,
al limite il film di un’unica immagine. Questo potrebbe funzionare se il
pubblico, come il protagonista di Arancia
meccanica, fosse
costretto a tenere gli occhi aperti e fissi sullo schermo. Ma per lo più esso
si distrae e non vede l’ora che finisca, non è disposto alla concentrazione.
Per giungere alla concentrazione pressoché contemplativa occorre un bel po’ di
esercizi preliminari.
Vedere i film sperimentali è dunque un’esperienza non sempre piacevole, comunque è uno strano modo di vedere. Vogliamo abbandonarci al flusso delle inquadrature, o siamo tentati di storicizzare ciò che vediamo, analizzare quel sogno che l’autore ci presenta? Dietro al messaggio (o non-messaggio) di superficie c’è la rivelazione involontaria dell’orizzonte dell’autore. Tutto quel lavoro, quelle pellicole passate nelle Bolex, montate, sonorizzate, stampate... La Cooperativa del Cinema Indipendente, le sue riunioni, i cataloghi, i giochi, le presentazioni, le trattorie romane, il capodanno a Palermo nelle anonime hall dell’albergo, i viaggi in auto, le proiezioni a Monaco Vienna Londra Copenhagen Colonia Zagreb New York Tokyo...
Que reste-t-il ?
Occorrerebbe forse fare la storia del cinema a passo ridotto, dal periodo fra le due guerre al boom degli anni 1960-70 (8 mm e Super8). Non per nulla è questo il periodo in cui emerge in America e a ruota in Europa il nuovo cinema sperimentale, fatto da persone legate al mondo dell’arte o alla bohème di San Francisco, New York, Londra, Roma. I più impegnati usano il più costoso 16mm, e come al solito la forza produttiva degli Usa si dimostra anche in questo campo, con la produzione di una nutrita serie di pellicole, fra cui diversi lungometraggi, e l’emergere di un gruppo di autori, il merito della cui consacrazione va in buona parte al lituano Jonas Mekas, autore egli stesso, che ne scrive sul “Village Voice” di New York e organizza la Film-Makers’ Cooperative.
Nascita della
Cooperativa (1967)
Ma com’era il mondo in cui questi
film sono venuti alla luce? E chi erano e sono i suoi personaggi?
Quando arrivai a Roma nell’autunno del 1966 avevo con me Quasi una tangente, un 8mm
sonoro che aveva vinto quell’anno il primo premio al Festival FEDIC di
Montecatini. Cinema d’amatore. Meditavo di continuare sulla strada del film a
soggetto e cominciai a girare a Siena delle sequenze 16mm di un lavoro che
sarebbe stato impossibile portare a termine con le mie mani. Poi, credo nella
tarda primavera del 1967, fui contattato da Giorgio Turi e Alfredo Leonardi per
la possibilità di creare una Cooperativa italiana a Roma. Poche settimane dopo
ci fu a Roma la rassegna dei film portati da Jonas Mekas, e in quell’occasione
vidi anche il coraggioso lungometraggio di Leonardi Amore amore. Durante la proiezione ricordo che ero seduto
alle spalle di Pasolini, che commentava non positivamente lo scorrere delle
immagini. Intanto a Roma si era stabilito Gregory Markopoulos, con l’amico
Robert Beavers, e ci mostrò un suo film muto girato in sovrimpressione a Hydra,
che colpì la nostra fantasia. Per me questo insieme di circostanze portò
all’accantonamento del progetto del lungometraggio a soggetto e nell’estate
montai un film a 8mm decisamente sperimentale e muto salvo per l’uso a un certo
punto di una canzone dei Beatles, Ariel
Loquitur (il titolo rimandava alla Tempesta,
a cui si ispirava qualche momento del film: scene in cui appariva un vecchio
Prospero – Leone Vivante, anziano filosofo senese --, immagini marine, una
sequenza notturna vagamente ispirata all’amore dei due giovani; diverse
sequenze erano recuperate da materiale inutilizzato perché sfocato di Quasi una tangente).
Per cui nell’autunno 1967 tutto era pronto per il lancio
del nuovo cinema indipendente italiano. A Roma venimmo a sapere dell’esistenza
di gruppi analoghi a Napoli e Torino, e a Napoli avemmo l’incontro fondatore,
in cui tutti ci unimmo alla Cooperativa regolarmente registrata a Napoli dai
fratelli Vergine. Anche Adamo e Aldo venivano dal cinema d’amatore. Avevo visto
loro film ai festival di Rapallo e Montecatini. Ora Adamo aveva deciso di
passare a una sorta di cinema semiologico realizzando Ciao ciao (una sorta di brevissimo Muybridge). E a Napoli
venne il pittore torinese Paolo Menzio e ci mostrò su due schermi Il mostro verde: un tripudio di
colori sgargianti e travestimenti che terminava in una discarica con Tonino De
Bernardi (coautore del film) biancovestito che vi si aggirava tastoni mentre sul sonoro Allen
Ginsberg intonava il suo Howl.
Era un film mozzafiato, o almeno così mi parve.
Ai primi di gennaio del 1968, al XIV Festival del passo ridotto di Rapallo, io proiettai Ariel loquitur, che ebbe prevedibilmente scarso successo, insieme a film di Turi e Leonardi e Markopoulos, presente con la galleria di ritratti Galaxy (Warhol, Sontag...). Ormai la Cooperativa funzionava, sul principio che i film erano noleggiati a un tanto per minuto, che non so se abbia mai ripagato i costi di produzione, forse sì.
A Rapallo con Pound (1964-1966)
Dopo tutto a Rapallo i film
americani erano stati proiettati in anteprima italiana dopo Spoleto (estate 1964),
nel festival del gennaio 1965. Questo perché ero entrato in contatto con lo
scrittore e studioso Guy Davenport, in visita ad Ezra Pound nell’estate 1964, e
Guy mi aveva lasciato una copia di “Film Culture”, la rivista di Mekas, con in
copertina Scorpio Rising di
Kenneth Anger. E fu così che le casse dei film americani vaganti per l’Italia
arrivarono a Rapallo e io vidi (scoprii) Twice
a Man di Markopoulos, Dog
Star Man di Stan Brakhage e soprattutto The Flower Thief di Ron Rice. Quest’ultimo ebbe in effetti
un certo influsso su Quasi una
tangente che girai un anno dopo, nell’inverno-primavera del
1966.
Ci fu anche l’episodio divertente della
proiezione di Dog Star Man,
su richiesta di Davenport e Brakhage, al vecchio Ezra Pound. Lo feci accomodare
con l’amica Olga in salotto da me e gli mostrai una pizza col proiettore
Paillard tripasso (comunque Dog Star
Man è un film muto). Prevedibilmente, Pound disse poco o niente, solo
che aveva già visto cose del genere a Parigi nel ’20. Ma così il cerchio si
chiudeva simbolicamente. Aggiungo per la precisione che solo il bellissimo Scorpio Rising fu proiettato
nella rassegna di Rapallo, ed ebbe un premio della giuria, mentre gli altri
film del famoso baule furono solo visti in una saletta nei lavori preliminari
del festival.
Così anche ai primi del 1968 i film sperimentali italiani e americani (Markopoulos), per quanto proiettati regolarmente fuori concorso, ebbero accoglienza abbastanza fredda, del resto comprensibile. Fu l’ultima volta che il festival di Rapallo si tenne, e i rapporti con la Fedic li riannodai solo negli anni ’90, quando mi trovai premiato con medaglia a Montecatini quale vecchia gloria...
La prima rassegna al Filmstudio (1968) – Temi del cinema
sperimentale
Ma torniamo al 1968. Ormai Adamo Vergine teneva i
contatti fra i vari gruppi e fu lui a definire con il Filmstudio il programma
della prima rassegna, dal 2 al 7 marzo 1968. La rassegna si aprì, curiosamente,
con Proussade di Pia
Epremian, un super8 di un’ora girato da un’autrice che non aveva precedenti
cinematografici, un puro esempio di film brut: si capiva che c’era della
violenza sadica allusa da personaggi immobili e seminudi, che la cinepresa
vacillante inquadrava impietosamente e interminabilmente. Seguiva Il mostro verde, di sicuro
effetto, e Il bestiario,
quattro bobine di Tonino De Bernardi proiettate contemporaneamente sullo
schermo, con sonoro magnetico.In queste si sciorinavano immagini di volti e
grandi drappeggi e travestimenti, rivelando la passione di De Bernardi per gli incroci e le sovrimpressioni dei
sessi come dei colori, tutto un rutilare di mostri multicolori dopo quello
verde del primo film con Menzio.
E De Bernardi, giunto a Roma con la
moglie Mariella, che aveva da poco sposata, fu per me la rivelazione di quelle
giornate: qualcuno con cui parlare di tutto, anche di cinema, un amico stretto
al di là dei rapporti mai troppo approfonditi con gli amici romani Leonardi
Baruchello Turi Vergine... Tonino è sempre stato la simpatia personificata, con
un grandissimo interesse per gli altri, una capacità di ascolto che si rivela
nei suoi film-intervista (Donne),
e Mariella era la sua compagna ideale, indipendente, critica, ma sempre
solidale e incantata dai film che Tonino ormai produceva con la stessa velocità
che la pellicola passava nella sua piccola Super8. Era il periodo di Dei, il “film delle coppie”, una
cui scena fu girata a Napoli nella primavera 1968 nel corso di un’altra riunione della Coop: vi
apparivo io, piuttosto impacciato, in posa da sarcofago etrusco (questa l’idea
di fondo) insieme a una ragazza della borghesia napoletana, Gabriella, morta in
un incidente pochi anni dopo.
La rassegna del Filmstudio fu seguita da un buon pubblico, ma non so se siano apparse recensioni. Alla fine delle serate si rispondeva alle domande, mi trovai a dialogare con Pia Epremian, amicissima dei DeBernardi, e Patrizia Vicinelli, che apparve all’orizzone in quella circostanza. Come in USA, il mondo dei film-makers italiani sfiorava mondi diversi rispetto alla cultura diffusa: l’omosessualità (presente come tema in DeBernardi come in tanti americani, celebrata come liberatoria da Leonardi nel suo bel Libro di santi di Roma eterna), la droga (che fu per certi versi la musa di Bargellini e la sorella morte sia di lui che di Mario Ferrero) e in genere la promiscuità: una certa presenza di nudi era forse non ultima ragione della attrazione – per quel che fosse – esercitata non solo in Italia dal cinema sperimentale. Io giravo con le pellicole in luoghi improbabili come il Circolo canottieri di Napoli (raffinatissimo) e una cooperativa di ferrovieri del Lazio. Mi ricordo che quando portai qui Trasferimento di modulazione di Bargellini, che non era altro che una bobina porno virata, il ferroviere che dirigeva il club mi invitò calorosamente a proiettare “er porno”. Altroché squisitezze culturali. Insomma nel film sperimentale convergeva di tutto, c’era un senso un po’ voluto e un po’ imposto di emarginazione. Per me rimpiango che l’esclusivismo del tempo mi abbia impedito di andare a cercare i geniali cineasti che a quel tempo operavano a Roma, da Fellini a Pasolini. Se non altro erano dei personaggi da cui uno avrebbe imparato volentieri, con tutti i loro difetti.
L’atmosfera euforica di quel marzo 1968 si tradusse per
me nel breve film muto 8mm 60 metri
per il 31 marzo, girato in pochi giorni a Roma, secondo il principio
della saturazione di mille immagini, con un po’ di Markopoulos e un po’ di
Brakhage, ma fondato sulla convinzione che così si potesse comunicare. Il film
non era montato, salvo l’eliminazione di qualche stacco bianco. Mi parve che
piacesse abbastanza. Fu proiettato al Filmstudio il 9 luglio, leggo nella utile
tesi di Paola Fallerini (Le forme
dello spazio inosservato, 1998), insieme a Moons di De Bernardi, Esercizio di meditazione di Leonardi, Pistoletto e Sotheby di Epremian. Fu anche nel 1968 che per
iniziativa di Baruchello, che aveva in
qualche modo preso in mano l’organizzazione del gruppo romano, si mise insieme
il “film collettivo” Tutto tutto
nello stesso istante. Baruchello era un pittore raffinato e affermato
che realizzava film-evento con non di rado un contenuto politico
antiautoritario di marca dadaista. Fu sulla sua moviola automatica (un lusso)
che montammo Tutto tutto.
C’erano brani un po’ di tutti, salvo Bargellini, che aveva inviato una lunga
inquadratura fissa della Pieve di Arezzo, che non si capiva come inserire (era
un’allusione provinciale a Empire
di Warhol, era il frutto di un viaggio anfetaminico?), e restò fuori, anche se
il nome di Piero appare per cortesia nei titoli. Bargellini non aveva ancora
lasciato malauguatamente il suo impiego ad Arezzo per trasferirsi a Roma e “fare cinema”, vita
che nel giro di qualche anno lo distrusse.
“Fare cinema”: ricordo quest’espressione che si usava, la usava De Bernardi, e dietro c’era il fascino delle maliarde di Hollywood, di Von Sternberg, il regista preferito di Markopoulos. Ma la parola poteva difficilmente adattarsi a un’attività così diversa come quella nostra, alla repubblica internazionale dei film-makers. Che riunì i suoi stati generali a Monaco credo sempre nel 1968, sotto la guida della vivace Birgit Klein. C’era la performer austriaca Vali Export, che produsse un Film da toccare (Tapp- und Tast-Film): s’era messa sul busto una scatola nera con delle tendine, e invitava i passanti sulla strada di Monaco a infilarci le mani e tastarle il petto. Foto sui giornali, folto pubblico serale alle proiezioni.
A fine dicembre fummo tutti a Palermo
per VI settimana internazionale della musica. Io avevo pensato di affiancare a 60 metri, tutto movimento e
gioco, un film tutto immobile, Versus,
dodici minuti composti di poche immagini
fisse, un film concettuale che però presenta i problemi che si diceva. Mi
ricorda un’espressione di un recensore americano a proposito di un film
commerciale noioso: “E’ come guardare della vernice che si asciuga”. Forse è
una frase proverbiale. Versus segnava un certo incupirsi dopo la
primavera del 1968. Risentivo chiaramente della visione del mondo e della
tecnica di De Bernardi, un umorista patetico, che ha un senso estremo della
drammaticità e del conflitto, un’aria da
tragedia greca non sempre giustificata dalle circostanze. Antonioni non era
passato invano e una amena scampagnata e sosta in trattoria nascondeva chissà
quali malinconie adolescenziali. Questo tono da finis mundi presiede in
qualche modo al progetto in cui mi lanciai nel 1969, la serie Eringio, che si apre con un 8mm
sonoro appunto intitolato The Last
Summer (ed era la mia ventitreesima estate, altroché l’ultima!), tutto
girato sui luoghi di Rapallo, facendo il verso e ripetendo il film famigliare,
e continua con i 16mm Né bosco
(20 minuti muto, un film tutto di scritte che la cinepresa “legge”), Migrazione (50 minuti sonoro, in
effetti il mio film più lungo, con lunghe scene di persone immobili un po’ alla
De Bernardi e una trama simbolica di viaggi e pellegrinaggi anche religiosi), e
Coda (20 minuti, la
conclusione del ciclo, sempre piuttosto cupa).
Questa eccessiva seriosità da tregenda era
forse nell’aria, certo nuoce alla fruibilità di Eringio, che fu finito a luglio del 1970 e fu proiettato non
so se integralmente al Filmstudio a novembre, mentre Migrazione e Coda
furono passati al London Film Festival di settembre 1970. Nel 1969 ero
andato in Persia e Afghanistan con i De Bernardi e avevo continuato da solo per
l’India, tappa obbligata, e molte immagini e temi di Migrazione derivano da quell’esperienza. Comunque Eringio ebbe scarso riscontro
nonostante lo sforzo considerevole, certo presentava molti scompensi. In quel
periodo vedevo spesso Bargellini, e fu lui a fare da operatore in alcune scene,
o almeno a prestarmi la sua macchina da presa col sincrono per il pezzo
musicale in Migrazione
(dall’opera Villon di Ezra
Pound) e per la mia -- temo penosa -- lettura della sestina dantesca della
Donna Pietra in Coda.
Bargellini con la compagna Giovanna-Zukie venne a Rapallo nella primavera del 1970 e girammo la scena con Giovanna che entra in una camera abbandonata e spoglia il suo bel corpo tenendo sul viso una maschera vagamente orientale. Purtroppo non avevo pensato a nulla che potesse fare una volta coricatasi sul letto in quella casa di campagna abbandonata, e la scena rimane così inconclusa (è ispirata alla scena di voyeurismo di Candaule narrata da Erodoto, e in fondo il voyeurismo è una componente del film sperimentale – si pensi ancora all’erotismo quasi patinato di Ottofilm di Bargellini). Se i film conservano qualcosa degli intrecci di amicizie e idee di quei tempi essi potranno continuare ad essere visti.
A New York
(1972-73)
Il periodo della Cooperativa si chiude col 1971, o forse è un’illusione ottica perché in quell’anno finii l’università e lasciai Roma? Ma in effetti le proiezioni si diradarono, ognuno continuò per la sua strada. Io, dopo una pausa di un anno, fra 1972 e 1973 girai Warming Up, iniziato a Rapallo, con qualche scena altrove in Italia, e nella seconda parte a New York. Vi ero arrivato nel settembre 1972 con un Fulbright alla Columbia, e con una scatola di film da mostrare e la solita Bolex. Dunque la voglia di diffondere le nostre cose c’era ancora. Mekas organizzò diverse proiezioni, le recensì sul “Village Voice” e trovò di suo gusto soprattutto De Bernardi. Il 20 aprile 1973, mio 26° compleanno, gli Anthology Film Archives di Mekas – la famosa sala nera voluta da Kubelka – proiettarono Tutto tutto, Sogno di Tonino, e il mio Warming Up appena terminato e stampato con colonna sonora dalla DuArt (oggi il laboratorio di Woody Allen). Nella sua recensione Jonas lodò il film di De Bernardi ma ignorò gli altri due, e la cosa naturalmente mi ferì. In compenso Warming Up andò al festival di Knokke quell’estate e fu acquistato dagli organizzatori e dal Museo del cinema di Vienna, dunque a qualcuno deve essere piaciuto. In esso se non altro avevo smesso di pigiare il tasto drammatico e avevo voluto presentare una visione scanzonata del mondo, fra Europa e America, all’insegna della libertà creativa. Spero che quest’idea emerga nonostante taluni incidenti di percorso. All’ultimo momento dovetti accorciare ogni scena di un fotogramma perché le giunte non tenevano, e qualche brano del sonoro è poco funzionale. Una volta che lo vidi a metà lavorazione nella casa di una amico americano accompagnato solo da un raga indiano fu quella in cui questo film mi persuase di più. Certo vi recuperavo le tecniche di montaggio di Quasi una tangente, di cui vado tuttora fiero, solo che Tangente aveva una trama-pretesto che pure funziona, per cui rimane in definitiva il mio film più comunicativo e godibile.
Del resto gli altri film prodotti dal
gruppo romano della Cooperativa conservano un notevole interesse. Turi,
Leonardi, Baruchello, Guido e Anna Lombardi erano tutte persone che avevano
delle cose da dire e le sapevano esprimere con concisione ed efficacia. Il film
è un oggetto che deve svolgere la sua funzione nell’ambito della diffusione non
amplissima che avrà. Sono riusciti a parlare coi film a coloro che li hanno
visti. E questo vale anche per certo Bargellini, che aveva grandi capacità
tecniche e veniva come me dal cinema d’amatore. Con De Bernardi siamo più
vicini al film-performance, al film-arte, che credo andrebbe al meglio fruito
nell’ambito di una mostra dove l’autore è il principale performer. Tutti amiamo
i film di Tonino (se li amiamo) perché sono lui e dicono lui, anche quando non
riescono a dirlo completamente. Qui c’è un completo rimescolamento del
linguaggio del “cinema” che invece è ben presente con tutte le sue regole in
Lombardi o Leonardi, che sono in definitiva dei professionisti del film che
hanno avuto vicende alterne nel loro rapporto col mezzo. Oggi mi riesce
difficile apprezzare il puro lirismo di Stan Brakhage, recentemente scomparso,
che vorrebbe parlare all’inconscio ma finisce col dire poco. Invece gli
sperimentalisti italiani dimostrano spesso un maggiore realismo, hanno presa e
mordente.
Molti di questi film sono pressoché ignoti o ignorati, e
invece costituiscono un capitolo vivace della storia dell’immagine e della
storia tout court (per quanto piccolo fosse il nostro osservatorio). Dobbiamo
essere grati al Filmstudio, che come noi è sempre lì, erede di se
stesso, e insiste che il discorso è ancora aperto. Dopo tutto i film memorabili
non sono poi tanti perché possiamo permetterci di ignorare i guastatori e
creatori della Cooperativa cinema independente.