Massimo
Bacigalupo
Chesterton e l’età
vittoriana
Vittoria regnò dal 1837 al 1901 e sotto di lei fiorirono
romanzieri, poeti, intellettuali che ancora affollano persino le librerie delle
stazioni ferroviarie (Dickens, Stevenson, Kipling, Hardy,
Brontë, Wilde...). In casa, eredità di vecchie
istitutrici, avremo forse i bei volumi dei poeti Tennyson
Browning Swinburne Rossetti. E poi le pietre
veneziane e le mattinate fiorentine di un Ruskin. Ma
qui andiamo sul difficile.
A ricordarci questo grande mondo antico provvede L’età vittoriana nella letteratura del colossale G.K.
Chesterton, ottimamente tradotto da Paolo Dilonardo
(Adelphi, pp. 211, 2017; in Italia fu edito una prima volta nel 1945 da
Bompiani, ed è ancora stato riproposto nel 2013 da Fuorilinea).
E’ un saggio molto personale anche se strutturato didascalicamente
in quattro parti: “Il compromesso vittoriano e i suoi nemici” (dove i nemici
sono anche alcuni dei maggiori esponenti, da Ruskin ad
Arnold), “I grandi romanzieri”, “I grandi poeti” e “La rottura del compromesso”
(l’estetismo di Wilde, il socialismo di Shaw, l’imperialismo di Kipling, il
socialismo di Wells). Ma appunto Chesterton, giornalista e autore di cento
libri, “vittoriano” nella sua infaticabilità appassionata, non ci racconta cosa
una George Eliot o un Meredith abbiano scritto, li dà per letti e familiari, e
fornisce un inquadramento e (secondo il suo solito) una gragnola di epigrammi che tuttavia colgono il segno.
Il libro di Chesterton è del 1913, come se oggi uno scrittore
italiano nato negli anni ’70 (Chesterton era del 1874) raccontasse il nostro
“compromesso” del dopoguerra e poi
Pavese Morante Gadda Moravia Bassani Calvino, persino Eco, cioè eventi
di un passato prossimo ma già per lui storico. Da ciò la familiarità della
trattazione che però non si sofferma su idiosincrasie personali a scapito del quadro
d’insieme. Certo, Chesterton era un simpatizzante del cattolicesimo (si
convertì nel 1922) e qua e là emerge il suo moralismo scandalizzato (a
proposito di passeggiatrici nonché omosessuali), ma il suo tradizionalismo
paradossale non inficia la capacità di disegnare un quadro e di comporre un
saggio che, anche per chi non ricordi gran che di Bulwer
Lytton o Charles Kingsley,
è un piacere scorrere per le qualità di scrittura nonché per le proposte di
lettura della modernità, del rapporto Inghilterra-Europa,
del contributo dei grandi intuitivi che come Dickens fanno vacillare
inconsapevolmente e fantasticamente l’intero edificio del compromesso
perbenista e occhiuto della società vittoriana ma non solo.
Quello di Dickens è “l’assalto più semplice e istintivo,
e di conseguenza probabilmente più pesante, sferrato a quell’appagamento che
era al centro dell’età vittoriana”. Quanto ai suoi personaggi caricaturali,
spesso contrapposti a quelli realistici di Thackeray,
“lo speciale e splendido compito di Dickens fu quello di presentarci persone
che sarebbero state del tutto incredibili se egli non ci avesse raccontato
tante verità sul loro conto”. Leggiamo dunque Il nostro comune amico, Casa desolata e La
bottega dell’antiquario, stimolati da affermazioni come “Se, per
compassione nei confronti di Mrs Quilp,
definite Dickens il difensore delle donne oppresse, d’un tratto vi ricorderete
di Mr Wilfer, e vi
scoprirete incapaci di negare l’esistenza di uomini oppressi. Se, per
compassione nei confronti di Mr Rouncewell,
definite Dickens il difensore del maschio Liberalismo borghese contro Chesney Wold, d’un tratto vi
ricorderete di Stephen Blackpool, e vi scoprirete incapaci di negare che Mr Rouncewell poteva essere un
gallo piuttosto insopportabile nel suo pollaio....”.
Chesterton è forse meno sensibile alle qualità
stilistiche di uno scrittore di quanto non saremmo oggi (anche se ha acute
osservazioni sulla scrittura di James e Stevenson, ma ancora più acute su Jekyll/Hyde, e sull’“assenza di
mediazioni e protezioni tra una mente e l’altra” nell’“impaccevole”
James). Tuttavia il quadro complessivo da lui disegnato nel 1913 rimane sostanzialmente
attendibile. Sicché L’età vittoriana
nella letteratura resta un’introduzione eccellente che va molto al di là di
un’introduzione e offre spunti di interpretazione e riflessione.
Si veda la conclusione, che piacerebbe a un teorico della
decrescita: “I vittoriani pensarono che il commercio estero avrebbe esteso la
pace: non c’è dubbio che spesso abbia esteso la guerra. Pensarono che il
commercio interno avrebbe certamente promosso la prosperità; in larga misura ha
promosso la povertà. Ma per loro questi furono esperimenti; per noi dovrebbero
essere insegnamenti. Se continueremo anche noi, come i capitalisti, a servirci
del popolo, se continueremo anche noi, come i capitalisti, a servirci delle
armi al di fuori del nostro Paese, ciò graverà pesantemente sui vivi. E non
sarà sui morti che ricadrà il disonore”.
“il manifesto Alias”, 26 febbraio 2017