Massimo Bacigalupo
Benito Cereno, un oscuro teatro della crudeltà
tradotto da Luigi
Ballerini
“L’indole dei negri ne fa degli esseri particolarmente
idonei a occupazioni relative alla cura del corpo. La natura li ha voluti,
nella stragrande maggioranza, servitori e parrucchieri.” Chi scrisse queste
parole nel 1855 in un mensile edito a New York? Un umorista? Un razzista? Un
diabolico giocoliere? Fu il trentaseienne Herman Melville in un suo racconto
fra i più celebri e sinistri, Benito
Cereno, di cui il benemerito Luigi Ballerini ha curato una nuova brillante
e appassionata traduzione, con testo originale a fronte (Marsilio, pp. 407, €
22,00). E’ la storia, come ricorderà chi l’ha letta nella classica versione di
Pavese o in una delle tante altre successive, di una nave fantasma abitata da
un capitano amletico e dai suoi inseparabili servitori negri, e del buon
capitano yankee Amasa Delano (antenato nientemeno che di Franklin Delano
Roosevelt) che vi passa una giornata di
batticuore cercando di venire a capo di questa strana Danimarca latina,
senza riuscirci gran che. Melville infatti derivò i tratti principali del
racconto da una fonte storica, appunto le memorie di Delano, e ci costruì sopra
le sue variazioni impietose. Veramente un teatro della crudeltà. Il
narratore-lettore accompagna Delano che porta soccorso ai poveri bianchi e
negri reduci da tante tempeste. Siamo dentro e fuori la sua testa, ma per lo
più non ci sono virgolette, come appunto nel panegirico dei negri ottimi
curatori delle persone fisiche dei loro... padroni. La matassa è complicata.
Ballerini è uno scrittore arguto e sottile che ci regala cinquanta pagine di
introduzione in cui salta fuori di tutto, ma sempre con pertinenza. In
appendice traduce poi la fonte di Melville e così potremo viaggiare anche noi
fra testi verso il cuore di tenebra (ottimo il riferimento finale a Conrad). A
Pavese erano bastate tre paginette di introduzione sullo stile*. Forse i lettori del 1940 erano più
scafati, o è cambiata la nostra idea del rapporto fra curatore, critico e
classico. E soprattutto le collane bilingui di Marsilio ci hanno abituato ad
apparati impegnativi. Comunque ora possiamo-dobbiamo rileggere Melville in una
traduzione d’autore che ha scelto di sciogliere alcuni degli intrichi dell’originale,
assai poco drammatico in certi punti per quanto terribile la vicenda. Lo stesso
Benito Cereno, vale la pena di notare, viene introdotto come per caso, a metà paragrafo (p. 85), senza che i due
capitani si siano (nel racconto) presentati. Sarà vero che il Melville
impaziente e infelice dopo la stagione maggiore lavorava “troppo in fretta”,
come scrisse il primo lettore del racconto? Forse, ma questa oscurità in cui
difficilmente si procede è propria del sogno, il sogno che non si sa di
sognare, in cui Delano è gettato, e il lettore con lui. Il sogno-incubo della
storia. Delano è per il lettore una terribile object-lesson. Il suo errore, Melville sogghigna, è il mio e il tuo,
che siamo salvati solo dalla nostra assoluta beata stupidità.
*Due contributi sulla traduzione di Pavese, di Sarah Salter e Giuliano Mori,
si leggono nel numero speciale di Ácoma
(2, 2012) dedicato a “Glocal Melville”.
“alias-il Manifesto”, 14 aprile 2013