Massimo
Bacigalupo
cosmico understatement di un nipote di Whitman
Breve storia
dell’ombra di Charles Wright
Charles Wright è un importante poeta americano, nato nel 1935 nel Tennessee
e rimasto legato ai paesaggi del Sud, rurali. Ciò lo distingue dai coetanei
Mark Strand e Charles Simic, poeti urbani per temi e atteggiamenti. Dopo Crepuscolo americano (Jaca Book 2001) e L’altra riva del fiume (ExCogita 2001),
esce ora in Italia un terzo volume di liriche di Wright, Breve storia dell’ombra (a cura di Antonella Francini, Crocetti,
pp. 211, 16,00), assai bello e comprensivo. Infatti la prima parte presenta
testi degli anni ’70, la seconda opere del 2000 e dopo, fra cui il testo che dà
il titolo al volume.
Un’altra peculiarità di Wright è
il legame stretto con l’Italia, dove arrivò arruolato nel dopoguerra e dove si
scoprì poeta leggendo a Sirmione una poesia di Ezra Pound dedicata ai luoghi di
Catullo. Ha tradotto La Bufera di
Montale e poesie di Campana, e ama i paesaggi e i versi italiani e ne ospita frammenti
e citazioni – soprattutto da Dante – nelle sue poesie, poundiane nella loro
fascinazione per la “bellezza” e il frammento. Abbastanza presto scoprì Giorgio
Morandi, relativamente ignoto negli USA, e nel suo studio a Charlottesville
(Virginia), nei pressi delle stanze dove fu alloggiato studente Edgar Allen
Poe, il pittore bolognese è assai presente.
Molto musicale, maestro del
verso libero allitterante, Wright è anche molto pittorico, ed è stato accusato
di scrivere sempre la stessa poesia, come appunto raffigurando all’infinito le
stesse bottiglie e ciotole. Un interesse formale che però non è mero esercizio
di stile, ma ricerca nell’esistenza, calma eppure appassionata.
Negli anni ’70 Wright appare
nelle foto con capelli lunghi e occhiali scuri, allampanato e riservato ma
cordiale. Le sue poesie hanno cadenze ieratiche, da canzoni di Bob Dylan. Ecco
la prima poesia di Breve storia
dell’ombra, la prima dei venti sonetti sciolti che costituiscono la
sequenza Pelli:
Qualsiasi solco tu scavi nella terra rossa,
a qualsiasi albero appenda le tue luci,
viene il momento
in cui quel che sei è quel che sarai
fino alla fine, a qualunque
preghiera tu risponda – una vita
in margine, bianco della mela, bianco dell’occhio,
per quanto a lungo tu stenda le mani.
Ti guardi indietro e ti guardi indietro. Davanti, in distanza, un grido
stride come gesso su una lavagna.
Fra macerie e pietrame, arenaria o flussi di marea,
vai dove lo spartiacque ti porta,
una parola per volta, sempre
contando i tuoi denari, indossando abiti effimeri. (p. 30)
Per quanto il discorso proceda
con fermezza, si vede già la tendenza alle approssimazioni successive, a
squarci impressionisti che lasciano libertà all’interprete. E un certo calmo
pessimismo e gusto del paesaggio arido che ricorda la frequentazione di
Montale.
Vediamo ora cosa Wright sa dire
di Morandi:
Parlo d’immobilità, del silenzio
una coppa centrale di porcellana, un vaso a goccia, una brocca.
Parlo di spazio, che è unilaterale,
senza risposta, e lasciato asciugare.
Parlo di pittura, di forma, del vuoto
che vigilano questi oggetti, e da cui sorgono.
Parlo di colpa, goccia rossa, goccia bianca,
la sua gobba e curva, che è blu.
Parlo di bottiglie e di rovina,
e di ciò che facciamo brillare nel buio, e perché… (p. 80)
Sono dei distici, tutti
introdotti dal verbo “I’m talking about”, per dare il senso di
concentrazione e necessità e drammaticità delle apparentemente algide e inumane
raffigurazioni morandiane (e wrightiane).
Nelle poesie tarde, che occupano la seconda parte della scelta, lo stile è assai diverso. Wright ha nel frattempo composto lunghi poemi cosmogonici, guardando nuvole cielo e monti dal punto di vista della sua casa suburbana a Charlottesville o da quella sull’oceano in California. Non nasconde questo punto di vista borghese, e la poesia assume la forma di un diario ininterrotto di notazioni anche banali sui pomeriggi, le sere, le stelle. Ecco come comincia la poesia eponima Breve storia dell’ombra, che è in effetti abbastanza breve (tre pagine):
Thanksgiving, dark of the moon.
Nothing down here in the underworld but vague shapes and black holes,
Heaven resplendent but virtual
Above me… (p. 122)
Cioè:
Thanksgiving, buio di luna.
Nulla quaggiù nel mondo di sotto eccetto vaghe forme e buchi neri,
il cielo splendente ma virtuale
sopra di me,
gli alberi spogli e
legati con tre corde come arpe irlandesi…
Il riferimento al Thanksgiving è
insieme banale e religioso. (C’è chi ha detto che tutta la poesia di Wright,
agnostico cresciuto nella chiesa episcopale è un sommesso – ma nemmeno tanto –
inno in celebrazione del divino e del mondo naturale e umano). Nel secondo
verso underworld è insieme il mondo
terrestre ma anche l’Averno in cui viviamo; “buchi neri” è un altro gioco di
parole; il Cielo è sia la volta celeste che il Paradiso, insieme “splendido e
virtuale” perché meravigliosamente immaginato dagli uomini (gli amati pittori
come Fra’ Angelico) e perché le stelle che vediamo magari sono scomparse da
millenni…
Così Wright descrive semplicemente la situazione dell’uomo nel cosmo, unendo descrizione e metafora. E gusta le sonorità che regalano le parole. Dopo aver descritto la notte illune riferisce che
Under the bridge is the river,
the red Rivanna.
Under the river’s redempion, it says in the book,
It says in the book… (p. 122)
Non ci vuol molto a cogliere il suono ripetuto del fiume, e poi – passando
a un mondo metafisico – la “redenzione del fiume”, o forse dovremmo dire “la redenzione del rivo”… E la frase ripetuta “Così dice il libro, così dice il
libro…”.
Wright è un poeta che non si dà
arie da vate, ha in comune con la tradizione americana il volare basso, e tende
molto all’understatement. “Non aveva molto
da dire” scherza qui a p. 118 “ma almeno sapeva come dirlo”. Segue le
orme di Walt Whitman nel trascrivere e catalogare ciò che vede e trarne
ammaestramenti.
Ecco una citazione dal poemetto Buffalo Yoga:
Lenticchia palustre giace piatta sull’acqua verde.
Le bandiere bianche di due cervi
garriscono attraverso la
prateria…
Sto sul confine più vicino della palude e li guardo sparire.
Come loro, chiuderei volentieri la bocca,
e
non sussurrerei niente a nessuno. (p. 142)
(Wright ama scherzare che le sue poesie sono “sussurrate”.)
Sentiamo invece Whitman (Canto di me stesso):
L’anatra selvatica guida il suo stormo attraverso la notte fresca,
ya-honk dice, e me lo getta in basso come un invito.
I furbi penseranno che non ha senso, ma io ascoltando attentamente,
scopro il suo scopo e significato lassù verso il cielo invernale.
Forse Whitman dà ancora dei punti ai suoi nipotini. Basta che alzi gli
occhi “up there toward the winter sky”
per rivelarsi un maestro irraggiungibile.
Ma il poeta del 2000 non può
condividerne l’invidiabile sicurezza, e confessa apertamente il suo rimpianto
di un fuoco che stenta a ritrovare, anche nel sangue che con l’età scorre più
lento:
Alcuni di questi fuochi di stelle sono di certo cenere ormai.
Mi gingillo nel cortile,
canticchiando vecchie canzoni che non dicono più niente a nessuno.
Il cappello dell’oscurità fa pendere il cielo notturno
pollice dopo pollice, piede nero dopo piede nero,
sopra Blue
Ridge.
Com’era luminoso il fuoco del mondo, penso fra me e me,
prima dei capelli bianchi e la cenere dei giorni.
Scruto le costellazioni,
dimenticando qualsiasi
cosa volevo dire. (p. 114)
“il Manifesto-Alias” , 21 ottobre 2006