Massimo Bacigalupo
New
York nel 1947. Ritratto
della bohème a Greenwich Village
Anatole Broyard (1920-90), autorevole redattore letterario del “New
York Times”, negli ultimi anni di vita prese a scrivere un memoriale del suo
arrivo nel 1947, reduce dal Giappone, nel Greenwich Village, fra la bohème
newyorkese, con una voglia matta di scoprire la letteratura e la vita. Furoreggiava
Kafka (traduzione di Barbara Cingerli e Francesco
Rognoni, Edizioni Bonnard, pp. 182, €16,00) coglie con rapida intelligenza quel
mondo alla scoperta del Novecento, quando Broyard con la sua pensione di G.I.
frequentava i corsi di psicologia di Erich Fromm, gli ispirati seminari di
storia dell’arte di Meyer Schapiro e le lezioni d’amore di “Sheri Donatti”, la
provocante pittrice-modella che lo invitò senza preliminari a dividere il suo
appartamento e il suo letto. (Il suo
vero nome era Sheri Martinelli, una peperina irlandese completamente suonata
che ho fatto in tempo ancora a conoscere a fine anni ’80...) Sicché secondo un
recensore Furoreggiava Kafka delizierà “chiunque ha mai amato i libri o
il sesso”. Broyard aveva fama di donnaiolo, e dopo essere stato iniziato da
Sheri alla rivoluzione sessuale, vi indugia nella seconda parte del libretto,
esemplificando i tipi delle sue ragazze – assai più normali di Sheri – esse
stesse incerte nel nuovo clima di permissività: “Amavo la goffaggine di queste
ragazze. A volte mi spezzava il cuore. Timorose di prendere la minima
iniziativa, esitavano e annaspavano, indugiavano, divagavano. Questo impaccio
per me era una specie di sublime, inconscia affermazione della loro innocenza”.
A distanza di cinquant’anni questo mondo – dice Broyard – è addirittura
inconcepibile, ed egli prova gusto a presentare la sua casistica, le corse
nelle balere di Harlem, la ragazza sordomuta, quella che non aveva il coraggio
di andare di corpo... Ma il suo non è un libro alla Henry Miller. Broyard è
proprio uno di quegli intellettuali newyorchesi da cui si differenzia (suggerisce)
per la sua corporeità. Non può far a meno di collocare la sua formazione sullo
sfondo di mutamenti epocali del costume occidentale: “Nel 1947 la vita
americana non s’era ancora spaccata. Era ancora incompleta, pristina,
circoscritta nel suo perimetro e, soprattutto, disciplinata. Azioni che ora
consieriamo del tutto normali erano proibite dalla legge o dalle convenzioni”.
Ma era proprio così? Dopo tutto i bambini si fanno nello stesso modo da che
mondo e mondo, e gli psicoanalisti ci hanno insegnato che la sfera privata ha
il vizio di sfuggire alla regolamentazione. (Il Rapporto Kinsey risale giusto
al 1948.) Broyard esagera sia ingenuità che disincanto. Anche un dongiovanni
del 2000 non disprezzerebbe la galleria delle sue conquiste, come un collezionista
di celebrità gli invidierebbe la confidenza con Anais Nin, la lotta libera con
Caitlin Thomas, leggendaria moglie bisbetica di Dylan, e le passeggiate con
Delmore Schwartz, il poeta e critico fallito destinato a divenire lo “Humboldt”
del celebre romanzo di Saul Bellow.
Broyard stesso è divenuto
postumamente il protagonista di un romanzo importante, La macchia umana
di Philip Roth. E’ la storia di un intellettuale pretestuosamente tacciato di
razzismo e perciò cacciato dall’università dove insegna, mentre in realtà egli
stesso è di sangue nero, cosa che è riuscito a nascondere a tutti. Analogamente
Anatole Broyard, che si presenta come membro di una famiglia cattolica di New
Orleans, era in realtà un nero che “passava” (come amici e colleghi scoprirono
solo dopo la morte). Questo sì è un fatto epocale che stupisce che stupisca.
Quella famosa goccia di sangue nero che fa delirare una società razzista (come
sappiamo dal capolavoro di Faulkner, Assalonne, Assalonne!, recentemente
e degnamente riedito da Adelphi). Di questo retroscena ovviamente in Furoreggiava
Kafka non è traccia, anche se Francesco Rognoni nella sua smagliante
postfazione suggerisce che conoscerlo rende più ghiotta la lettura, all’insegna
dell’equivoco. Comunque il rapido romanzo-saggio di Broyard è imperdibile: se
non raffigura il Greenwich Village com’era, rende l’impressione che lasciò in
un testimone smaliziato. La meglio gioventù, diciamo, all’americana.
“Il secolo XIX”, 27 febbraio 2006