Massimo Bacigalupo
Borges anglista
Jorge Luis Borges insegnò per dieci anni letteratura inglese e americana all’Università di Buenos Aires, in modo poco convenzionale ma senz’altro efficace, come si desume dalle magnifiche e svagate lezioni ricostruite da allievi e ammiratori in La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura (trad. Irene Buonafalce e Glauco Felici, Einaudi, pp. xxx+332, Euro 24). Lezioni di un ultrasessantenne cieco che come un bardo immagina o canta la storia letteraria che per lui conta.
Forse le uniche storie letterarie di interesse non manualistico sono quelle degli scrittori. La Storia della letteratura inglese di Giuseppe Tomasi è un capolavoro di intelligenza (era nata, si ricorderà, come una serie di chiacchierate privaye per i suoi allievi più e meno eccentrici: i Piccolo, Lanza Tomasi, lo spiritato Francesco Orlando). E forse oggi che è così difficile spiegare agli studenti perché e come leggere occorrerebbe dargli il libro di Tomasi per fargli sentire la passione generata da quelle figure, e anche i pettegolezzi che pure affascinano. E i dettagli che illuminano. Per esempio Tomasi racconta che il visionario Blake “succhiò col latte le dottrine del grande mistico ed esoterista svedese Swedenborg (letteralmente: la madre teneva strisce di carta con sue frasi attorno ai capezzoli mentre allattava)”.
Le lezioni di Borges, in quanto ricostruite da sbiadite registrazioni e appunti, non hanno il nitore e il vigore della prosa autografa di Tomasi, ma ciò nonostante offrono a ogni pagina una ricca messe di stimoli per lettori più e meno smaliziati. A proposito del dettaglio memorabile Borges avverte: “Una delle opere più importanti di uno scrittore – forse la più importante di tutte – è l’immagine che lascia di se stesso nella memoria degli uomini, al di là delle pagine che ha scritto”. Ecco la ragione del fascino di autori più notori che letti, da Byron a Pound: un mito, non necessariamente attendibile, che si portano dietro, e che spinge a tornarci sopra. E’ anche il caso di Samuel Johnson, immortalato nella biografia dell’inetto Boswell (la quale “si può aprire a qualunque pagina con la certezza che si continuerà a leggerla per altre 30 o 40”). Ed è il caso di Coleridge, autore praticamente di tre sole poesie, che pure bastano e avanzano, anche se Borges non ricorda bene la trama demoniaca del Christabel, e per una volta i bravi curatori Martín Arias e Martín Hadis non intervengono con le loro annotazioni.
Borges è perversamente affascinante nel gettarsi a capofitto in avventure di lettura solitaria. Un terzo della sua Biblioteca inglese è dedicata alla letteratura anglosassone, cioè quella in inglese antico che di solito i manuali sbrigano in due pagine. Di incunabolo in incunabolo, dal Beowulf al Navigatore, l’anglofilo Borges medita sui rari testi cui è affidato il ricordo di una civiltà scomparsa. E ama citare le parole originali con le loro lettere ignote all’alfabeto moderno. Ci fu scandalo anni fa a Oxford quando fu cancellato l’obbligo di studiare l’anglosassone. Ed ecco ora tutti i lettori del bignami di Borges saperne di più della maggior parte degli studenti e professori di Oxford. Borges rileva giustramente che l’Inghilterra del Beowulf era proiettata verso la Scandinavia e la Germania e ne condivideva in parte la lingua. Ricorda che a Costantinopoli si poteva sentire scandinavo per le strade, perché... Lo si troverà in queste pagine. E si ferma a meditare fra storia e fantasia sulla battaglia di Hastings, 1066, senza la quale la storia del mondo sarebbe diversa, non ci sarebbe l’inglese egemone, non starei probabilmente scrivendo su un pc ecc. ecc. Qualcuno ricorderà la tappezzeria di Bayeux, una sorta di fumetto coevo che raffigura la traversata di Guglielmo il Bastardo, cui riuscì l’impresa in cui fallirà Hitler, e pertanto divenne Guglielmo il Conquistatore. “I normanni avevano un senso dell’organizzazione di cui erano privi i sassoni”. Donde l’impero britannico. Anche i normanni erano degli scandinavi, ma erano transitati attraverso la Francia, e ne portarono la lingua in Inghilterra. Scompare l’antico inglese amato da Borges, e qualche secolo dopo ecco Chaucer e Shakespeare parlare la nuova lingua mondiale.
Ma La biblioteca inglese di Borges salta a pie’ pari dal 1066 al Settecento, cioè giusto sette secoli, a Samuel Johnson, altro inventore di storia letteraria, e poi alle origini del romanticismo. Infatti Borges è sempre attratto dal ritorno dell’antico nel moderno. E il primo romantico scozzese, James Macpherson, che anche attraverso Cesarotti conquistò l’Europa e non ultimo generò il Wilhelm Meister e il Pastore errante, era un falsario-ricreatore del mondo gaelico presassone e prenormanno: “Macpherson nasce e cresce in un luogo agreste nel nord della Scozia, dove si parlava ancora una lingua gaelica, cioè una lingua celtica, affine naturalmente al gallese, all’irlandese e alla lingua bretone che portarono in Bretagna – prima chiamata Armorica – i britanni che vi si rifugiarono dalle invasioni sassoni del secolo V. Per questo si parla ancora adesso di Gran Bretagna, per distinguerla dalla piccola Bretagna, in Francia”. Beati gli studenti del 1966 destinatari di tante illuminazioni, per nulla inficiate dalle inesattezze. Ciò che conta in un testo, un manuale, è un progetto (qui di Biblioteca), da ciò la felicità di queste lezioni che sanno appassionarci ad argomenti sui quali anche i più diligenti sbadigliano. Il giullare che si gettò per primo nella battaglia di Hastings cantava una versione della Chanson de Roland. E Napoleone portava l’Ossian di Macpherson-Cesarotti con sé nelle sue campagne. Senza Macpherson non vi sarebbe nemmeno Whitman e tutta la sua stirpe.
Sempre attratto dall’elemento onirico, Borges ci racconta l’inquietante “sogno dell’arabo” di Wordsworth: un autore che egli capisce e apprezza meglio di Tomasi, che lo liquida in poche pagine. Tomasi scrive un panegirico per Keats; Borges da parte suo lo trascura, come pure Shelley e Byron, per tuffarsi in una zona meno frequentata: i vittoriani. Si ferma a lungo sull’“oscuro” Browning (caro anche a Tomasi) ed evoca il mondo di Carlyle confessando di essersene innamorato per un periodo e che questa è un’esperienza caratteristica (di molti?): “Pensavo che tutti gli altri scrittori fossero sbagliati semplicemente perché non erano Thomas Carlyle”. I lettori troveranno per conto loro anche la soluzione di questo arduo indovinello.
Borges raggiunge forse il culmine dell’eccentrico dedicando due lezioni a Dante Gabriel Rossetti (che non fu mai in Italia, cui doveva tutto e nulla) e tre a William Morris, rivisitatore di saghe nordiche e traduttore del Beowulf, oltre che socialista e intraprendente disegnatore e fabbricante di tessuti, tuttora acquistabili nelle tappezzerie di mezzo mondo. A beneficio degli allievi Borges legge per esteso The Blessèd Damozel, poemetto neostilnovista di Rossetti, e illustra i tragici amori del corpulento poeta-pittore con modelle più e meno caste. Poi narra le saghe e i poemi di Morris, abbandonandosi al piacere di riferire quegli episodi ferali.
Grati allievi del professor Borges 40 anni dopo, siamo tentati di correre a scaffali troppo trascurati, per scuotere la polvere dai librini di Morris e Macpherson, e magari intonare una vertiginosa salmodia anglosassone, rigorosamente in originale.
“Il Manifesto-Alias”, 5
agosto 2006