Stefano Verdino

Beatrice Solinas Donghi, la scrittrice che fece della vita un racconto

 

Appena saputa la notizia della sua morte (Genova, 23 ottobre 2015), ho riletto l’ultimo racconto di Paqui - come era chiamata Beatrice Solinas Donghi - Stato confusionale che chiude Vite alternative (Il canneto 2010), l’ultimo suo libro. E ho ritrovato, puntuale, il fascino della sua scrittura fiamminga, precisa e attenta ai limiti del dire, che tanto piacque a Banti e Bassani, suoi primi mentori, alla fine degli anni ‘50. Esordì infatti da Feltrinelli con i racconti L’estate della menzogna (1959) ed alla forma del racconto fu sempre fedele, nonostante la scarsa simpatia per il genere prestato dall’editoria italiana. Le sue varie raccolte non fecero che confermare la sua attitudine ad un narrare breve e severo, con una trama essenziale e calibrata tra ambiente e personaggi e questi tra loro concertati con una gamma di affetti e ruvidezze, spesso con protagonisti adolescenti e in formazione.

L’uomo fedele (1965), premio Campiello, e Le voci incrociate (1970) sono i suoi due romanzi. Il primo – recentemente ristampato – è uno straordinario affresco della fine della civiltà della villa genovese – di Albaro nello specifico – con la progressiva urbanizzazione del territorio. E un Albaro perduta e altre lande del Genovesato sono per lo più lo sfondo del suo narrare, segnalo un memorabile Ille Paulinus in L’aquilone drago(1966), ricreazione di un possibile medioevo nella Badia di Tiglieto, ben prima delle mode abaziali.

Nella sua cucina c’è molto delle predilette letture inglesi, tra Austen e Bronte (su Emily scrisse un libro nel 2001), pascolo naturale per lei bilingue figlia di un nobile genovese e una pittrice inglese, ma molti gli ingredienti italiani da Goldoni a Nievo (“dalla cucina di Fratta non sono mai uscita”, diceva). C’è sì una buona matrice di Ottocento nelle sue storie, ma prosciugato da uno sguardo moderno, da “Sbarbaro in gonnella” come la chiamava Adriano Guerrini, il poeta animatore di “Diogene” e “Resine”, le riviste genovesi a cui collaborò.

Beatrice Donghi è stata anche una grande scrittrice per l’infanzia, dalle fiabe semplici per i piccoli, alle prime storie “per ragazzine”, a libri più impegnativi come Il fantasma del villino (1992) su una ‘fantasmatica’ ragazza ebrea nascosta in tempo di guerra. Con Boero curò le Fiabe liguri (1980), mentre La fiaba come racconto è il suo saggio chiave, caro a Calvino.

Amica, dall’infanzia, di Camilla Salvago Raggi: le loro Lettere verdi (2013) scritte fra 1938 e 1940 mettono a fuoco due vocazioni alla scrittura e una precoce personalità stilistica, tenuto – nel caso della Donghi – su un understatement radicale, fino alla calcolata incomprensione come nella pittrice del suo Poco lume, maestra di penombre, del tutto incompresa dal figlio, pronto a sbarazzarsi delle sue tele: “Una sottile lezione di pittura andò dunque perduta per il principiante avido di ben altri modelli, mentre il figlio avrebbe continuato fino all'ultimo a interpretare come lo sfogo segreto di una vita sacrificata quella che a un osservatore più acuto sarebbe potuta apparire una cosciente ricerca d'artista”.

 “Il secolo XIX”, 26 ottobre 2015