Beatrice Solinas
Donghi
ospedali,
infermiere e altro di
Louisa May Alcott
Gli editori di mezzo mondo, se non del mondo intero, non la finiscono mai
di pescare nel pozzo apparentemente senza fondo della produzione di una delle più
amate autrici per ragazze (e non solo), Louisa May Alcott. Sì, proprio quella
delle Piccole donne, ben lontana
dall’esser dimenticata dopo quasi un secolo e mezzo dalla pubblicazione; tanto
è vero che sulla scia della loro fama imperitura si continua a cercare e a
trovare titoli d’altro carattere o con altra destinazione rimasti finora
nell’ombra o caduti nell’oblio. Il meritevole editore nel caso presente è
Donzelli di Roma, che ha avuto l’eccellente idea di proporre la traduzione (di
Sara Antonelli e meritevole pure questa) degli Hospital Sketches o Bozzetti
d’ospedale. Siamo in parecchi a sapere che
Per il presente volume si è preferito adottare un titolo più generico, Racconti d’amore e di guerra, dato che
esso comprende anche due novelle indipendenti dagli Sketches, ma nate nel medesimo giro d’anni che portarono alla
guerra di Secessione tra gli Stati abolizionisti del Nord e quelli schiavisti
del Sud. Mi riservo di parlare in seguito di queste novelle, che sono i
“racconti d’amore” del nuovo titolo, mentre nei Bozzetti d’ospedale l’interesse amoroso è emarginato dalle urgenze
della esperienza infermieristica vissuta in prima persona.
Infatti Louisa May fu davvero infermiera volontaria in un ospedale militare
nel corso di quella guerra; e benché l’esperienza venisse presto troncata dalla
grave malattia che le procurò il congedo e un pronto ritorno a casa, bastò a
fornirle le basi per una sorta di reportage molto sentito e convincente.
Tuttavia Louisa, già allenata alle invenzioni romanzesche dalle collaborazioni
ai periodici con le quali da anni cercava di far fronte alle difficoltà
economiche dei suoi, diede al resoconto delle sue autentiche vicende
ospedaliere una situazione di partenza fittizia, ambientata in una famiglia
solo in parte simile alla sua.
Il padre, tanto per cominciare, risulta essere un ecclesiastico, ciò che
l’intellettuale, teorico e conferenziere Amos Alcott non fu mai; e oltre a due
sorelle di cui si potrebbero riconoscere gli originali tra le ragazze Alcott
c’è pure un fratello minore, guerrafondaio come lo sono quasi tutti gli
adolescenti maschi. Inoltre chi scrive in prima persona non si chiama Louisa
May Alcott ma Tribulation Periwinkle, che suona un tantino comico ma è un nome
abbastanza convincente per un personaggio di romanzo di quell’epoca e
quell’ambiente. Tribulation sembra richiamare i nomi femminili della tradizione
puritana derivati dalle virtù, Prudence, Constance e così via; è una trovata
inventarne uno dedicato alle tribolazioni che ogni cristiano è tenuto a
sopportare con rassegnazione e che non mancheranno davvero nella vita
ospedaliera di lei. In quanto al Periwinkle, è un nome di fiore, la pervinca,
un tantino buffo, d’accordo, ma certo meno di molti cognomi dickensiani; e
Le avventure e disavventure della signorina Perwinkle sono francamente
divertenti nei primi due capitoli, quelli del travagliato iter burocratico che
precede la partenza e del lungo viaggio, parte in treno, parte in battello, poi
di nuovo in treno, a New York, Baltimora e infine Washington. Certe figure di
compagni di viaggio sono memorabili: il signore “con tre bambini, un cane, una
gabbia per uccelli e svariati fagotti” che “sistema se stesso e tutti i suoi
averi in ogni posto che un uomo con tre figli, un cane, una gabbia per uccelli
e diversi fagotti riesca a trovare, ma senza mai esserne soddisfatto.” Oppure
una signora energica con un bicchierone di medicinale in mano che attraversa
trafelata la carrozza discutendo ad alta voce con un esile facchino incaricato
del trasporto di un letto su rotelle per invalidi. L’invalido non comparirà
mai, perché l’incontentabile signora non tarda a cambiare carrozza, ma vale la
pena di ascoltarla parlare.
“Avevi detto che sarebbe stato tutto a posto. Non è a posto. Deve essere
una carrozza con la damigiana dell’acqua, i finestrini debbono essere chiusi,
il fuoco deve essere acceso e le tende tirate. No, questa non va bene. Mi farò
un giro per il treno e mi sistemerò da sola, e questo perché tu mi avevi
promesso che sarebbe stato tutto a posto. Non è a posto” e via così, tutto da
capo, come un organo a manovella.
L’umorismo quasi onnipresente nell’opera della Alcott (e comunque molto
evidente nel ciclo delle Piccole donne)
mantiene i suoi diritti anche quando si giunge nel vivo dell’esperienza
ospedaliera. Se nei capitoli introduttivi una satira mordente investiva le
incompetenze e i tediosi impicci della burocrazia, in ospedale essa prende di
mira soprattutto i personaggi più auterevoli, i dottori. Per quanto siano bravi
nel loro mestiere,
Per di più l’ospedale in questione è noto come Casa del Caos: da cui le
situazioni risibili quanto esasperanti, i momenti in cui le infermiere
sovraccariche di lavoro letteralmente “ridono per non piangere”. La situazione
di fondo rimane quanto mai seria, fra tutti quei corpi giovani menomati più o
meno gravemente e spesso tragicamente. In questo contesto è normale che si
discuta di un accenno di barba da radere, o al contrario da conservare
gelosamente, con un giovanissimo paziente al quale in precedenza avevano
tagliato una gamba, mentre un braccio in frantumi incontrerà senza dubbio il
medesimo destino. Situazioni scioccanti; ma implicitamente lo era, per l’epoca,
già quella iniziale dei lavacri di quei corpi maschili incrostati di fango e
sangue disseccato, messi in atto da una ragazza di buona famiglia che un uomo
denudato può averlo visto soltanto in qualche quadro, dove per altro non sarebbe
mancato un opportuno drappeggio al punto giusto. L’infermiera Periwinkle (che
non è poi una giovinetta: nella discussione iniziale con la famiglia dichiarava
di aver già alle spalle dieci anni di insegnamento) affronta la situazione
senza fare storie. Sono alcuni dei suoi pazienti più rudi che a vedersi
accuditi da una signorina arrossiscono “come delle ragazzette timide”.
Particolare spicco acquistano certe figure di feriti gravi, come
l’ammirevole fabbro della Virginia, di statura tanto alta che il suo letto deve
essere allungato. È uno scapolo trentenne, con madre, fratello minore e sorella
a carico, al quale l’indaffarata Tribulation è incaricata di annunciare
l’imminenza della fine. Di nuovo lei si farà sua amanuense per scrivere alla
famiglia l’ultima lettera, con la speranza che la risposta arrivi in tempo
utile per confortarlo. E ciò in effetti avviene, ma per un disguido la missiva
viene consegnata la mattina dopo e potrà esser posta tra le sue mani solo nella
bara. Tipica situazione strappalacrime da romanzo ottocentesco, d’accordo, però
genuina ed efficace.
Dal punto di vista di un’infermiera, nel variegato mondo ospedaliero sono
visti con simpatia i feriti e convalescenti irlandesi, minoranza spesso
guardata con sospetto negli Stati Uniti di allora in quanto papisti, poveri e
considerati pigri e chiacchieroni. È uno di loro che accanto al letto di un
morente si inginocchia a recitare il rosario “con fervore tipicamente cattolico
a beneficio dell’anima del fratello protestante che ci stava lasciando”. Da cui
l’asciutto commento del ferito del letto accanto: “Se dopo aver preso tanti
colpi bassi ci lasciano morire col solo conforto delle preghiere di un
irlandese, (come dire, il peggio del peggio) allora bisogna dire che a
Washington ci sono ben pochi cristiani”.
Destano una perspicace simpatia anche gli ex schiavi di colore: perspicace,
perché
Questo potrebbe portarci direttamente ai due racconti che completano il
volume, incentrati entrambi, in modo diverso, sui problemi della convivenza di
razze d’origine disparata, anche quando la schiavitù abbia preso fine per un
editto governativo o sia stata elusa in anticipo grazie a circostanze
fortunate. Prima però vorrei concludere il discorso sui Bozzetti d’ospedale in questa edizione italiana, rallegrandomi che
la curatrice Sara Antonelli non si sia limitata a tradurli, ma li abbia pure
corredati di un’introduzione e di note puntuali e attente. Soprattutto le note
sono puntelli indispensabili alla comprensione del testo, non solo per quanto
riguarda i fatti e i personaggi della guerra di Secessione, ma per le frequenti
citazioni, siano esse dickensiane o derivate da Shakespeare o dall’amatissimo Pilgrim’s Progress, oppure parte del
retroterra di poesiole infantili quasi sempre anonime (le Nursery Rhymes), fondamentale a quel tempo per gli inglesi e gli
americani anglofoni. Un lavoro davvero ben fatto.
Devo invece prendermela con il redattore del risvolto di copertina,
fuorviante in quanto impreciso. Ed è grave che l’imprecisione investa proprio Little Women, le celeberrime Piccole donne, il libro che tutti
crediamo di conoscere a memoria. Bastano a dimostrare che questo non è vero le
righe del risvolto in cui si dice che sarà la tragedia della guerra civile “a
motivare non solo il ferimento del padre delle quattro ragazze, ma soprattutto
il patriottico taglio di capelli della nostra eroina preferita, Jo March”. Ma
quando mai! Il padre delle March non viene ferito, semplicemente si ammala,
come annunciato dal telegramma da un ospedale di Washington che fornisce il
titolo al quindicesimo capitolo del romanzo. E il taglio di capelli di Jo è
dovuto a motivazioni prettamente familiari. I venticinque dollari che la ragazza
guadagna vendendo la propria folta capigliatura, utilizzabile per i posticci
molto usati nelle acconciature dell’epoca, contribuiranno all’acquisto di
qualche genere di conforto per il malato e, non appena sia possibile, al suo
ritorno a casa.
Giungo, non per la prima volta, alla malinconica conclusione che pochi
leggano davvero Piccole donne. In
genere ci si limita a credere di averlo letto, chissà quando, e di conoscerlo
fino alla noia. Ma veniamo adesso al primo dei due racconti che completano il
volume, quello intitolato Il mio
contrabbando, o i due fratelli. Non è, apprendiamo dalla prefazione, il
primo in ordine di tempo. Era stato pubblicato su “The Atlantic Monthly” nel
novembre 1863; quello che lo segue nel nostro volume, intitolato misteriosamente
M.L., aveva preceduto la
pubblicazione dell’altro di qualche mese, ma fu scritto addirittura tre anni
prima dello scoppio della guerra. Gli editori, come vedremo, avevano le loro
buone ragioni di mostrarsi renitenti alla diffusione di un racconto che poteva
dar scandalo. Ad ogni modo, seguirò l’ordine dei Racconti d’amore e di guerra così come compaiono nel volume,
occupandomi adesso del Mio contrabbando.
Tra l’altro, esso trova la sua collocazione giusta in appendice a Hospital Sketches, in quanto si lega
ancora all’esperienza ospedaliera dell’autrice, benché la trama sia
d’invenzione.
Figura infatti redatto da un’infermiera incaricata di dedicarsi in
esclusiva, fino alla guarigione o alla morte, a un giovane ufficiale “ribelle”,
cioè sudista, in pessime condizioni. Dato che le febbri di cui soffre sono
contagiose, i contatti con gli altri reparti dell’ospedale e col mondo esterno
vengono mantenuti da un “aiutante” mulatto, o per essere precisi nero per un
quarto, l’ex schiavo ovvero “contrabbando” del testo. Uno schiavo negli Stati
del Sud era un oggetto; fuggendo o comunque acquistando la libertà senza che
essa gli venisse concessa dal padrone contrabbandava se stesso a danno di lui,
da cui il nome. Questo, benché ormai convalescente, aveva ricevuto in battaglia
una sciabolata sulla testa e la cicatrice della ferita gli deturpava metà viso,
che per l’altra metà –osserva l’attenta infermiera Dane – era bello come una
medaglia classica.
A me sembra, più semplicemente, che il tema trattato sia quello, molto caro
al romanzo d’appendice e al teatro popolare, dei fratelli nemici, che possono
perfino rischiare di uccidersi l’un l’altro (il sottotitolo i due fratelli è un indizio di cui tener
conto). Il sanguemisto Bob, che l’infermiera Dane sceglie di chiamare Robert
per restituirgli la dignità di adulto libero, è infatti, come tanti altri,
figlio del suo ex padrone; e in seguito si viene a sapere che il giovane bianco
divorato dalla febbre è il suo fratello minore. La pratica molto frequente tra
i padroni bianchi di scegliersi una o più concubine tra le schiave mulatte dava
un colore di autenticità e novità a questa antica convenzione narrativa.
Quel fratello minore favorito dalla fortuna, in quanto nato dal legittimo
matrimonio del padre-padrone con una bianca di buona famiglia, è molto meno
prestante e dignitoso del sanguemisto; per di più è cattivo e prepotente. In
passato, valendosi del suo potere di proprietario, si era impadronito a forza
della giovane moglie molto amata dell’altro, la quale, disperata, si era uccisa.
L’ex schiavo lo viene a sapere con certezza solo dalle divagazioni deliranti
del febbricitante e da quel momento opera in modo di averlo alla sua mercè,
perché è deciso a ucciderlo, in barba alla sorveglianza dell’infermiera.
Questa, con uno sforzo d’eloquenza moralistico ma assai convincente, riesce a
dissuaderlo facendogli balenare la speranza che l’amata Lucy sia ancora in vita
e possa costruire con lui un futuro felice.
Sarebbe un finale edificante ma narrativamente deludente, se fosse un
finale. Invece, essendo il bianco guarito e tornato sotto le armi nell’esercito
sudista, l’altro arruolato in un reggimento di colore di quello nordista sotto
il cognome dell’infermiera Dane assunto per gratitudine, la storia raggiunge il
suo culmine con l’ultimo scontro in battaglia dei due.
“È stata una cosa strana,” riferisce un testimone “perché sembrava
conoscesse il tizio che poi l’ha ucciso e che quello conoscesse lui. Non ho
voluto chiedere, ma credo che in passato uno fosse il padrone dell’altro,
perché nel corpo a corpo il tizio ha gridato ‘Bob!’ e Dane ‘Padrone Ned!’, e
poi sono andati avanti.”
Un conflitto armato sul campo di battaglia rende accettabile la furia
omicida che un’autrice dotata di senso morale non avrebbe consentito in una
camera d’ospedale: e infatti lì
La guerra è guerra e a nessuno verrebbe in mente di piangere sul sangue
versato. Si ammetterà, ad ogni modo, che pagine simili, da parte di un’autrice
che pochi anni dopo si specializzò in romanzi per la fanciullezza, sono per lo
meno inaspettate.
Una storia tesa, drammatica e priva di lungaggini o sbavature, tanto da
essere considerata, dice la nostra prefazione, una delle vette della produzione
alcottiana. Mi piace molto meno l’altra, M.L.,
o il ritorno del represso, della quale fin dalle pagine iniziali mi ha
infastidito lo stile pretenzioso, coscientemente “elevato”. Forse
Qui Claudia, la protagonista, è una giovane donna ricca e indipendente,
un’ereditiera che vive sola, a parte la servitù e la compagnia non
disinteressata di un’amica vedova e meno largamente provvista di beni di fortuna.
Il livello delle citazioni, indispensabili allora in ogni narrazione di qualche
pretesa, è alto, ciò che non dovrebbe sorprendere da parte di un’autrice
cresciuta in un ambiente intellettuale quale quello di Concord, la città della
sua fanciullezza. Per esempio, si accenna, correttamente, a O mio Fernando, in italiano nel testo,
come a un’aria per voce femminile (dalla Favorita
di Donizetti, aggiungo io); e Dante è ricordato, con una frase alquanto
contorta, come il genio che riuscì “a trasformare una corona di spine in una
corona di rose per la donna amata”.
La storia narrata in questo stile elaborato è in sé abbastanza semplice. Il
Paul Frere di cui Claudia si innamora è un cantante povero dalla splendida voce
e di bell’aspetto latino; senonché l’amica interessata e maligna scopre
trattarsi di un sanguemisto ed ex schiavo. Le lettere M.L., già incise nel suo
palmo e cancellate da lui con una bruciatura volontaria, sono le iniziali del
nome del suo padrone di un tempo. La madre era stata una bellissima donna con
un quarto di sangue nero, il padre un piantatore cubani, per cui Paul può
sostenere: “Mio padre mi aveva trasmesso la fierezza” (come se fosse possibile
spartire con tanta sicurezza gli apporti ereditari).
Ad ogni modo, per quanto fiero e nobile d’animo sia Paul, basterebbe quella
piccola proporzione di sangue nero, un ottavo appena, a esporlo al disprezzo
del mondo. Niente paura: Claudia lo sposa lo stesso e vivranno felici e
contenti con la loro bella figliolanza. Un lieto fine che all’epoca poteva
sembrare audace: e infatti, come abbiamo visto, anche nel Nord ufficialmente
antirazzista il racconto incontrò parecchie resistenze prima di arrivare alla
pubblicazione.
Oggi l’audacia in letteratura è diventata di per sé un titolo di merito;
ciò non toglie che questo racconto continui a sembrami molto inferiore a Il mio contrabbando. Dato però che in
qualche modo rientra nel medesimo discorso, capisco che non si poteva fare a
meno di includerlo.
Concludo specificando che, come si sarà capito, nessuno dei tre scritti che
compongono questo volume era destinato a un pubblico giovanissimo. In
particolare i racconti, se non fecero scandalo, risultarono per lo meno
controversi e, a certi lettori, spiacevoli. Ma l’occasione di vederli
pubblicati in italiano è troppo importante per non celebrarla anche in questa
sede.
Fu Fernando Tempesti, molti anni fa, a parlarmi di questa autrice come
della ‘grande’ Alcott. Nemmeno io mi sentirei di sostenere che fosse una grande
scrittrice: ma grande per la fama, per la mole di lavoro smaltita in una vita
non lunghissima e per la ‘tenuta’ quasi perpetua di quasi tutti i suoi scritti,
questo assolutamente sì.
(“LG
Argomenti”, n. 1, gennaio-marzo
2009)