Maurizio Cabona

Blade Runner 2049

Ci sono film che nascono male e crescono bene. Tra questi non si spegne l’eco di Blade Runner di Ridley Scott (1982), dal racconto di Philip K. Dick, che impiegò anni per passare dalle pagine al grande schermo. Eppure, morendo mesi prima che il film uscisse negli Stati Uniti, Dick non ha potuto vederlo. E non è stato l’unico problema: attori e tecnici detestarono Ridley Scott, regista inglese, che si era imposto nel 1977 al Festival di Cannes (Un Certain regard) con I duellanti.  Se Harrison Ford si è pentito di aver detto ciò che pensava di Scott (ma solo davanti al successo europeo del film, che era stato un fiasco negli Stati Uniti), Rutger Hauer sottolinea che il monologo finale del biondo replicante («Ho viste cose che voi umani non potreste immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. Tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia. È tempo... di morire») è solo merito suo.

Si riformerà questa aura nostalgica dopo trentacinque anni – tanti ci separano dal 1982 – attorno al séguito di Blade Runner, ovvero Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, canadese, che in Italia uscirà domani? Il nuovo film manca del personaggio di Rutger Hauer e si sente. Ryan Gosling interpreta l’agente K, sicario - come il personaggio di Harrison Ford nell’archetipo della serie – con licenza di uccidere i “replicanti”, androidi con mansioni di schiavi assegnati alle colonie spaziali. L’evasione di quattro replicanti - che percorreva Blade Runner – è sostituita come trama in Blade Runner 2049 dall’acquisita fertilità di alcuni replicanti di nuovo modello. Quindi in primo piano c’è la questione delle origini: ogni replicante, “creato” adulto e con pochi anni di esistenza davanti, avverte che il non aver un passato gli inibisce un futuro.

In assenza di un Rutger Hauer sullo schermo e in presenza, in platea, di un pubblico medio ben più giovane rispetto a quello che andava al cinema nel 1982, lo sceneggiatore di Blade Runner 2049, Hampton Fancher (lo stesso di Blade Runner), è quindi più conciso. Ecco alcune affermazioni tra quelle cruciali di un film molto complesso (meglio prendere appunti ed entrare in sala al corrente della trama del film di Ridley Scott, se non ci si vuole perdere nelle quasi tre ore di proiezione). Dice il tenente Joshi (Robin Wright in versione “M” di Judi Dench negli ultimi film di 007): "C'è un ordine nelle cose. Questo facciamo qui: manteniamo l'ordine!". E anche: "Il mondo è fondato su un muro, che separa le specie. Dì a entrambi i lati che non c'è il muro e la guerra è certa". Dice Joi (Ana de Armas), all'agente K: "Sei speciale. La tua storia non è finita, manca ancora una pagina". Constata Niander Wallace (Jared Leto), ovvero l’ideatore dei replicanti di ultimo modello: "Ogni progresso della civiltà è nato sulle spalle degli schiavi. I replicanti sono il futuro, ma non posso crearne di più". Ogni riferimento a migrazioni dal sud al nord del mondo “è puramente casuale”, come si usa scrivere con ironia quando si vuole sottolineate che si parla del passato – ma qui del futuro – per raccontare il presente…

Un lessico non politicamente corretto, anzi, brutale, marxiano [ma non marxista], perché attento ai rapporti sociali di produzione. E i replicanti sono un prodotto, infatti vengono “ritirati” (ovvero uccisi) quando il mercato chiede altro. In sostanza, nella Los Angeles notturna - ora piovosa, ora nebbiosa - di questo film tutto si vede – miscuglio razziale, etnico, linguistico, squallore, sfruttamento – tranne la speranza. Qui nessuno ha famiglia, nessuno ama e nessuno odia: ci si uccide l’un l’altro per sopravvivere. Per Hobbes gli Stati sono “mostri freddi”: qui ne abbiamo una rappresentazione.

Quanto alla società, non è multiculturale, ma solo multietnica, un incubo ad aria condizionata, come Henry Miller descriveva la California di un secolo prima del 2049. Il sicario di Ryan Gosling – grande attore a differenza di Harrison Ford – evoca il sicario, sempre di Stato, di Apocalypse Now. Infatti l’agente K non fa giustizia, cerca solo se stesso e spera di scoprirsi umano e non androide, come le sue vittime. A percorrerlo è l’angoscia tipica dei paesi d’immigrazione, dove il timore di avere un antenato schiavo e di colore non è finita solo perché i media odierni sostengono che le origini non contano più, mentre contano eccome. In ciò sia Blade Runner, sia Blade Runner 2049, confermano nella finzione ciò che nella realtà è ormai quasi indicibile.

“la Verità”, 4 ottobre 2017