Jean Montalbano

Ayler Ayler Alalà

    Il passare degli anni pare aver infine setacciato, nel gruppo degli arrabbiati free, la musica scomoda, con le opposte spinte che la travagliano, del sassofonista Albert Ayler (Cleveland, 1936 – New York, 1970) ritagliandole un destino esorbitante la sola febbre dell’impegno su  cui parvero appiattiti altri suoi colleghi e fratelli.

Se è vero che una generazione russa massacrò negli anni venti i suoi poeti, non è del tutto azzardato sostenere, come fa qualcuno, che quarant’anni dopo identica sorte, in più breve spazio, fu riservata ai musicisti neri.

A forza di bizzarrie e stranezze (che hanno reso la storia del jazz affollata di “geni” e mattoidi) molte produzioni del periodo scivolarono poi, fuori dall’equivoco, tra gli scarti e le scorie di leggende ben altrimenti trionfali e legittimate, in attesa di quei curiosi che periodicamente frugano nel cestino per recuperare e salvare quanto era declassato al rango di errore e virus.

In quella che molti allora videro come una competizione tra sgraziati urlatori intenti a straziare, come gatti randagi in una impasse, le regole del gioco be bop, la new thing ayleriana, infiltrata o cooptata in certi momenti dal programma “militarizzato” black power, in altri, in peggio, dall’ hippysmo circostante, si trovò comunque a condivere, per un buon tratto del percorso alimentandosene, una voglia di radicalità ed eccezionalità cui l’odierno mondo sonoro, scettico verso verità che arrivino marciando, sembra accedere solo nel ricordo.

Raccolte le lezioni di L. Young e S. Rollins, incrociata la rotta di C. Taylor, nel trio del 1964 con Murray e Peacock  già si delineava il profilo sfuggente e dispettoso di un piccolo maestro (che pochi anni dopo avrebbe commemorato, con O. Coleman, la dipartita di J. Coltrane) con i suoi tempi maltrattati, stirati e riplasmati fino ad accogliere bulimicamente inni e ritmi di marcia, fagocitando le molte avventure dell’anima nera. Mentre altri facevano musica (e politica) Ayler profetizzava in musica e dunque la sua opera ritorna, al di là dei ripescaggi, come annuncio che ci riguarda; il tempo poteva essere anticipato perché ricordava e giocava col greve dettato liturgico, fino alla rivelatoria “sparata” trinitaria (Ayler Spirito Santo, dopo Coltrane, il Padre, e Sanders, il Figlio) e mai le fanfare angeliche avrebbero cancellato la gravità terrena, che in quanto retaggio, oltre il beat frantumato, tornava nelle riprese improvvisative memori di sfide new-orleansiane.

Smorzati i proclami schierati che irrigidirono altri percorsi nello stereotipo del musicista nero ribelle, spiantato e affamato, oggi se ne possono sottolineare quei tratti tremolanti e indecisi (vedi la grazia trascurata del provetto golfista o, cosa che tanto colpiva R. Rudd, quei completi in pelle verde, very smart dopo i calzoni corti portati fino a sedici anni) ma sì, la vena eccentrica, il mix di audacia ed ingenuità anche nella confidenza con Dio, che già furono cultura afro-americana e che avremmo riscoperto successivamente nelle pose e parate di predicatori, magnaccia e truffatori  blaxploitation o nelle gesta dei vistosi gangsta-rappers, molto tempo dopo le immaginarie mappe di Ralph Ellison o Chester Himes.

Invisibile, per la verità, Ayler non lo è mai stato: fantasma inafferrabile della new thing, spirito a colloquio con i trapassati della sua storia o figlio della luce investito del dono delle molte lingue, stava nella logica delle cose che l’etichetta americana Revenant ( già responsabile dell’enciclopedico box su Charley Patton ) ne esaltasse il lascito calcando, in linea con l’indirizzo generale delle sue pubblicazioni, sul pedale spirituale o comunque roots oriented: la raccolta Holy Ghost (2004) in sette compact pieni di musica perlopiù inedita (dal 1962 al 1970, dagli standards sformati alle invocazioni contratte e disperate della corta maturità) e due compact di interviste, oltre che un libro di saggi, eleva un monumento sul punto di trasformarsi in altare, il cui tabernacolo in forza di tale imponente corpus sonoro non rischia più di suonare vuoto.

A resurrezione avvenuta, e sempre in fuga, rilevato e registrato solo attraverso miti e narrazioni più o meno apocrifi, il soffio innovatore di Ayler tende a eludere le esegesi (qui ci provano A. Baraka, V. Wilmer e D. Caux, tra gli altri) che non ne mimino le figurazioni incostanti.

Ma nel 1970, quando ne venne ripescato il corpo annegato, il martirologio nero non era stanco di tributi e sazio di conferme, tanto che l’oscuro transito ayleriano facilitò l’innesco vittimistico delle memorie votive. Ancora negli anni novanta, in quella Francia che ne aveva ospitato le ultime gesta alla Fondation Maeght, usciva nella “noire” gallimardiana l’antologia Les treize morts d’Albert Ayler in cui Izzo, Pouy, Charyn e compagni eseguivano variazioni “cospirative” su quella morte (quasi certamente cercata) mai interamente digerita da una consistente fetta di paranoici affezionati alla causa del movement tutto e solo schierato. Dieci anni prima John Lurie si era trovato a musicare il balletto Resurrection of A. Ayler (1986) ed ancora oggi il suo nome ricorre sotto diverse penne poetiche, dopo che il testimone propriamente (strettamente) musicale parve esser raccolto dal giovane D. Murray.

Dentro e fuori l’orbita del free jazz, intento a intercettare i flussi di un’epoca conflittuale ma travolgente nell’ostinarsi a suonare (da) Dio, di molti suoi pezzi Ayler avrebbe potuto dire, come l’eroe cortazariano: “questo l’ho suonato domani”.                      

Il suo affacciarsi laterale nel “romanzo” New Thing (Einaudi 2004) di Wu Ming 1 era perciò preventivabile anche se la sua voce, una delle tante invocate, è qui comprensibilmente sovrastata dai detti e fatti di un coro di testimonianze in cui giganteggia la figura di Stokely Carmichael. Ora sono tutti fantasmi e demoni, non solo Coltrane, e, invocatili, case e  clubs (vedi lo Slug’s Saloon, di cui nel box ayleriano si riproduce una reliquia) ne accolgono i gesti ossessivi.

Evocando l’epoca, Wu Ming 1 registra il controcanto, plurilingue ma cupo, alla “summer of love” con l’amara consapevolezza delle occasioni non colte e affollando di referti lo spazio distante scavato dalla ribollente materia. Ogni teoria cospirativa appena deferentemente citata è subito virgolettata, il montaggio dell’inchiesta mette la sordina al grido esplicito; disabusato, il senno di poi non si incanta davanti all’ininterrotta teoria delle rivolte. È come se il peso documentario impedisse, anche quarant’anni dopo, d’immaginare e perseguire fino in fondo, con felice divagare, la ricchezza delle trame sciolte dalla zavorra del rimorso di ciò che non è stato.

Come Ayler venne dopo Parker, Wu Ming 1 presuppone Cortazar, ma tallonando il formicolare dei ghetti si nega ogni volo o delirio matematico (che pure è nelle sue corde) per non tradire, nell’unica ossessione poeiana, le molte lingue possibili di un testo vociante.