Jean Montalbano
Avraamov plays Baku / Russo(lo)fonie
Fu anche grazie all’ignoranza o al ritardo con cui si seppe quanto avvenne nelle avanguardie sovietiche che, nel nostro occidente, molte carriere furono agevolate e numerose firme usurparono indebite autorità. Più si conoscono gli exploits di quegli anni eroici, meno saldi e incrollabili appaiono certi inventori “occidentali”. Il demone della prospettiva o il senso storico aprono botole di precedenti e premesse sotto azioni e gesti altrimenti creduti fondativi ed inaugurali, nomi fino a poco fa ignoti mettono in ombra proclami e certezze che la pigrizia consolidava. Un pizzico di disinganno giunge a proiettare un imbarazzo retrospettivo sui facili entusiasmi che salutavano magari un pianoforte incendiato da qualche attardato seguace di Fluxus.
Prendiamo il caso di Arsenij Avraamov (1886-1944): intorno a lui l’etichetta ReR Megacorp ha allestito un box di due cd con libretto (Baku:Symphony of sirens. Sound Experiments in the Russian Avant Garde) volto ad esaltarne il ruolo dirompente pur all’interno di un movimento ricchissimo di innovatori ed agitatori quale quello “russo” dei primi decenni del novecento. Per cercare di disegnare un territorio tanto fecondo di innovazioni da richiamare quasi necessariamente l’idea di dissipazione (così allargando a tutte le arti l’idea di “spreco” pensata da Jakobson per i suoi amici poeti) si è fatto ricorso, oltre che alla Sinfonia di sirene di Avraamov, alle testimonianze (tra le tante di ego- o psico-futuristi sparsi) di Malevič, El Lissizky, Burliuk, Charms, Majakovskij, Chlebnikov, Vertov, Mossolov; alcune voci, tipo Achmatova o Pasternak, sembrano invece fuori contesto, essendosi distanziate, già in tempo reale, da quel “caos scapigliato”.
M. Molina Alarcòn e gli altri curatori hanno tentato di strappare quella “carta” al suo passato reticente, ricreando una memoria sonora che ne imitasse, magari pallidamente, l’imprendibile fervore. Potrà parere che, rianimando tracce e interrogando indizi, orchestrino un “falso” ma di questo li si perdona: seguendo indicazioni e appunti lasciati da Avraamov per ciò che riguarda entrate e durate degli elementi sonori coinvolti, utilizzando vecchie registrazioni o strumenti vicini alle sonorità d’epoca hanno voluto ricostruire un affresco sinfonico per sempre perso tra i moli, le strade, le piazze e i cieli di Baku. È stato, per rimanere in tema, come ripristinare i gesti e le figure mancanti a partire dai vuoti delle foto “ritoccate” dalla storia ufficiale stalinista. In quell’epoca di autentica ricostruzione dell’universo, dove anche gli spiriti più scettici operavano, consapevoli o no, in vista della “causa comune” di N. F. Fedorov (erano proprio gli anni in cui si ampliava il numero dei suoi lettori) una creatività a perdere ribolliva e circolava, mettendo in rete mille nomi, con la rapidità dei circuiti elettrici o delle onde radio. E se dall’emulazione ci si attendevano nuove rivelazioni è perché nessuno pretendeva di avere un monopolio dello spirito rivoluzionario nell’arte, gli scambi originando una fecondazione trasversale che portò la cultura russa al culmine di una “curva ascendente nella civiltà europea” (Isaiah Berlin).
Il mondo uscito sfinito dalla Grande Guerra poteva riprendere a correre solo mirando, magari con occhiali mistici, all’elemento rivitalizzante associato ormai al mondo delle macchine.
Nuovi orecchi richiedevano nuove e più ampie “emozioni acustiche” uscendo dal cerchio ristretto dei suoni consueti e dalle sale da concerto “ospedali di suoni anemici”. Convinto, come L. Russolo, che “l’audacia abbia tutti i diritti e tutte le possibilità” anche Avraamov volle tradurne in azione i propositi: intendeva cioè, facendo a meno dell’orchestra della Grande Battaglia, farsi regolatore di svariatissimi rumori. Nel ruolo di Tonmeister, voltate le spalle alla noia del suono sfinito, del già detto, Avraamov avrebbe guardato all’inatteso del rumore senza farsene sorprendere, calcolandone l’insospettata voluttà. Impossibilitato a recuperare l’idillio della natura, l’amor fati gli comandava di abbracciare motori e macchine intonandoli nell’inebriante orchestra di rumori cittadini, unica risorsa per recuperare forza, energia, irruenza ed elementarietà del “naturale”.
“Il bruitisme è la vita stessa” avrebbe detto R. Huelsenbeck ed il compito era già stato così sintetizzato dal nostro Pratella: “Dare l’anima musicale delle folle, dei grandi cantieri industriali, dei treni, dei transatlantici, delle corazzate, degli automobili e degli aeroplani”. Sappiamo come andarono le cose dalle nostre parti, ma in terra sovietica ci fu davvero un momento in cui si pensò di poter allestire “il grande Teatro aereo futurista”, gratuito per tutti.
Quando Prezzolini nel 1923 sentenziò: da noi resta progetto ciò che in Russia diventa effetto e fatto, misurò amaramente le distanze tra i propositi velleitari e i gloriosi fallimenti. Avraamov fu proprio tra chi immaginò che “la musica regnerà sul mondo” (F. T. Marinetti); mentre la scelta igienica di disertare allo scoppio della prima guerra mondiale, oltre che rendercelo simpatico, lo accomuna più ai frequentatori di cabaret svizzeri che ai battaglioni ciclistici dei nostri futuristi cui pure sarà accostato per le successive imprese (fino a vedersi assegnato il titolo, non sappiamo quanto ambito fuori dal confine francese, di “precursore della musica concreta”). Il suo lavoro parve concentrarsi, negli anni immediatamente successivi al 1917, sull’acustica topografica per cui suggerì la costruzione di sistemi elettro-acustici da installare su aerei con cui bombardare ampie porzioni di territorio: nuove musiche per nuovi contesti urbani. Commissario alle arti, egli aveva già alle spalle accesi dibattiti sul microtonalismo e sull’eredità del tardo stile scriabiniano allorché, inascoltato, propose a Lunačarskij la confisca e demolizione di tutti i pianoforti al fine di liberare i tasti dall’usurato e secolare corpetto cromatico, superando d’un sol gesto dissolvimenti schönberghiani, microtonalismi di Hàba, accordi mistici ed emancipazioni della dissonanza proclamate nei tanti manifesti dell’epoca. Se per Savinio (pur sempre imbevuto di metrica classica) gli strumenti classici, con l’eccezione del piano, erano “nobili decaduti”, in terra sovietica Avraamov ed amici, con piglio da tabula rasa, non intendevano far prigionieri, imboccando tutti i sentieri, anche i più disperatamente utopici, pur di sfrangiare la tela secolare del sistema temperato.
Comune il proposito di stringere la totalità della vita dopo aver sventrato la tastiera del piano immaginando di cogliere l’urlo primigenio nello sfregamento di qualche intonarumori ancora da scoprire perché soltanto nel rumore forza, gioventù e impeto davano segni vitali. Era tutto un seguire l’auspicio di N. Kul’bin sulla “musica libera”, dall’armonia assoluta di N. Obuhov alle dissonanze e ai quarti di tono di Matjušin per la Vittoria sul sole. La voce d’acciaio del proletariato (fabbrica+macchina) allargava crepe nei pentagrammi, mentre K. Melnikov organizzava concerti di suoni naturali e D. Vertov elaborava i suoi fonogrammi. Intanto il nomade e inoperoso Chlebnikov vedeva ragnatele che avvolgevano il mondo nella Radio del Futuro. Ai problemi sociali della musica bisognava rispondere con l’impegno attivo di ampie masse nella creazione musicale e con la modernizzazione dell’invecchiato materiale tecnologico (superamento della natura cameristica della musica, fischi e sirene comandate dal vapore per intonare ed armonizzare melodie da eseguire al culmine dell’azione, elettrificazione di strumenti). La rivoluzione sociale nell’ambiente musicale urbano, anche grazie alla cooperazione della radio, avrebbe visto sorgere illimitati mattini che cantano.
Parte attiva di questa mobilitazione
totale, Avraamov affermò di essere stato spinto a preparare la “Sinfonia di
sirene industriali” dal desiderio di dar concretezza alle visioni poetiche di
Gastev e Majakovskij: sul pentagramma delle strade il ricco strepitare della
città moderna, in primis quello delle sirene d’officina più vicino al cuore
proletario, avrebbe sovrastato infine le retrograde campane della vecchia
cultura. Mentre per le strade correvano orchestre volanti e “motorizzate”, le
sinfonie avraamoviane per i cieli di Baku e Mosca avrebbero annunciato le
incursioni walkyriane del Coppola apocalittico o l’Helikopter-Quartett di
Stockhausen (depurato di numerologie).
Il 7 novembre 1922, quinto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, a Baku, sul Caspio, si tenne la prima riuscita esecuzione; l’anno seguente su invito del Proletkult a Mosca, la terza Roma, si ripetè l’evento, con minor successo, causa le maggiori distanze tra i gruppi di partecipanti. Prima ancora c’erano stati i tentativi di Nižnij Novgorod e Rostov. Il Mito da ricreare, il Sacre da celebrare, era la presa del Palazzo d’Inverno a S. Pietroburgo. Ogni cosa doveva ricordare, riattualizzandolo, il felice caos dei mille suoni provenienti da auto, camion, sirene, fucili e cannoni portati a confluire nella catarsi unificante dell’Internazionale. (Ma Šaliapin ricordò poi che “quella” sera le cannonate dell’Aurora non avevano distrurbato più di tanto l’esecuzione del suo Don Carlos). L’opera di Avraamov consisteva di “istruzioni” (come decenni dopo avvenne con Cage e discepoli) che ritmavano l’entrata dei differenti attori sonori (sirene da nebbia, fischi, aerei, artiglieria, reggimenti di fanteria, idroplani, locomotive) fino alla scansione culminante delle esecuzioni di noti canti rivoluzionari.
Dirigendo dall’alto di una torre appositamente costruita ed usando bandiere di diversi colori rivolte verso la flotta del Caspio, i treni, il cantiere navale, i mezzi pubblici e gli imponenti cori di lavoratori, Avraamov finalmente esemplificava, esaltandolo, l’alto potere di organizzazione sociale della musica, ricordandone gli effetti nel lavoro collettivo (dalla coltivazione-raccolta alla manovra militare) e deprecandone le tendenze disordinate ed anarcoidi dovute ad un capitalismo pasticcione e disorganizzato. Solo la paura di masse musicalmente organizzate ed inquadrate aveva spinto il capitale a privatizzare e rendere passivo il coinvolgimento musicale dell’operaio. Soltanto la Rivoluzione d’Ottobre dispiegava appieno, portandolo a compimento, lo spirito organizzatore e trascinante della musica (pericolosamente vicino alla condanna platonica) ponendosi in alternativa all’appello delle sirene mattutine che imbavagliavano le masse nella schiavitù del lavoro salariato.
E scegliendo di calcare gli aspetti squadrati e militareschi, meno dionisiaci e febbrili, il “teatro musicale” di Avraamov subì la parabola di altre contemporanee avventure totalizzanti; il mezzo passo falso di Mosca sapeva di sanzione storica e lo spinse a ripensare la fragilità di ogni performer/organizzatore a petto di chi, come Stalin, nutriva più ferrei propositi in tema di totalità artistica.
Pur sempre coinvolto nelle più estreme pratiche sonore, Avraamov ripiegò tatticamente all’Istituto Statale di Scienze Musicali dove partecipò, anche con E. Sholpo e B. Yankovsky, allo sviluppo delle tecniche di sonorizzazione di film che evitassero il ricorso a suoni “naturali”, parallelamente alla ripresa dell’elaborazione di un personale sistema ultracromatico. Il vecchio paesaggio musicale, minato dalle fondamenta, gli appariva irraggiungibile (se non come ricerca etnologica sul campo); erano pur sempre gli anni, tacendo i liutai, in cui si andava ai congressi di elettrotecnici per scoprire inediti strumenti. Avraamov fu proprio con l’amico Theremin, l’eroe più noto di quell’epoca, all’Esposizione Musicale Internazionale di Francoforte sui nuovi avanzamenti tecnologici in musica. Nei laboratori un mondo inaudito di suoni sintetici si spalancava tra i solchi di una puntina, mentre fuori lo stalinismo cominciava a prendersi sul serio candidandosi come sola autorizzata opera d’arte totale e lo zaum, il transmentale di Kručënych e Chlebnikov era sospettato di trasmettere criptici messaggi antisovietici.
Vista da quell’est è consegnata in un agreste rimpianto la Roma sonora fissata dal vegliardo B. Barilli nei suoi taccuini: dove le piazze si riempiono di un’armonia profonda e trasparente, i palazzi sono altrettanti “stradivari” ed i portoni bocche che vociano all’aperto. E se provi a sussurrare una parola contro il muro e poi ti affretti “puoi raccoglierla nell’orecchio cento metri più in là”; dove la musica gocciola dal travertino nella luce che vibra, l’acustica è lenta. Pure il colpo di cannone di mezzogiorno ha toni d’operetta tra i palchi dei sette colli. “Il cielo di Roma è una cassa armonica” che rimbomba nei giorni di feste aviatorie, altre volte l’idrovolante stride nel sereno come diamante sul vetro, ma anche quando un rumore compatto ne lacera l’atmosfera con inquieti loopings il ricavato è pur sempre un idillio: “l’aviatore s’abbassa ancora, vien giù a bella posta”, agita il braccio per salutare la fidanzata e la turbolenza scompiglia “la biancheria distesa sulle terrazze”. Questa Roma, adunate o no, è ancora “tutto un silenzio”.
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