Carlo Luigi Lagomarsino
maledetti atei
Quando James Watson se ne uscì dicendo che i negri sono grandi scopatori
ma stupidi, “Il Foglio” a un sì deprecabile concione aggiunse che
l’anziano premio Nobel per la medicina riteneva Dio “una gran stronzata”, come
a sottolineare il vizio morale che sarebbe tipico dei miscredenti i quali,
privi della fonte elargita dal signore dei cieli, di scrupoli etici non ne
avrebbero proprio. Il giornale diretto da Giuliano Ferrara si era da tempo
fatto la fama di raccogliere un cenacolo di forzati dell’intelligenza sposando
la causa dei neo-conservatori americani e dei loro più stretti parenti
denominati “teocon”, secondo i quali per ogni cosa buona avvenuta nella nostra
porzione del mondo si sarebbe dovuto render ossequio alla religione cristiana.
Le reazioni furono dapprima vaghe e timorose di riproporre un vecchio
armamentario ormai fuori moda. Ciò nondimeno, a un certo punto esse si
palesarono in un pugno di libri apertamente schierati in favore dell’ateismo.
Il fatto generò ogni sorta di attacco scomposto e di preferenza si tese mettere
in dubbio le stesse capacità professionali degli autori. Tale sorte toccò in
particolar modo al matematico Piergiorgio Odifreddi – autore di Perché non
possiamo essere cristiani (Longanesi). Con maggior prudenza – salvo il
consueto argomentare intorno ai guasti del darwinismo - si trattò la qualifica
di “biologo evolutivo” esibita da Richard Dawkins, sebbene il suo L’illusione
di Dio (Mondadori) fu forse il libro che irritò più di tutti. Quanto agli
altri, come Michel Onfray (Trattato di ateologia, Fazi) e Christopher
Hitchens (Dio non è grande, Einaudi), le loro professioni di filosofi o
giornalisti sembravano meno allarmanti e
così i loro libri, anche se non furono risparmiati dalle deplorazioni. Si poté
invece quasi ignorare del tutto il saggio del filosofo francese André
Comte-Sponville Lo spirito dell’ateismo (Ponte alle Grazie) che non
diceva cose granché diverse dagli altri, ma era di tono meno aggressivo e tale
probabilmente da non favorire una preoccupante diffusione.
Questi autori erano trattati come degli abusivi che si calavano fra le
pagine dei testi sacri facendo insinuazioni non soltanto sulle loro palesi
contraddizioni, ma anche su certi loro aspetti moralmente equivoci. Persino un
sacerdote di assai stimata levatura intellettuale come Monsignor Gianfranco
Ravasi, per giunta in fama di tollerante attenzione nei confronti dell’ateismo,
non esitò a definire questi libri (in
un’intervista a “Panorama”) “certi libercoli”, guardandosi bene dal fare
i nomi degli inverecondi autori. Per quanto Odifreddi avesse inziato il suo
studio ricordando che l’etimologia del termine “cretino” risaliva a
“cristiano”, gli autori dei “libercoli” non erano in fin dei conti interessati
a diminuire la storia del pensiero cristiano, bensì a ridimensionarne le
pretese. In un contesto di generale consenso nei confronti delle aspirazioni
liberali, succedeva ormai di sovente che si indicasse nel cristianesimo – in
particolare nella tradizione cattolica legata a Tommaso D’Acquino – il merito
di aver rivelato l’individuo, così da render possibili proprio quelle
aspirazioni. L’argomento ricordava, ma in maniera più subdola, quello caro ai
vecchi tempi dell’antropologia, quando si riteneva che avendo Aristotele
formalizzato la logica, i popoli privati di questa o analoga fortuna dovessero
essere chiamati “pre-logici”.
Sta di fatto che certi liberali di temperamento viscerale, formatisi
come “liberi pensatori” agnostici e antipapisti, ritrovarono nella propria genealogia (doverosamente, va
aggiunto) anche dei buoni cattolici come il vecchio Lord Acton. Nulla si seppe
di vere e proprie conversioni, ma l’atteggiamento fu di certo profondamente
cambiato. Eppure, per uno di quei fastidiosamente imprevedibili accidenti, gli
elementi di spicco della famosa scuola di economia decollata nella
cattolicissima Austria, cui era doveroso far riferimento, non erano
cattolicissimi, bensì ebrei come Mises e Hayek. Figlio di ebrei dell’est
europeo (ma con moglie questa sì cattolicissima) era anche il loro infaticabile
adepto americano Murray Newton Rothbard, il quale negli ultimi anni della vita si
spostò verso una sorta di cattolicismo puramente concettuale, non per questo
meno fondamentalista, che se creò imbarazzo fra i suoi discepoli libertari
suscitò pure e presto diversi e molto conformistici riallineamenti. Non guasta
a questo punto segnalare che in coda ai diversi libri di ateologia citati, ne
uscirono almeno due che rivendicavano per la nostra società un ruolo centrale
all’antico paganesimo, e guasta ancora meno segnalare “Il libero pensiero” (Elèuthera)
dello spagnolo Tomàs Ibaňez, alle prese con la “retorica della verità”. Quanto
ai due, quello di Luciano Pellicani, Le radici pagane dell'Europa
(Rubbettino), sosteneva giusto il contrario della vulgata “teocon”, affermando
che le aspirazioni liberali seguivano “la storia della progressiva emancipazione
della società dalla dittatura spirituale del cristianesimo e delle sue
istituzioni”. L’altro, Non avrai altro Dio (Il Mulino) dell’egittologo
Jan Assmann, riproponeva, al pari di Pellicani del resto, una vecchia tematica
cara ai radicali d’ogni tipo che nella nostra epoca trovava forti sostenitori
fra intellettuali diversi nella formazione come Alain de Benoist e James
Hillmann. Si sosteneva in poche parole che, a differenza del paganesimo
pluralista, il monoteismo avesse implicita una tentazione all’odio violento e all’assolutismo.