Wolf Bruno

L’arte cruda 6

Sul primo numero del 1927 de “i Libri del Giorno”, una rivista di Treves che dal 1918 andò avanti fino al 1954,  Guido Piovene, recensendo con scarso favore La Piramide di Aldo Palazzeschi, dopo aver affermato che lo scrittore “sfondava la solita porta aperta”, concludeva (deplorando) che su tutta una generazione fiorentina “è passata la teoria germanica dell’arte-gioco". Sul numero di maggio della stessa rivista, un letterato di allora, Mario Buzzichini – per qualche tempo direttore del Guerin Meschino”, classica testata italiana dell’umorismo – se la prendeva invece con un’antologia ridanciana di scrittori anglosassoni curata da Maurice Dekobra.

 Ancorché non si peritasse di citare i classici libri di Bergson e Pirandello – almeno quelli - Buzzichini  tentava di legare il discorso ai “caratteri” nazionali per cui gli americani (Mark Twain, figuriamoci!) sarebbero troppo affaccendati per riuscire a capire “lo spirito” dei francesi e questi probabilmente troppo arroganti per tenere nella giusta considerazione l’umorismo britannico. Che poi quest’ultimo lo attraesse, anzi lo conquistasse col “Punch”, non ne faceva mistero, tanto che le sue conclusioni, dopo vario ameno divagare, erano in sostanza le stesse di George Bernard Shaw, vale a dire che l’umorismo è indefinibile.

Se questo mistero - e tutti i tentativi per risolverlo - conta per la letteratura, a maggior ragione conta per le arti plastiche e visuali, costrette in un linguaggio che può essere sì penetrante ma anche arduo, con un'articolazione di simboli non sempre decifrabili che solo nel genere della caricatura appaiono con dichiarata evidenza. Come nella caricatura, del resto, l'estensione che si raggiunge plasticamente è limitata dal motto di spirito, "l'idea che annienta", come direbbe Jean Paul (doverosamente presente, benché riversato in Gianpaolo, com'era d'uso, nell'articolo di Buzzichini).

L'arte, in specie negli ultimi due secoli, non è stata avara in questo senso, vuoi per saturazione e insofferenza, vuoi per ispirazione, vuoi per mettersi in gioco in un contesto di esclusione. Umorismo, ironia, sarcasmo e tanto “gioco” - come nella “teoria germanica” evocata da Piovene con riferimento, suppongo, a Friedrich Schiller – hanno scortato nobili e meno nobili inclinazioni che vanno dalla soavità al risentimento. Spesso è proprio quest’ultimo a far da rinforzo, malgrado non sempre dia gli auspicati risultati. Può succedere inoltre che si scelga il motto di spirito perché lo si considera cinicamente uno spazio disponibile o vi si vedono poche alternative. Questo mi sembra essere ciò che è successo a tanta arte degli ultimi decenni (quella cosiddetta “maggiore”, regolamentata dalle gazzette e dalle gallerie “che contano”) con approdi tanto più lividi quanto più volevano essere gioiosamente provocatori.

Ma è bene che mi fermi. In fin dei conti mica so dove mi porterebbe questo impegnativo discorso. Se l’ho ahimé iniziato è solo, lo ammetto, per far bella figura: cose da vecchio provinciale vanitoso quale sono. A essere franco, era sufficiente il buon familiare incontro casuale di un ombrello e di un ferro da stiro sul tavolo anatomico per dire il dicibile e anche di più. Le viscere del surrealismo mi pare riescano ancora a far parlare gli aruspici, così sfacciatamente fatti passar di moda da nuovi e già logori culti. Se poi nel terzetto che mi spinse ai suddetti sforzi – di cui dirò fra poco - c’era chi si adoperava con la pittura e chi con gli assemblaggi, non ho nessuna intenzione di passare a ulteriori sfoggi, di cui non so bene se sarei capace. Malgrado la nota formula che il medium è il messaggio (ma pure il “massaggio”, vaticinava Mc Luhan) non vedo ragioni di approfondimento, a meno di non volere aggiungere agli incontri casuali anche una cipolla per piangere. Faccio notare che si tratterebbe in ogni caso di un pianto artificiale, per quanto sia noto che le lacrime giovino agli occhi (e si trattava per l'appunto di “guardare”).

Un alcunché di illustrativo sentivo tuttavia di doverglielo al disgraziato terzetto che si spinse coraggiosamente a cercare le mie maldestre attenzioni:

Il primo era l’unico dei tre ad avere una vera storia espositiva – si muoveva su tavoli differenti dialogando con l’arte e i suoi commentatori ora (nei lavori più antichi) adoperando allusioni “concettuali” ora sposando fragorosamente un  gusto “pompiermagico-realista che trasmetteva in modo assai strambo ciò che potrei definire un “rappel au desordre”.

Il secondo - attivo soprattutto in teatro – produceva  da quasi mezzo secolo degli oggetti (palesemente affini ai giocattoli) che illuminavano – almeno quanto sarebbero riusciti a fare altri e celebri molto più tardi – un fresco rapporto col gioco, il caso e il gusto: li conoscevano solo gli amici, non avendoli mai radunati in una mostra.

Infine, il terzo, adottava uno strumento classico (nonché “domenicale”) degli assemblaggi di “objets trouvés” (quello della raccolta di frammenti sulle spiagge) per ordinare ironicamente delle composizioni efficaci ed esteticamente ineccepibili. Anch’egli, per quanto provenisse da studi artistici, non aveva mai esposto pubblicamente i suoi lavori, salvo che in un’occasione piuttosto effimera (la quale, in ogni caso, aveva permesso a me, che pure lo conoscevo dagli anni giovanili, di prenderne per la prima volta visione).

Dove e come collocare i tre in fin dei conti non mi interessava. Penso non interessasse  nemmeno a loro. Ciò che li riguardava – e riguardava me che scrivo – era prima di tutto un rapporto d’amicizia. Dicendo questo, potrebbe sembrare che voglia prendere le distanze dai loro lavori, ma non è così. Nell’amicizia (come nell’amore) trova posto, è ovvio, anche la malinconia, ma è col gioco, con l’umorismo e con tutti gli arnesi “da bar” che l’amicizia esplode nel modo migliore. L’amicizia era ciò che in quella mostra avrebbe tenuto insieme lavori assai diversi fra loro e l’amicizia (ma sarebbe bastata quel poco di empatia in chi li osservava) favoriva  l’impressione che singolarmente volevano trasmettere di ironico. E proprio se quella mostra fosse riuscita a imprimere in chi la visitava, estraneo, quel senso “da bar” che è fatto di chiasso, risa, sfottò e superficialità, avrei pensato a un ottimo esito.

Quello che ho detto dei bar suonerà, temo, in larga misura anacronistico, soprattutto pensando a certi orientamenti minimalistici che allora avevano cominciato a riempire  i locali più di architettonica freddezza che di chiasso. Il gioco tuttavia era già da tempo finito col panino di mezzogiorno o l’aperitivo dei giovani professionisti urbani troppo urbani. Avevo solo da sperare, a questo punto,  che ai tre l’idea di un’estetica anacronistica non dispiacesse. Ma cos’è poi un’estetica anacronistica, idee fuori moda sul bello e sul brutto? Fosse così, e fossi stato in loro, mi sarei rallegrato. Fra le più vecchie idee estetiche (nulla di allusivo, per carità) c’è quella del mostruoso-sublime, ciò che li avrebbe esentati dall’obbligo del “bello” e, per proprietà transitive, da quello del “buono”. Ci sarebbe stato da tirare un sospiro di sollievo, ma quel che mi toccava, in fondo, era un compito assai ingrato i cui sbocchi, seguendo una certa logica, non avrebbero avuto nulla di rassicurante. Tanto è vero che il mio testo di presentazione, così amichevolmente disposto, fu non troppo amichevolmente rifiutato.

Tentare un'estetica dell'amicizia non è d'altra parte cosa facile in generale, quando probabilmente l'elemento meno problematico sarebbe l'omertà.  Nei fatti ci si espone a rischi quali la gelosia, casomai l'intenzione fosse quella di ripartire l’eventuale giudizio in modo difforme fra i vari soggetti  implicati. Rassicurante era comunque la mia intenzione di non voler tentare nulla del genere. Rimasi prudentemente sull’Arte e il gioco. Uffa, mi venne tuttavia da pensare, "il poeta si diverte", lo si sa da un pezzo, farafarafarafa, tarataratarata paraparaparapa laralaralarala! Arte e umorismo? Sì, ma se le barzellette fanno ridere per quanto sempre uguali a se  stesse,  parlarne finisce per non far ridere affatto. Dunque fu tutto inutile, e l'inutile fu facilmente ciò che di persuasivo – e me ne persuasi - rimase alla fine. Les jeux sont faits.