Giuseppe Zuccarino

Artaud in facsimile

La pubblicazione in Francia delle opere di Antonin Artaud si trova in una fase di transizione. La morte della curatrice delle Œuvres complètes, Paule Thévenin, ha posto fine alla lunga controversia legale tra gli eredi dello scrittore e la casa editrice Gallimard. Di certo, però, questo non porterà ad una ripresa dell’edizione rimasta interrotta (26 volumi, usciti fra il 1956 e il 1994). Considerando che il lavoro della Thévenin, per quanto meritorio, risultava discutibile sul piano filologico, c’è da augurarsi che venga messo al più presto in cantiere un nuovo piano di pubblicazione dei testi, inclusi quelli ancora inediti. La studiosa cui probabilmente verrà affidato questo impegno, Évelyne Grossman, si è limitata per adesso a iniziative parziali, come un’ampia antologia degli scritti dell’autore (le Œuvres apparse nel 2004) e la riproposta di alcuni libri in collane di tascabili. Ma è chiaro che il banco di prova delle sue intenzioni e capacità verrà offerto dal modo in cui riuscirà ad affrontare l’arduo problema dei cahiers artaudiani.

Di questi testi-limite sarà forse utile richiamare, almeno a grandi linee, la genesi. Nonostante i problemi fisici e mentali che lo hanno tormentato fin dall’età giovanile, Artaud è riuscito a sviluppare negli anni Venti e Trenta un’attività artistica estremamente ampia. Essa lo ha visto impegnato non solo come scrittore, per qualche tempo aderente al surrealismo, ma anche come attore cinematografico e teatrale (in quest’ultimo campo, è nota la sua importanza come teorico del «teatro della crudeltà»). A partire dal 1937, però, la sua situazione psichica ha subito un tracollo ed egli si è trovato ad essere rinchiuso in vari manicomi francesi. Le diagnosi parlavano di psicosi con stati allucinatori, manie di persecuzione, ossessioni religiose, ma fra i sintomi citavano anche la «graforrea». Artaud infatti, trovandosi ormai recluso e isolato dalla società, aveva reagito quasi subito adottando come valvola di sfogo la scrittura. Di tutte le lettere e annotazioni dei primi anni d’internamento restano però pochissime tracce. È solo dopo il trasferimento, nel 1943, all’ospedale psichiatrico di Rodez che egli ha potuto riprendere a realizzare con regolarità testi e disegni che sono stati conservati. La stesura dei quaderni, avviata nel febbraio 1945, è continuata con ritmo febbrile anche dopo l’uscita da Rodez ed è stata interrotta soltanto dalla morte di Artaud nel 1948. Il risultato di questo sforzo è sorprendente già sul piano quantitativo: i cahiers a tutt’oggi reperiti sono infatti 406 (ma si sa che ne esistono altri, in mano a collezionisti privati).

La difficoltà di pubblicare questi testi non dipende tanto dalla mole, quanto piuttosto da ciò che contengono. A prima vista, quello sviluppato dallo scrittore è una sorta di interminabile confronto col delirio: in un discorso che segue un suo ritmo, ma frantuma la sintassi della frase e si spinge fino alla glossolalia, Artaud torna con instancabile tenacia sui medesimi temi. Fra questi, possiamo ricordare ad esempio l’interpretazione in chiave personale oppure il rifiuto del cristianesimo, le azioni magiche compiute e soprattutto subite, la speranza nell’ausilio di immaginarie figure femminili, il sogno di una totale reinvenzione del corpo umano. Chi è chiamato a confrontarsi con questa specie di magma verbale, deve evitare almeno due pericoli: da un lato quello di considerare i testi come un documento di interesse meramente clinico, dall’altro quello di limitarsi a vedere in essi il serbatoio da cui sono state tratte le opere pubblicate nell’ultimo periodo di vita dell’autore o apparse postume (Artaud le Mômo, Ci-Gît précédé de La Culture Indienne, Van Gogh le suicidé de la société, Pour en finir avec le jugement de dieu, Suppôts et Suppliciations). La scrittura dei quaderni, benché possa apparire a prima vista caotica, rappresenta una forma estrema di letteratura, e il quasi insostenibile ritorno di temi e procedimenti che in essi si verifica evidenzia con efficacia quella coazione ossessiva che costituisce uno degli impulsi di fondo della pratica letteraria. Non è un caso, quindi, che l’ultimo dei cahiers termini con la formula «etc. etc.». Si tratta anzi di un modo per far capire che il movimento della parola dovrebbe continuare all’infinito e che, anche dopo migliaia di pagine, qualcosa (o forse la stessa cosa) resta sempre da dire.

L’edizione di questi scritti avviata dalla Thévenin consentiva di farsi un’idea abbastanza precisa del loro contenuto, ma non tentava neppure di «renderli visibili». Le loro caratteristiche fisiche, quali la strana distribuzione delle parole sul foglio, l’alternanza o sovrapposizione di annotazioni a matita e a penna, la presenza di disegni e così via, venivano segnalate nelle note, ma rimanevano precluse allo sguardo del lettore. Ora però che i quaderni, non più gelosamente custoditi dalla stessa Thévenin, sono divenuti accessibili agli studiosi presso la Bibliothèque nationale di Parigi, la situazione può forse cominciare a cambiare. Lo dimostrano altre due pubblicazioni curate dalla Grossman per Gallimard, edite rispettivamente nel 2004 e nel 2006.

La prima è una sorta di album, che ha per titolo 50 dessins pour assassiner la magie e contiene, fotografate a colori nelle dimensioni reali, pagine tratte da diversi quaderni. Nella parte iniziale troviamo la riproduzione, con parallela trascrizione a stampa, di un testo artaudiano del gennaio 1948. In esso l’autore fornisce un chiarimento sui propri disegni, richiestogli dal gallerista Pierre Loeb, che intendeva pubblicarne alcuni in un volumetto poi non realizzato. La scrittura non segue tradizionalmente le righe, ma viene disposta in modo libero sulla pagina, con frequentissimi «a capo». Il testo chiarisce che i disegni che compaiono nei quaderni non vogliono avere un valore artistico, ma «sono puramente / e semplicemente la / riproduzione sulla / carta / di un gesto / magico / che io ho esercitato / nello spazio vero». La magia che si tratta di assassinare non è infatti quella messa in atto dallo stesso Artaud, bensì quella di cui egli è vittima ad opera di spiriti ostili. La scrittura, il disegno e il gesto assumono dunque un valore apotropaico: è indicativo in tal senso che le pagine rechino i segni delle trafitture prodotte su di esse (sempre a scopo difensivo) da Artaud con la punta di un coltello. La seconda parte del volume presenta una scelta dei numerosi disegni a grafite che compaiono nelle pagine dei quaderni, scelta congetturale perché di fatto non si sa quali di essi sarebbero stati inseriti nell’ipotizzato libro. I disegni appaiono talvolta informi, ma non di rado vi si riconoscono volti, corpi, pali totemici, chiodi, scatole. È quasi sistematica la compresenza o compenetrazione, sui fogli, di parole e immagini, benché a queste ultime non venga assegnato il ruolo di illustrare il testo.

Ancor più impressionante ed efficace è l’altra pubblicazione cui si faceva riferimento, apparsa col titolo Cahier. Ivry, janvier 1948. Si tratta di un piccolo cofanetto che comprende non soltanto un fascicolo con la trascrizione di un singolo quaderno (uno degli ultimi realizzati dall’autore), ma anche la perfetta riproduzione in facsimile di esso. È proprio un comune quadernetto da scolaro, la cui copertina rosa racchiude pagine a quadretti ingiallite dal tempo e coperte di una scrittura a matita o ad inchiostro verde, con frequente presenza di disegni. Negli ultimi anni, quando aveva riacquistato la libertà di muoversi, lo scrittore ne portava sempre uno in tasca e, mentre passeggiava o era seduto al tavolino di un caffè, lo estraeva per annotarvi ciò che gli veniva in mente. Non si tratta quindi di appunti presi con ordine in vista di testi da realizzare in seguito, ma di note fissate frettolosamente sulla carta, in momenti diversi, con una grafia a volte incerta e poco decifrabile (anche perché, in quel periodo, Artaud era spesso sotto l’effetto di oppiacei). Ma su cosa verte la scrittura di questi fogli, a volte macchiati o bucati col coltello, in quel tentativo di «forsennare il supporto» di cui ha parlato Jacques Derrida? La tematica oscilla di continuo fra la terra e il cielo, ossia fra il corpo dolorante di Artaud e ciò che accade in un iperuranio dimidiato, dove «dio è qualcosa / come l’attuale curato di Beauvallon» e «il Paradiso è nero». La causa del disordine cosmico è ben nota: «Questa storia / continua / solo perché un / certo / numero / d’infami piccoli mascalzoni / delle città / o / delle campagne / hanno voluto / continuare / a fare / della magia». Ma è inutile che essi tormentino Artaud con cerimonie religiose o insidie sessuali, poiché egli rifiuta ed abomina le une e le altre. Non esita, del resto, a negare l’intera realtà dell’universo: a suo avviso, «un mondo che / si può vedere / circoscrivere / di cui si può / discutere, / scrivere / è un / mondo / morto / i mondi / viventi / sono / invisibili». Eppure, per converso, nel quaderno che abbiamo sotto gli occhi, tutto ci riporta alla materialità di un corpo che soffre e resiste, di una scrittura che si sparge sulla pagina, trapassa in disegno o esplode in glossolalia. L’unica magia davvero efficace, nella vita e nell’opera di Artaud, è sempre stata quella dell’arte.