Si tratta del testo della conferenza tenuta da Marco Ercolani l’11 marzo 2010 presso il Museo dell’ Accademia Ligustica di Belle Arti. L’incontro – al quale partecipava in veste di relatore (“Derrida e Artaud”) anche Giuseppe Zuccarino - si è svolto  nell’ambito delle attività dell’associazione “Arte e psicologia”.

Marco Ercolani

l’ultimo Artaud

La scrittura “interminabile” dell’ultimo Artaud è, nel secondo Novecento, un punto di frattura nel concetto stesso di “opera” letteraria. Frammentaria, lacerata da neologismi, allitterazioni, imprecazioni, invettive, preghiere, glossolalie, non classificabile in nessun genere letterario (è simultaneamente diario, lettera, poesia, monologo, schizzo), testimonia la libertà di un artista eretico, intimamente surrealista, clinicamente folle, pervaso dal pathos dei suoi soliloqui. Artaud, dal 1946 al 1948, riempie quaderni su quaderni, li infittisce di morfemi, schegge verbali, disegni, creando un palinsesto straziato che sospende qualsiasi interpretazione, critica e clinica. Siamo, da lettori, spettatori di un “resoconto minuzioso e tremendo di stati vissuti fino al limite della morte”. Lo stesso Artaud, nei Frammenti di un giornale d’inferno, ne è il consapevole profeta: «Verrà il giorno in cui potrò scrivere per intero ciò che penso / nella lingua che da sempre non smetto di perfezionare / la lingua che nasce da me attraverso il mio dolore».

Un’opera d’arte pensata, all’interno della follia, da uno scrittore che una diagnosi psichiatrica definisce “malato mentale”, non è mai “finita” realmente. Lo svelano con chiarezza i quaderni di Artaud decifrati da Paule Thévenin fra il 1948 e il 1993: fitti di stereotipie, deliri, disegni, lettere, poesie, lamentazioni, sono il palinsesto che lo scrittore Artaud, negli anni postmanicomiali, si guarda bene dal non scrivere. Arrivando a riempire fino a tre o quattro quaderni al giorno, trasgredisce così ogni codice di “opera finita” e filologicamente corretta, orientandoci verso l’impensabilità, l’inesauribilità, il monstrum di un disegno-scrittura che mappa il visibile e l’invisibile.

Artaud  consegna la sua opera ultima non a un critico letterario tradizionale ma a chi intuisce che sarà custode appassionato e fedele della sua «parola folle»: Paule Thévenin. Paule si immolerà, con naturale e amorosa dedizione, alla missione di decifrare per decenni la scrittura dei suoi Cahiers per i futuri lettori. Il poeta programma inconsapevolmente la sua sopravvivenza verbale attraverso l’”interpretazione” di Paule, realizzando il suo antico desiderio: non possedere un corpo fisico, fatto di organi e impulsi, ma essere quell’io-e-non-io, morto e non morto, preda di una trance verbale. La sua opera è e resta un immenso, “interminabile” frammento che inventa una nuova logica della ragione, che trasforma il corpo sofferente e torturato dagli elettroshock in scheggia d’urlo, parola gridata, squassata, espulsa sul foglio. In uno dei suoi quaderni, pubblicato in facsimile da Gallimard, si vede con chiarezza la scrittura che gratta, taglia, erode la carta, come un’ustione verbale che intacca il supporto stesso del foglio.

Io distruggo perché dentro di me tutto ciò che proviene dalla ragione non dura. Credo solo all’evidenza di ciò che agita le mie midolla, non di ciò che si rivolge alla mia ragione. Ho trovato un ordine nel dominio dei nervi… Il mio spirito affaticato dalla ragione discorsiva si sente trascinato negli ingranaggi di una nuova, completa gravitazione. Per me è come una riorganizzazione sovrana in cui le sole leggi dell’Illogico partecipano e dove trionfa la scoperta di un nuovo Senso. Questo Senso perduto nel disordine delle droghe offre il sembiante di una intelligenza profonda ai fantasmi controversi del sonno. Questo Senso è una conquista dello spirito su se stesso e, benché irriducibile per la ragione, esiste, ma soltanto all’interno dello spirito. Esso è ordine, intelligenza, significato del caos. Ma questo caos non l’accetta tale e quale, lo interpreta e, come lo interpreta, lo perde. È la logica dell’Illogico. È tutto dire. La mia lucida sragione non teme il caos.

Artaud non teme il caos. Lo accetta, sprofondato nella sua follia, e gli risponde faccia a faccia, con un linguaggio smembrato che se ne fa specchio, trapassando la lingua francese come un coltello acuminato. Cerca nel destino di altri artisti folli la sua stessa carica eversiva e produce invettive, soliloqui-confessioni, pamphlet teorici. Fa del suo corpo straziato dalle violenze istituzionali il sismografo di una libertà violenta e assoluta. I deliri di Artaud sono deliri genealogici, vere genealogie dell’anima, auto-ricreazioni, assalti frontali contro la tirannia della famiglia e delle strutture di potere. Lo scrittore vuole che «il corpo parli altrove un’altra lingua di corpo». Rappresenta la propria psicosi continuando a cercare, nella sua ossessiva scrittura-segno, quello che è il “soffio vitale” contro l’asfissia delle norme.

Sarebbe problematico e forse inutile indagare le psicodinamiche da cui scaturisce la sua psicosi. Spiegare le origini del suo dolore, del suo “stato di rivolta”. Artaud non vuole riparo al dolore assoluto dell’essere-nel-mondo. «La luce di questo mondo è falsa» scrive a Colette Thomas. Il dolore diventa carne verbale, delirio, grido che si oppone ai codici costituiti, irrequietezza biologica. Ogni opera definita è per lui un sepolcro da cui fuggire, una morte da eludere. Occorre andare oltre. Spingere più in là il limite, eroderlo in uno stato di febbre incessante. La sua scrittura è da un lato salvezza, perché negli anni della reclusione solo scrivendo e disegnando Artaud resta in vita, dall’altro denuncia perché il poeta si sente capro espiatorio di una lotta dell’uomo libero contro l’umanità che lo fraintende e lo distrugge: verità assoluta che, nel suo mondo psicotico, applica a se stesso e ai suoi ideali compagni di strada - Lautréamont, Nerval, Van Gogh.

Vittima sacrificale di un mondo ottuso che non riconosce la forza e la bellezza dell’arte, l’artista è un eroe titanico coartato dalle leggi del mondo - vere sentenze di morte contro le magie della poesia. Espulso dal surrealismo perché considerato eretico da Breton e Eluard con motivazioni meschine e personalistiche, Artaud distrugge il mondo per come è stato volgarmente creato e lo sostituisce con un antimondo puro e potente – esasperato soliloquio di un’opera mai codificata in quanto “opera” e mai terminabile. Lo scrittore, percependosi spossessato fin dalla nascita della sua natura “divina”, esige che la sua scrittura sia un paesaggio altrettanto violento e tellurico, «perché la logica anatomica dell’uomo moderno è non aver mai potuto vivere, né pensare di vivere, se non da invasato». Scrive Bernard Noël, erede della sua difficile lezione: «Artaud è un grande devastato che, guardandosi bene dal voler uscire dalla sua devastazione, fa di questa la propria lingua. È, dice di essere, colui che parla il linguaggio del suo incendio».

Artaud concepisce la scrittura come rigoroso e ossessivo diagramma di una trance emotiva. Nessuna mente  dirige e domina il corpo, è il corpo a farsi mente invasata, pur mantenendo uno spazio di lucida osservazione del proprio caos.

Là dove altri propongono opere io pretendo solamente di svelare il mio spirito. La vita è un bruciare di domande. Non concepisco un'opera staccata dalla vita.
Non amo la creazione distaccata. Neppure riesco a concepire uno spirito staccato a me stesso. Ogni mia opera, ogni parte di me, ogni fioritura ghiacciata mi cola  addosso. … Mi rifiuto di fare distinzione fra i diversi momenti di me stesso. Io non vedo alcun progetto nello spirito. Bisogna farla finita con lo Spirito e la letteratura. Dico che Spirito e vita comunicano ad ogni grado. Vorrei fare un Libro che confonda gli uomini, una porta aperta che li immetta dove mai sarebbero voluti arrivare, una porta in comunicazione con la realtà..

Scrive lo psicoanalista Salomon Resnik: «Avere un corpo significa anche com-prenderne i limiti, accettarne la finitudine spaziale e temporale. La nozione di corpo implica l’assunzione di una “frontiera concreta” che le relazioni ordinarie non trasgrediscano. D’altra parte, assumere il corpo proprio e le sue possibilità di porsi in relazione col mondo richiede anche un certo grado di “permeabilità”, di disponibilità allo scambio, al “negozio”. Vivere il proprio corpo significa accettare i propri confini e riconoscere lo spazio dell’altro». La materia verbale di Artaud non è permeabile, non è disponibile. Lo spazio dell’altro non esiste. Nessuna frontiera concreta lo persuade. Non vuole accontentarsi di uno spazio-tempo comune. Al contrario, suggerisce ai suoi lettori l’idea di un al di là del corpo, che contesta le norme della vita collettiva, perché «non si può guarire la vita».

Di Artaud, prigioniero di un corpo che sente suppliziato, avvelenato, perseguitato, ridotto a fantasma, precocemente e paurosamente invecchiato, è celebre una foto che lo vede ritratto di schiena, seduto su una panchina, la matita stretta sulle vertebre, nel tentativo di lenire il dolore delle fratture causate dagli elettroshock. La leggenda vuole che lo scrittore, fermo in qualche caffè, tirasse fuori quaderno e matita e cominciasse, digrignando i denti e gridando, a riempire di segni l’ennesimo foglio, in mezzo all’allarmato stupore dei camerieri. Lo scrittore, che nelle sue lettere si dichiara vittima psicotica di stregonerie operate dalla polizia e dalla classe borghese, è e vuole essere con forsennato orgoglio il capro espiatorio di una società bigotta e ottusa che “suicida” i suoi poeti.

E aveva ragione  Van Gogh, si può vivere per l’infinito, soddisfarsi solo d’infinito, c’è abbastanza infinito sulla terra e nelle sfere per saziare mille grandi genî, e se Van Gogh non è riuscito ad appagare il desiderio di irradiarne l’intera sua vita, è perché la società glielo ha vietato. Apertamente e consciamente vietato. Ci sono stati un giorno gli esecutori di Van Gogh, come ci sono stati quelli di Gérard de Nerval, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di Lautréamont.

La sua scrittura-urlo, fatta di rasoiate al senso comune della lingua, insegue una poetica intransigente e crudele, sconvolgendo il concetto tradizionale di opera letteraria con le sue “colate verbali” - esplosioni del linguaggio pensate e sofferte come segni di uno strazio del corpo e della mente che solo con la morte fisica avrà fine. Il dolore autentico della psicosi si trasforma, per combustione, in una forsennata e ininterrotta scrittura/segno, che paradossalmente conduce a una folle pace dell’io. 

La verità della vita è nell’impulsività della materia. Lo spirito dell’uomo è malato in mezzo ai concetti. Non gli chiedete di soddisfarsi, chiedetegli soltanto di essere calmo, di credere che ha trovato infine il suo posto. Ma soltanto il Matto è davvero calmo.

“Fogli di Via”, Marzo 2010

Bibliografia: Antonin Artaud, Manifesto chiaro, “Ali”, 2, 2008. / Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato dalla società, Milano, Adelphi 1988. / Antonin Artaud, Succubi e supplizi, Adelphi, Milano 2004. / Bernard Noël, Artaud e Paule, Novi Ligure, Joker 2005.  / Salomon Resnik, Spazi mentali, Bollati Boringhieri, Torino 1990.