Eric Stark
approssimazioni su Art Cohn
Nel 1943 è corrispondente
di guerra nel Pacifico, in lotta, narra le cronache, con le veline della stampa
di Hearst, per scoprire che, quando il gen. MacArthur si lamenta per certi resoconti dalle Filippine,
nemmeno al fronte il fair play si spreca. La lealtà
che il brillante reporter aveva trovato nelle
competizioni sportive latitava nel serio mondo
guerriero più ancora che nel mondo malavitoso della sua giovinezza.
Scriverà che, stufi di conoscere la guerra attraverso i film di Errol Flynn,
molti si erano arruolati per curiosità o senso di colpa rendendosi conto poco
dopo che anche lì si trattava in molti casi di spreco, noia o crimine
organizzato.
In Asia Cohn conosce Joseph
Klewan in arte Joe
E. Lewis, in tour per i Servizi Speciali, e si
propone di scriverne la biografia avendone intuito i tratti mitici capaci di
dettare il tempo di una società non
ancora interamente appiattita sul sistema divistico hollywoodiano. Il suo uomo,
cantante e intrattenitore, ennesima metamorfosi del burlesque,
è attivo nei club di Chicago fin dagli anni venti e ha conosciuto e frequentato
i più noti racketeers dell’epoca (stimato dallo
stesso Capone) commentandone l’ascesa negli anni
proibizionistici, ma destreggiandosi dignitosamente sul crinale che separa il
lecito dall’illecito; la sua voce è tra le più ascoltate prima del massacro di
San Valentino, certo più di quella di Scott Fitzgerald, Lee Masters o S. Anderson o altri
letterati da lost generation.
A Cohn risultava che
nessuno ascoltasse quelle voci. “John Dos Passos, H.L. Mencken,
E. Wilson non avrebbero mai potuto farsi sentire da
una società di ladri, prostitute,
assassini, di politicanti foraggiati dai gangsters.
Chicago, allora, aveva –come disse Nelson Algren- due
volti. Un volto per il cacciatore ed un volto per
Per parte sua, Lewis, il biografato,
preferiva le corse di cavalli o la boxe e da vero giocatore puntò sempre sulla
sconfitta del quasi omonimo Joe Louis
eccetto quella volta con Schmeling…
Quando per un rifiuto opposto ad un boss di medio calibro, gli tagliano la
gola e le corde vocali, Joe Lewis
si ricicla come brillante entertainer, richiesto dai più noti night americani,
immolando guadagni favolosi ai compagni di sempre: il wiskey,
le carte e le scommesse, fedele ad un personalissimo e solitario senso
d’integrità e generosità.
“Come a
Fitzgerald anche a Lewis
piaceva bere; forse persino di più. Ma non se ne stava
ad invocare gli dei morti, le fedi scosse, i sogni svaniti. Non invocava nulla,
perché aveva perso tutto”:
era diventato un personaggio di Damon Runyon. Fatale che uno di quel giro, Art
Cohn, ne raccontasse le gesta (credibili anche quando
non verificabili). Il libro, pieno di humour e disincanto, uscì col titolo The Joker is Wild e nel 1957 Charles Vidor ne trasse un drammone con Sinatra (in Italia: “Il jolly è
impazzito”).
La stampa italiana uscì dai torchi delle Edizioni dell’Ariete la
settimana seguente la morte di Cohn in un incidente
aereo, il 23 marzo
Come Cohn fosse finito a scrivere Arrivederci Roma (1958) diretto da Roy Rowland con M.Lanza e R.Rascel parrà disorientante solo se si dimentica l’attrazione (per
alcuni perversamente seduttiva) esercitata su
Hollywood dal cinema italiano nel secondo dopoguerra.
Le sue vacanze romane iniziarono quando
collaborò con Rossellini (e
Inframmezzati c’erano stati script o sceneggiature per Felix E. Feist ( Tomorrow is Another Day), Anthony Mann (The Tall Target), Joseph M. Newman (Red Skies of Montana), R. Thorpe
(Carbine Williams), Raoul Walsh
(Glory Alley) e
prima ancora, The Set Up diretto da Robert Wise nel 1949 (con R. Ryan) che fissò classicamente le
coordinate di ogni successiva pittura d’ambiente pugil-gangsteristico.
Era almeno dai tempi di J. London che il mito
del boxeur assillava il letterato americano; vengono in mente i nomi di Hemingway, Runyon, Algren, Schulberg, Mailer, Oates, ed il cinema ne
incrocerà molte narrazioni in prima o per interposta persona ad
opera dei vari Houston, Scorsese o Hill fino al recente Eastwood.
(a
seguire…)