La casa editrice Spirali organizza due volte all’anno il Festival della
modernità, che ha come temi forti la libertà e la dissidenza: da qui la
costante presenza di personaggi che in varie maniere si sono scontrati con il
potere dispotico dei rispettivi governi. Dal 3 al 6 luglio si sono dati
convegno a Senago, venti minuti da Milano, nella villa San Carlo Borromeo -
splendidamente restaurata e attrezzata come Albergo, ristorante, varie sale
congressuali e museo - ospiti di mezzo mondo (iraniani, cubani, russi, cinesi,
italiani …). Arrabal era uno di loro.
CarloRomano
intervista a Fernando Arrabal
Lo spagnolo
Fernando Arrabal è uno degli ultimi rappresentanti di un’avanguardia gioiosa e
paradossale. Noto soprattutto per le pièces teatrali, ha diretto alcuni film, scritto vari romanzi, innumerevoli
poesie e diversi saggi. Il tutto da collocare in una zona illuminata da Artaud
non meno che da Kafka, Jarry, Sade e Breton. Insieme al cileno Alejandro Jodorowski e al polacco
(d’origine) Roland Topor, fattosi parigino, all’inizio degli anni Sessanta
diede vita a “Panico”, un gruppo del tutto aleatorio eppure perfettamente
riconoscibile nelle sua derivazione surrealista. Ospite del “Festival della
Modernità” organizzato dalla casa editrice Spirali (Senago, 3-6 luglio
2008), gli abbiamo chiesto se – morto Topor e diventato Jodorowsky una specie
di “stella” new age – si senta ancora, come dire, “Panico”.
“Certo”,
conferma con tipica immodestia, “sono il
solo superstite dei tre avatar della modernità parigina. Poiché sono stato per
tre anni nel gruppo surrealista e ho cofondato « Panique », i diversi
collegi di patafisica mi hanno issato al titolo di « trascendente
satrapo » (siamo in cinque), e, non avendo l'età per conoscere il dada, ho
giocato molto a scacchi con Tristan Tzara.”
Gli scacchi, a
proposito….
“È un'arte da poeti”. Si affretta a dire.
E il surrealismo? “Per tre anni ho marinato la scuola sotto
l'egida di una quercia sacra, al caffé surrealista. Non era sempre un luogo di
tolleranza o d'intelligenza, ma molto spesso vi regnavano la bellezza, l'amore
e la poesia. Era per me allora già evidente che l'amore non va molto
d'accordo con la libertà. Quando, dopo la morte di Breton, certi surrealisti
hanno cessato di credere nel surrealismo, si sono messi a credere in qualsiasi
cosa.”
Ci sembra che
“Panico” abbia conservato del surrealismo quantomeno il gusto di una certa
violazione della morale…
“Panico divora la morale e il consenso. Le nostre
« opere » si nutrono di regole: senza queste non c'è trasgressione.
Non la confondo con l'aggressione. È un rito panico agire e mangiare come i
cannibali. Gli antropofagi non hanno bare, né i pigmei hanno cucchiaini. Il
panico trabocca. Ci trasforma in scrivani-tsunami: trasgredire è andare oltre…”
Lei ha avuto
rapporti con il più popolare degli “esclusi” dal gruppo surrealista, Salvador
Dalì, che ricordo ne ha?
“Dalì era più colto che originale. La sua stravaganza
traeva in inganno. Voleva fare con me un'opera « ciberneticamente
panica » (questa fu la sua espressione). Si interessava, come Duchamp e
me, alla scienza.”
E la moglie Gala,
della quale se ne dicono tante?
“Con Gala i miei rapporti sono stati difficili: volevo
farle la corte, e chiesi a Dalì l'autorizzazione. Lui l'ha apprezzato molto.
Lei si è molto irritata. Fu una trasgressione galattica.”
È vero che ha danzato “panicamente” a una conferenza in presenza del re
di Spagna?
Durante una conferenza espongo, esponendomi, un soggetto
che non ha nulla a che vedere con ciò che io stesso mi aspettavo. La preparo
come se fosse l’inizio di una partita a scacchi. Poi, inesorabilmente,
improvviso. È sempre un effimero panico: un poema. Le mie conferenze sono
spesso notturne come un sogno. Questi happening sono creazioni quando hanno
luogo davanti a un pubblico attento e critico che reagisce come l'avversario di
una partita di scacchi: senza di lui, nulla sarebbe possibile. Ho danzato a una
conferenza, a Madrid, davanti al re a alla duchessa d'Alba. Ho cantato a
un'altra conferenza all'Università Sorbona di Parigi, in occasione del
centenario di Vélasquez. Tutta la mia vita è racchiusa nell’effimero, come
tutta la mia vita di poeta panico è racchiusa nei miei scritti più spontanei”.
Ha forte il
sentimento della Spagna?
“Non ho radici, ma gambe. Da cinquant'anni sono qui, a
Parigi, sempre sul punto di tornare in Spagna, come lo sarò tra cinquant'anni,
se Dio mi darà vita. Sono di passaggio come Picasso.”
Si capisce che il termine rimanda a Pan, alla divinità boschereccia e
fallica dalle numerose avventure erotiche, tuttavia in quale altra maniera
potrebbe spiegare “Panico”?
“Né io né « Panico » siamo hegeliani. Preferiamo
un Wittgenstein o uno Schopenhauer. C'è un legame tra « Panico », la
teoria matematica dei motivi e la meccanica quantistica. E c’è soprattutto la
tra mia descrizione della confusione e gli avatar della scienza attuale.”
Ci dica, infine, la nostra epoca sembra banale a un uomo come
Lei?
“Niente
affatto. Oggi siamo nel rinascimento. Grandi filosofi ci trascinano in questa
epoca e la scienza parla dell'indeterminatezza creatrice nella quale ci
troviamo. Siamo nella confusione, nell'ambiguità, una parola che amava
Cervantes, nell'incertezza, come diceva Heisenberg. La poesia, il teatro,
l'arte, l'amore e l'amore dell'amore nascono dal caso, dalla confusione,
agiscono per colpi di teatro e colpi di fulmine.”
Pan, Panico, tutto
torna, scienza e coscienza. Grazie Fernando Arrabal.
(Prima del congedo dal lettore, corre tuttavia
l’obbligo di ringraziare Silvia Benedetti per aver collaborato alla traduzione)
“Il Secolo XIX”, 26 luglio
2008