CarloRomano
l’oppio
e Aron
Quando Jean Paul Sartre suggeriva di non dire la verità sull’Unione
Sovietica perché si sarebbero demoralizzate le periferie operaie, il suo
vecchio amico Raymond Aron pubblicava questo “L’oppio degli intellettuali” (€ 24) che la Lindau di Torino
ripropone oggi dopo la vecchia edizione Cappelli del 1958 e quella Ideazione
del 1998, ambedue introvabili, la prima rara anche sul mercato antiquario. Il
libro era una pungente analisi dell’intellighenzia di sinistra, soprattutto della
specie marxista, e si contrapponeva alla logica dell’impegno sartriano con
argomenti finalmente non taciuti. Malgrado Sartre rappresentasse con la propria
comunque ammirata figura, gli abbagli e gli sbandamenti di molti eruditi
dell’epoca, il suo pensiero volgeva innanzitutto a un senso radicale della
libertà. Il suo antagonista Aron non era
da meno. Prima della guerra Aron, Sartre e Paul Nizan – il grande scrittore
comunista – erano legati da amicizia e interessi culturali. Quello meno
sensibile alle sirene del marxismo così come lo diffondevano i comunisti era proprio
Sartre, il quale a un certo punto si buttò tuttavia nella mischia. Aron ebbe un
suo sviluppo culturale che lo portò presto a figurare, soprattutto negli anni
della guerra fredda, come un “liberale”, benché non del tutto omogeneo al vero
e proprio liberalismo. Forse la definizione di “conservatore” sarebbe più
corretta, ma anch’essa è riduttiva.
Rispetto alle teorie adottate da liberali come Hayek o da un Berlin, Aron
ebbe sempre a dire la sua con indipendenza e originalità, riconoscendo persino
a Marx un’influenza che andava oltre il semplice attestato di grand’uomo del
XIX secolo, e questo avveniva, fra l’altro, confrontandosi con la critica
marxista alle libertà formali. Sul tema tornerà per altro a seguito degli
avvenimenti del 1968 (si veda “La Rivoluzione
introvabile”, appena pubblicato da Rubbettino, € 15). “L’oppio degli intellettuali” fu in ogni caso un libro decisivo di
cui anche nella stessa Francia, dove l’influenza della cultura comunista era
fortissima, si poterono raccogliere vari frutti. Si pensi ai tanti volumi e
articoli del compianto Jean-François Revel (è morto nel 2006) di cui proprio
Lindau tradusse qualche tempo fa il lucido “L’ossessione
antiamericana” € 23). Ma si pensi anche al “sovietologo” Alain Besançon che
ancora Lindau porta oggi in libreria con “Novecento.
Il secolo del male” (€ 14). Per i
militanti dei partiti totalitari, scrive Besançon, “Il linguaggio viene
trasformato, non serve più a comunicare o a esprimere qualcosa, ma a mascherare
la soluzione di continuità fra il sistema e la realtà. Ha il compito magico di
piegare la realtà alla visione del mondo. È un linguaggio liturgico, in cui
ogni formula indica l’adesione del locutore al sistema e, insieme, invita
l’interlocutore ad aderirvi. Le parole segnaletiche sono dunque altrettante
minacce e raffigurazioni di un potere”. In fin dei conti si tratta di quella
cosa che Marx chiamava “falsa coscienza” e Sartre “malafede”. Il limite di
analisi come quelle di Aron, così convincenti e acute, è tuttavia di non
riuscire mai a spiegare in modo stringente le ragioni concrete, se non
attraverso la denuncia di morbose psicologie, di questa malafede. Alla fine si
deve riconoscere che un ingannato ingannatore quale poteva essere Sartre ci ha
dato modo di rifletterci sopra con la sua
abilità verbale, con la sua stessa violenza e con la stessa tragica grandezza
dei suoi errori.
“Il Secolo XIX”, luglio 2008