Wolf Bruno
Arte Cruda 17
(di
varie insozzature)
Il
pentimento librario è ricorrente fra i lettori. Capita di domandarsi perché si
sia comprato un libro. A me succedeva raramente, ma non è più così. Cosa mi ha
attirato ne I
Volti dell’Avversario è stato innanzitutto il titolo e una buona misura di
fiducia l’ho voluta concedere ancora una volta incautamente all’autore Roberto
Esposito, filosofo della Scuola Normale Superiore che si è caratterizzato per
studi politici e impolitici. Naturale dunque imbattersi in Carl Schmitt benché
molto avanti nel testo, in una sezione finale denominata con qualche larghezza
di significato “Glosse”, dove l’argomento del libro, la biblica lotta del
patriarca Giacobbe con l’Angelo, nel particolare e tortuoso trattamento di
Esposito che mi ha fatto pentire dell’acquisto, viene assoggettato alle
implicazioni culturali dell’ultimo secolo. Se non è la prima volta che questo
rappresentante dell’Italian Theory, come altri che corrispondono ai nomi di Giorgio
Agamben e Massimo Cacciari, mi ha giocato un brutto tiro, fesso sono io troppo
clemente nel concedere fiducia e troppo ottimista nel fare assegnamento sulle
mie capacità di lettore. Certo abbeverarsi come fossero le parole di Gesù
Cristo a pure banalità come la dialettica “amico-nemico” (e al “partigiano”
come “vera inimicizia”) è tipico di chi ha veramente poco da dire ma con quel
poco, e l’assistenza della dialettica erudita, arriva a riempire la propria
vanità sulla pagina. Ben fatto Esposito e ben detto Schmitt. Celeberrima la sua
Teologia Politica: “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”.
È la decisione politica a creare il diritto. Il resto è “nauseante bohéme da osteria” come gli “insopportabili sofismi di Max Stirner”, uno “zotico, goliarda, egomane,
sguaiato, orribile millantatore, evidentemente uno psicopatico grave” (seppure
durante il periodo di prigionia postbellico Schmitt sembrò gradire). Si decide decisionisticamente col decisionismo politico contro questo
caos. Solo pochi anni prima dell’irresistibile ascesa del giurista tedesco fra
i triturati dal pensiero “negativo” - che doveva tumulare le calamità del
decennio marxista-marcusiano - era se non altro più comune usare per i medesimi
scopi la citazione su guerra e politica di Von Clausewitz,
un tizio smisuratamente al di sopra, quanto all’acume, del catto-nazista
crisaiolo.
La
creazione dell’eroe intellettuale è irrefrenabile come la sete, ma c’è chi
pretende di saziarla con le bevande alcoliche che se per un momento danno
l’illusione di espandere la percezione ci mettono poi niente ad ottundertela.
Ciò nondimeno, per l’attenzione che prestava alla “french
theory” (non a caso fatto chevalier
des lettres e des arts da Mitterrand) anche un buon
bicchiere come Carmelo Pompilio Realino Antonio
Bene entra a buon diritto nella sua versione italiana insieme ai soggetti che
abbiamo citato sopra. Acclamato come attor magnifico dell’avanguardia (in
realtà compiaciuto e sprezzante, da qui nasceva il suo ipotetico sense of humour) si era specializzato nelle pubbliche
letture alle quali, per dare importanza, scopiazzava una voce nasale, come
quelli che vogliono emergere chic scopiazzano la “r” moscia. Artista e ribelle, solo un altro artista e
poeta, a suo dire, lo poteva capire, e ciò fa capire perché sia difficile capirlo
come il genio che diceva di essere. Di ciò che poteva da par suo fiutare un
ribelle non si ha notizia, ma ci si può sempre ribellare alla stabilità delle opinoni. Molte di queste ci mettono anni a precisarsi e a
tramutare la regola accademica - con tutto il contorno di assenso-dissenso che
non lambisce in ogni caso il prestigio dell’erudita famiglia – in forme
differite di successo.
Son
passati trent’anni dalla dipartita di Christopher Lasch e più di quaranta dal
suo libro del 1979 sul narcisismo (Bompiani, 1986 – Neri Pozza, 2020) un tema
che nella sociologia si era già affacciato qualche tempo prima - e Lasch, va
detto, lo riconosce – ne Il Declino
dell’Uomo Pubblico di Richard Sennett (Bompiani,
1981). Sociologi critici, decisamente “culturali” e non “numerici”, sia Lasch
che Sennett avanzano i loro temi dall’angolazione
della questione sociale. Ciò nondimeno, Lasch congedò le sue simpatie per le
formazioni radicali assistendo (siamo nel 1969, chiunque avrebbe pensato il
contrario) alla loro agonia. Responsabile della collettiva disillusione (come
accenna il sottotitolo de La Cultura del
Narcisismo) è l’erosione portata dal consumismo che non incide tanto nel
richiudersi in sé stessi (nel “privato”, come si amava dire) quanto piuttosto
nel declino di istituti sociali come quello famigliare o, perfino, l’istruzione scolastica obbligatoria che
avrebbe concorso “alla diffusione del torpore intellettuale e della passività
politica”. Preciso, a scanso di equivoci, che i ragionamenti di
Lasch mi trovano consenziente in diversi passi. Molti “filosofi” europei e
americani che hanno la pretesa di aver scoperchiato la natura della nostra
società sono ben lontani dalla sua lucidità per quanto siano messi in cima
all’osservatorio dell’alienante disfacimento quotidiano. Ciò che ho notato è
l’uso che delle sue riflessioni (spesso costrette al semplice impiego del suo
nome) viene fatto in ambienti diversi tanto che sembra alimentare quella classe
di dubbie fantasie accalcate in fenomeni solo parzialmente assimilabili come
“il rivoluzionarismo conservatore” e i comunitaristi cosiddetti “rossobruni” (fatte salve, mi pare di poter dire, le
motivazioni di un Alain De Benoist, ancorché turbate
da qualche colpa in entrambi i casi). Il realismo morale di Lasch si svolge in un
Io Minimo (titolo di un altro suo
libro. Feltrinelli, 1985) che postula una sovranità (e una libertà) limitata
alla quale non è estraneo lo spirito di sacrificio che rende il tutto più
coerente coi primi che con la disciplinata apocalissi dei secondi.
Il
fenomeno degli “ex”, come con eleganza può esserlo stato Lasch, per quanto
vasto e avvelenato negli anni del comunismo imperante non ha mai raggiunto la
dimensione aggiudicata fra gli orfani degli anni Sessanta. La differenza è che
la rottura degli antichi aveva sapore definitivo anche quando non si
allontanava troppo dai dintorni. I moderni, viceversa, hanno completamente
capovolto le loro visioni ostentando però una fedeltà sostanziale ai miti che
li hanno cresciuti, come quello del maggio francese del 1968, uno spartiacque
storico e intimo a un tempo. È casomai universalmente noto che l’avvenimento
capitale di quell’anno giubilato fu di tutt’altra specie e per niente calcolato
dai “perfetti” che con gli anni - quando erano ben poca cosa sul piano della notorietà
- sono arrivati a coprire il ruolo di
strateghi, avendo d’altra parte accettato un clima da caserma imposto dal genio
di Guy Debord, un pacioccone che mai avresti
annoverato fra i capi rivoluzionari. Ecco, l’evento rivoluzionario di
quell’anno si svolse verso la fine e lo firmò Elvis Presley (che la rivoluzione
l’aveva fatta sul serio) attraverso la rete televisiva NBC: l’Elvis '68 Comeback
Special. Per l’occasione, forte dell’esperienza, Elvis volle assicurarsi
che il famigerato manager, il Colonello Parker, non avrebbe scavalcato il
produttore Bob Finkel col quale si era accordato affinché il concerto non
sarebbe stato, visto che cadeva in dicembre, un’antologia di canti natalizi
(beninteso, la sua versione di Merry
Christmas Baby rimane un capolavoro). Richard Neville (1941-2016),
il fondatore di “OZ”, la rivista controculturale
anglo-australiana, in Play Power mi risulta, se ricordo bene, che racconti di come
ad un concerto si fosse imbattuto in giovani francesi situazionisti - o prositu che fossero - e di come li avesse presagiti avversi
all’idea di gioco moltiplicata dal raduno e dal rock and roll.
Mi son fatto l’idea, emancipato dalla
trappola, che Guy Debord non abbia capito del tutto i
suoi tempi (e chissà il disorientamento che avrebbe patito negli attuali), la
politica, la società, le aspettative che filavano fra quell’umanità reale
ritenuta da Carlo Marx meglio conosciuta dai
conservatori che dai socialisti, e che si sia illuso bastasse ricalcare un po’
di linguaggio hegelo-marxista mischiato a qualche
scampolo della moda “esistenzialista” del dopoguerra (“c'è libertà solo in una
situazione, e c'è una situazione solo attraverso la libertà” aveva scritto
Sartre in L’Essere e il Nulla. D’altra
parte avrebbe chiamato Situation una
serie di editoriali sui “Temps Modernes”)
per far aderire delle basilari sciocchezze (le Banalità di Base di Raoul Vaneigem,
autore ben più pregnante del leader, sono altro) al corso dell’incompreso tempo
da rimpiangere (“Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia…”). In una
certa misura anche Debord partecipa delle fortune riservate alla “teoria
francese”, solo che fra i suoi lampanti (e discutibili, non dico di no)
protagonisti c’è chi, come Baudrillard, modella con
vivace competenza quei temi che l’altro vorrebbe propri e caratteristici.
Ancorché al riparo delle ricche università americane, a Baudrillard
mancò tuttavia la forza di quel culto di cui si circondava Debord infondendo
negli adoratori la paura di finire tutti eretici. Senza contare i refrattari che
hanno visto nella teoria debordiana (per imbastire la
quale si astenne dalle croniche abitudini alcoliche, come scrisse a Vaneigem) un riflesso (ma in realtà si è parlato di
appropriazione indebita) di ciò che Gunther Anders sviluppò ne L’Uomo
è Antiquato (1956. 1963 in Italia presso il Saggiatore) con relative
dirette testimonianze circa lo sdegnato imbarazzo di Debord davanti
all’evidenza (e non dimentichiamo che erano gli anni di Marcuse
e di Norman O.Brown). Parte
del successo intellettuale di Debord, essenzialmente postumo, lo si deve per
giunta agli architetti e agli urbanisti alla moda tipo Rem Koolhas
che fissano la propria influenza nel crocevia dove la teoria francese si apre a
vari satelliti di qualità e dinamismo ad essa non del tutto coerenti come il
tedesco Peter Sloterdijk o il più canzonatorio
sloveno Slavoj Žižek. Per non dare
nell’occhio in termini spettacolari, il genio radicale finse la regia
cinematografica deflagrando in una noia (Guy The Bore=Guy
"il noioso", nella formula del collettivo Luther Blissett) che
manco la più sciocca avanguardia ne ha lasciato esempi paragonabili. Penso che
in fin dei conti, per quel che possa contare, un Slavoj Žižek - esperto di cinema più di altri filosofi che gli
hanno dedicato studi, tipo quelli illeggibili di Deleuze
– preferisca il “situazionismo” di Edward Norton ai film di Debord (e non è che
ci voglia molto).
Per quanto impegno (e diciamo pure anche
coraggio) ci possa mettere mi rendo perfettamente conto di non riuscire a
raggiungere la villana insolenza dei veri professionisti. Chi veniva da lontano
e andava lontano come Palmiro Togliatti, per esempio, nei panni di Roderigo di Castglia seppe coniugare autentica indignazione, chiamando
“l’arte nuova” una “raccolta di cose mostruose”, a moleste fantasie allegoriche
come nel dare dello “scarafaggio” a Vittorio Gorresio
o “pigmeo della guerra fredda” a Carlo Ludovico Ragghianti.
Chiamava “i sei che hanno fallito” gli autori de “Il Dio che è Fallito”
divenuti “guardie svizzere della cultura” al servizio “del noto agente
dell’anticomunismo Ignazio Silone”. “Il Mondo” di Pannunzio,
Ernesto Rossi, Ennio Flaiano, Mino Maccari ecc. ecc. era ““una rivista di
sedicenti liberali che raccomandano i preti e Benedetto Croce”. Accolse 1984
di Orwell denunciando “la cultura
borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni” che col libro “ha
aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire”!
Orwell diceva “accumula con la maggiore
diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda
anticomunista scaglia contro i paesi socialisti”. Amadeo Bordiga, il vero
fondatore del PCdI, viveva nell’Italia del ventennio
“come una canaglia trotskista, protetto dalla polizia e dai fascisti, odiato
dagli operai come deve essere odiato un traditore.”. Per lottare contro chi continuava a ispirarsi
a lui, la raccomandazione del compagno Ercoli - Palmiro Togliatti – era quella
di usare perfino la polizia. Celebre, un vero capolavoro, è rimasta la sua
definizione “pidocchi sulla criniera di un cavallo di razza” riferita ai
“titini” Magnani e Cucchi (i “magnacucchi”). Che
dire, mi sento un pigmeo. Ma a viva voce, chissà, posso far meglio.
Mi consolo: “le cose davvero serie
e gravi i compagni sovietici non le mettono mai per iscritto”. Parola del
“Migliore”.