Renato Venturelli
apocalypto di
pellicole del 2006
dall’edizione ligure de “La Repubblica”
APOCALYPTO (Usa, 2006) di Mel Gibson, con Rudy Youngblood
Dopo tante polemiche e discussioni, che cosa
rimane di questo quarto film di Mel Gibson? Lasciando perdere le rozzezze
ideologiche, resta un B-movie ipertrofico, tutto azione, violenza e
inseguimenti, dove un giovane viene rapito dal suo villaggio nella giungla
pre-colombiana: deportato in una città Maya per essere sacrificato in piazza,
riuscirà a fuggire e passerà la seconda parte del film inseguito dai suoi
ferocissimi cacciatori. Il tutto messo in scena con grande fisicità e ritmo
serrato, cercando di accrescere l’effetto-realtà attraverso l’impiego di attori
sconosciuti e dialoghi sottotitolati. In pratica, lo stesso stile iperbolico
già adottato per “La passione”, ma in un contesto molto più efficace e
dinamico, che reinventa il vecchio cinema avventuroso esasperandone l’enfasi
retorica e la vacuità fumettistica. Ma come puro intrattenimento funziona,
eccome: sia in singole situazioni (il confronto iniziale fra tribù diverse
nella giungla), sia nell’incalzante crescendo action. Cinema falsamente primitivo
come la sua ideologia, ma autenticamente adrenalinico.
THE BLACK DAHLIA (Usa, 2006) di Brian De
Palma, con Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Hilary Swank
Tutta la grande arte è astratta, diceva Jean
Renoir. E Truffaut aggiungeva: “e non si
raggiunge l’astrazione passando dalla psicologia, al contrario”. Vedere i film di De Palma significa partire
sempre da questa considerazione, perché il suo è un cinema che tende
all’astrazione, e va seguito guardando più che mai i percorsi dentro le
immagini, i ritmi visivi, le forme del film. Altrimenti si rischia di seguire
semplicemente degli intrecci, spesso lambiccati e incoerenti, mentre il cinema
di De Palma è assolutamente coerente. Qui parte dal romanzo di James Ellroy
imperniato sul tormentone-principe dello scrittore: il feroce massacro di una
ragazza nella Los Angeles degli anni ’40, che Ellroy ha sempre collegato
all’uccisione della propria madre, ma a De Palma interessa soprattutto per i
suoi poliziotti “gemelli” o le figure femminili così somiglianti fra loro. Come
avrete capito, ne risulta un poliziesco ossessionato dal tema del “doppio”, che
riguarda sia i personaggi sia l’idea stessa di rifare in modo iperrealista le
immagini del cinema d’epoca: con risultati un po’ gelidi sul piano narrativo, ma
anche con momenti di cinema purissimo che restano tra i migliori della
stagione. A cominciare dai filmini in bianco e nero, o della splendida sequenza
d’omicidio, ambientata su una delle scalinate tipiche di De Palma ed incentrata
sull’inganno ottico di un’ombra.
BOBBY (Usa, 2006) di Emilio Estevez, con Anthony Hopkins,
Sharon Stone
Lo ha diretto un attore di secondo piano,
figlio di Martin Sheen e finora snobbato nell’ambiente del cinema, ma
quest’omaggio alla figura di Robert Kennedy e a un’America liberal ormai
lontana è uno dei film più solidamente classici degli ultimi mesi. Racconta una
giornata nell’hotel dove venne assassinato il fratello di John Kennedy, e se da
una parte ha il merito di evocare la figura di Bob solo attraverso autentici filmati
e registrazioni d’epoca, dall’altra costruisce uno di quegli impeccabili
meccanismi narrativi a orologeria, dove decine di personaggi s’intrecciano con
le loro vicende personali fra stanze e corridoi dell’albergo. Il risultato è al
tempo stesso memore della tradizione hollywoodiana dei “Grand Hotel”, ma anche
della rilettura innovativa anni ’70 fornita da un Robert Altman: tutto
nell’ambito di una formula convenzionale, ma con personaggi ben disegnati e
un’ottima direzione d’attori. Non solo un esercizio di nostalgia abile e
toccante: l’anima liberal di Hollywood è sempre viva, e film come questo
possono fare da argine alla deriva del Sundance.
IL CALAMARO E
LA BALENA (Usa, 2005) di Noah
Baumbach, con Jeff Daniels, Laura Linney
Newyorkese, 36 anni, figlio di
intellettuali, Noah Baumbach è la nuova stella di quel cinema indipendente Usa
che da vent’anni trova il suo punto di riferimento nel Sundance Film Festival,
nemico giurato di tutto il grande cinema hollywoodiano. Qui racconta la storia parzialmente
autobiografica di una famiglia di scrittori, dove il padre pensa solo a se
stesso, la madre si consola con altri uomini e i figli restano sballottati
dalla separazione dei genitori. La descrizione psicologica è attenta, ma il
film si pone soprattutto come catalogo di tic e vezzi di tutto quanto fa
scrittura alla moda: il cronachismo quotidiano contro le convenzioni della
finzione, i cataloghi dei libri “giusti” da citare, l’audacia provocante del
dettaglio sessuale ecc. Sembra guardare alla crisi di una famiglia, ci racconta
in realtà la morte del cinema americano, soffocato dal piccolo cabotaggio
autocompiaciuto degli indies. Prodotto dal Wes Anderson dei Tenenbaum:
tristemente interessante, per capire dove va il cinema Usa.
CAMBIA LA TUA
VITA CON UN CLICK (Usa, 2006) di
Frank Coraci, con Adam Sandler
Il pubblico snob lo ricorda solo per la
commedia firmata “Ubriaco d’amore”, ma Adam Sandler è uno dei comici americani
del momento, e basa parte del suo successo proprio sul registro opposto:
interpretando cioè bravi ragazzoni qualunque, a volte un po’ tonti, ma
proiettati in situazioni anomale. Qui è un giovane architetto che trascura la
famiglia in nome della carriera, ed un giorno si ritrova fra le mani un
telecomando magico. Gli basterà premere l’avanti veloce per eliminare i momenti
più fastidiosi o inutili della giornata: ed in breve tempo diventerà schiavo
dell’aggeggio, fino ad accorgersi di aver bruciato tutta la sua vita,
eliminando proprio quelle pause e quei rapporti banali in grado di darle un
senso. La morale è fin troppo scoperta, e culmina nel solito elogio perbenista
della famiglia: più interessante è invece l’ennesima riflessione sul tempo, la
vita e il racconto offerta da questa tradizione di piccole commedie Usa che va
da “Ricomincio da capo” a “50 volte il primo bacio” e che prima o poi andrebbe
analizzata con più attenzione.
CASINO ROYAL (Gb, 2006) di Martin Campbell, con Daniel Craig, Eva
Green
Da troppo tempo i film di 007 erano diventati
degli action qualunque: ripetitivi, noiosi e zeppi di stucchevoli effetti
speciali. Con “Casino Royal”, la serie torna invece a coinvolgere lo
spettatore, anche se non mancano scene d’azione spettacolari e il trattamento
del protagonista ricorda l’umanizzazione forzata di tanti supereroi da fumetto
portati recentemente sullo schermo. Ma Daniel Craig è un James Bond proletario,
forse anche un po’ contadino nel fisico, uno che non ama lo smoking o il bel
mondo, e ha il cuore vulnerabile: uno 007 asciutto, molto fisico e poco
elegante, il più anti-Roger Moore che si potesse immaginare. Dopo una prima
parte action, che culmina in un lungo inseguimento acrobatico sulla cima di gru
gigantesche, il cuore del film sta però in una sedentaria partita a carte, che
conferma come per avvincere lo spettatore non sia necessario far correre i
personaggi su e giù per il pianeta. Non tutti i fedelissimi di Fleming lo
approvano, ma il film se la cava: bentornato, Bond.
LA COMMEDIA
DEL POTERE (Francia, 2006) di
Claude Chabrol, con Isabelle Huppert
Chabrol abbandona l’abituale borghesia di
provincia e passa ad affrontare in questo suo ultimo film l’universo
sofisticato del Potere parigino, raccontando la guerra che un integerrimo
magistrato muove contro un gruppo di alti papaveri dell’economia francese. Lo
si potrebbe definire un film sulle Tangentopoli d’oltralpe, se non fosse che
alla sceneggiatura non interessa minimamente coinvolgerci in un vero e proprio intrigo
di corruzioni ed indagini circostanziate. Non aspettatevi quindi interrogatori
serrati su conti esteri o specifici episodi di corruzione: quello che
appassiona Chabrol sono i personaggi, le loro ambiguità, le contraddizioni che
inchiodano la gelida Jeanne Charmant Killmann di Isabelle Huppert,
quell’ebbrezza del Potere cui ci rimanda il titolo originale e che riguarda sia
gli inquisitori che gli inquisiti. L’insieme è un po’ schematico nel disegno,
ma sottilissimo nella messinscena: ed il film riesce a recuperare in acutezza e
precisione quello che gli difetta in intensità e potenza.
A EST DI
BUCAREST (Romania, 2006) di
Corneliu Porumboiu, con Teodor Corban
Arriva dalla Romania questo piccolo film dell’assurdo,
diretto da un regista trentenne e vincitore a Cannes della Caméra d’or
riservata al miglior esordiente. La vicenda si svolge in una cittadina di
provincia, dove il proprietario di una scalcinata tv locale organizza un
dibattito in diretta sul sedicesimo anniversario della caduta di Ceausescu. La
domanda è: nella nostra città c’è stata davvero una rivoluzione, o la gente è
scesa in piazza solo quando era sicura che il dittatore era in fuga? La prima
parte del film ci presenta i personaggi con uno stile ostico, tutto camera
fissa in campi medi e lunghi che estenuano lo spettatore. Poi comincia il
dibattito tv, con un professore alcolizzato e un vecchio solitario chiamati a
testimoniare sulla reale partecipazione della cittadina alla rivoluzione: e da
quel momento la riflessione amara e disincantata sulla storia si sviluppa
attraverso un humour sottile, tempi comici rarefatti, un gusto sofisticato
dell’assurdo. Presentato come un “Goodbye Lenin” dei Carpazi, mentre ne è
l’esatto opposto: non una commedia furbacchiona per il grande pubblico, ma
un’opera marginale, sofisticata e provocatoria.
DREAMGIRLS (Usa, 2006) di Bill Condon, con Jamie Foxx, Eddie
Murphy
Torna il grande musical americano, e quattro
anni dopo “Chicago” ci racconta una storia in cui tutti i momenti topici, le
emozioni e i conflitti passano classicamente attraverso voci e performances
musicali dei suoi protagonisti. Al centro, tre ragazze coloured che negli anni
’60 vengono ingaggiate come coriste di un famoso cantante, ottengono uno
spettacolo tutto per loro, ma devono fare i conti col manager che impone come
solista quella più bella e dalla voce più anonima, confinando ai margini la
compagna sovrappeso dalla voce troppo personale. I rapporti d’amicizia si
intrecciano così alle leggi dell’industria e del successo, e se le musiche in
sé o il modo in cui Bill Condon riprende i numeri non sono forse memorabili,
restano invece un bell’impatto d’assieme dello spettacolo e un’ottima direzione
d’attori: con Eddie Murphy in un ruolo non comico, ma soprattutto con la
rivelazione Jennifer Hudson, strepitosa esordiente 25enne in un ruolo che
edulcora il dramma autentico di Florence Ballard delle “Supremes”.
FLAGS OF OUR FATHERS (Usa, 2006) di Clint
Eastwood, con Ryan Philippe
Che cosa si nasconde dietro la famosa immagine dei
soldati americani che piantano la bandiera sull’isola di Iwo Jima? Partendo da
una puntigliosa ricostruzione, “Flags of Our Fathers” rievoca la storia dei tre
militari di quella foto sopravvissuti alla guerra, scavando dietro l’immagine e
i suoi inganni, l’eroismo e la propaganda bellica. La struttura ad indagine può
ricordare un po’ il soldato Ryan (del co-produttore Spielberg) e un po’ Liberty
Valance (del modello Ford), ma quello che ne risulta è puro Eastwood: dove
l’umanesimo si nutre di ottime scene d’azione, e il racconto tende a
sciogliersi in una riflessione dolente tra presente e passato, verità e
menzogna. Come i grandi classici, del resto, nel momento in cui affronta la
Storia, il 76enne Clint tende più che mai a parlarci semplicemente della vita.
E in un film dai personaggi un po’ deboli ci regala una delle sequenze più
belle della stagione: quella in cui un marinaio cade in acqua durante
l’avvicinamento all’isola, e la scena sembra far rivivere quel clima farsesco
volutamente grossolano e un po’ antiquato di certi film fordiani. Poi, però, la
nave prosegue oltre senza salvarlo, e così faranno tutte quelle che seguono:
mentre l’uomo in mare si allontana a poco a poco dalla vista, la farsa scivola
in silenzio nel dramma, lasciando intendere senza una parola né un gesto tutta
una riflessione disincantata e malinconica sulla Storia, la vita e la morte.
LADY IN THE
WATER (Usa, 2006) di M. Night
Shyamalan, con Paul Giamatti
Tutti i
film del regista del “Sesto senso”, “Signs” o “The Village” ruotano
ossessivamente attorno ad un’interrogazione trascendente, dispiegando un
universo a base di eventi enigmatici, presenze inquietanti, segnali che
arrivano da mondi inafferrabili. E’ un cinema del mistero, a base di dialoghi
sussurrati e inquadrature giocate su bordi e fuori quadro, anche se poi queste
atmosfere “alla Tourneur” vengono spesso contaminate da rotture dissonanti.
Ritroviamo tutti i suoi ingredienti anche in quest’ultimo thriller fantasy,
tutto ambientato attorno alla piscina di uno squallido condominio, dove appare
all’improvviso una ragazza misteriosa, minacciata da strane creature
fantastiche. La prima parte crea un bel clima di suspense, sul filo di immagini
calibratissime; la seconda cade invece in pasticciati rituali che sembrano
concepiti da una specie di Propp fumettaro, ma anche questo è un vezzo del suo
regista. Risultato: cinema vero finché si tratta di instillare l’attesa, più
discutibile e noioso quando si passa ai personaggi e al racconto.
LITTLE MISS
SUNSHINE (Usa, 2006) di Jonathan
Deyton e Valerie Faris, con Greg Kinnear, Toni Collette, Alan Arkin
Buon esordio nel lungometraggio di finzione
per Jonathan Deyton e Valerie Faris, coppia di registi quasi cinquantenni che
hanno alle spalle una lunga e premiatissima carriera come autori di videoclip
& spot pubblicitari. La loro formazione non proprio cinematografica trapela
anche da questa commedia on the road, ma va detto che la mescolanza di ironia e
di satira, di commedia pura e di riflessione amara ha ritmo e vivacità, senza
restare del tutto intrappolata nei compiacimenti ammiccanti da Sundance Film
Festival, al cui ambito estetico peraltro appartiene. Al centro, una famigliola
che parte su un pullmino per accompagnare la bambina ad un concorso di
mini-Miss California: i componenti del gruppo sono già bizzarri di per sé, ma
durante il tragitto ne succederanno di tutti i colori, fra cadaveri chiusi nel
bagagliaio e un inquietante concorso di bellezza per bambine. Con una satira un
po’ ovvia del sogno americano e del culto dei vincenti, ma con un brio che ha
la meglio sui facili schematismi moralisti.
MIAMI VICE (Usa, 2006) di Michael Mann, con Colin Farrell, Jamie
Foxx, Gong Li
Vent’anni fa, “Miami Vice” aveva
rivoluzionato il telefilm poliziesco, imponendo sbirri dagli abiti firmati,
esterni solari, immagini light in cui il produttore Michael Mann portava in tv
quell’estetica delle superfici di moda nel nuovo noir cinematografico. Tornando
ora sull’argomento come regista, Mann aggiorna però quella formula, rifiuta la
solita confezione ultrapop delle serie tv riciclate in blockbuster usa-e-getta,
e usa l’occasione per una ricerca d’autore. Al centro della vicenda, le imprese
di una coppia di sbirri infiltrati tra i narcotrafficanti, con tutti gli
sbandamenti d’identità che ne derivano, sparatorie, inseguimenti e perfino una
love-story con la pupa cinese del boss. Ma il racconto sembra non interessare
nessuno, e il senso dell’operazione sta nel tentativo di creare un ritmo
visivo-narrativo avvolgente, ossessivo, dove l’esperienza infernale è
soprattutto immersione in un flusso di immagini digitali ad altissima
definizione. Un po’ freddo, sempre sull’orlo dell’elegante esercizio di stile,
sicuramente talentuoso: a suo modo, uno dei film più sperimentali della
stagione.
MARIE
ANTOINETTE (Usa, 2006) di Sofia
Coppola, con Kirsten Dunst
Al festival di Cannes 2006 è stato forse il
film più discusso, elogiato da alcuni per il taglio postmoderno con cui
affronta la Storia, sbeffeggiato da altri come esempio di stupidaggine di
secondo grado, quella che rifila banalità facendo sentire lo spettatore
intelligente. La regista di “Lost in translation” e delle vergini suicide vi
affronta un’altra delle sue giovani donne spaesate in un mondo estraneo: stavolta
si tratta di Maria Antonietta, inviata in sposa al delfino di Francia quando
entrambi erano ancora adolescenti e proiettata di colpo al centro di una corte
retta da raggelanti formalismi. Oltre a trasformare l’orrida asburgica in una
bellezza vitaminica, Sofia Coppola la rappresenta come una ragazzotta pop corn
in un video in costume Mtv: luminosissimo, artificioso, costellato di
anacronismi ironici, tra scarpe da ginnastica e musiche a base di Cure, Air
& Co. La sfida è quella di far trapelare un personaggio e un’epoca
attraverso uno sfavillio superficiale: modaiolo e accattivante.
THE ROAD TO GUANTANAMO (Gb, 2006) di Michael
Winterbottom, con Farhad Haroun
Ecco un film al tempo stesso consigliabile e
discutibile, capace di affrontare con forza un argomento importante, ma anche
di imbarazzare per il modo in cui ricattare emotivamente lo spettatore. Al
centro, la storia (vera) di alcuni giovani musulmani inglesi, che nel 2001
vanno in Pakistan per il matrimonio di uno di loro, passano poi in Afghanistan
e finiscono vittime della cosiddetta guerra al terrorismo: bombardati,
arrestati, umiliati e torturati, finiranno “proprietà” degli americani
nell’inferno di Guantanamo. Il tutto raccontato con immagini disadorne da video
artigianale, in modo da accrescere l’effetto realtà e l’identificazione del
pubblico, ma attenuando la brutalità dei fatti ed evitando di mostrare violenze
e morti. E il film ha il merito di affrontare una delle troppe zone buie della
coscienza occidentale, ma il limite di farlo attraverso un cinema di facile
presa e di effetti maldestri (terribile l’uso delle musiche finali). Orso
d’argento al festival di Berlino. Da vedere per riflettere: su Guantanamo, ma
soprattutto su cosa chiediamo al cinema.
ROCKY BALBOA (Usa, 2006) di e con Sylvester Stallone
Bandito da Hollywood, umiliato dai
produttori per il suo rifiuto di subire le loro imposizioni, alla fine Stallone
ha dovuto cedere, e torna nelle sale all’insegna del solito marchio: oggi un
Rocky, domani un Rambo. Ma in questo sesto episodio della saga di Balboa c’è
anche molto di Stallone stesso, e della sua disperata ricerca di una dignità da
riconquistare. La storia è ovvia: vedovo e solo, con un figlio in carriera che
si vergogna di lui, Rocky s’è ridotto a gestire un ristorantino in cui rievoca
stancamente ai clienti le gesta di un tempo; finché decide di sfidare le leggi
della vita e tornare sul ring, affrontando il giovane campione in carica che
non ha ancora imparato a soffrire. Il film è l’ennesimo omaggio di Sly ad un
cinema semplice e antico, basato su emozioni elementari e su un patetismo da
quartieri popolari: la caratterizzazione scivola sempre verso un malinconico
macchiettismo, ma sotto c’è qualcosa di autentico. La ricerca fuori moda della
dignità, mentre trionfa la ricerca della felicità.
LE ROSE DEL
DESERTO (Italia, 2006) di Mario Monicelli,
con Michele Placido, Alessandro Haber
Nel più ambizioso cinema italiano di oggi, la
cultura pubblicitaria della bella immagine si è fusa con un’idea massificata
d’autore, dando origine a molti film in cui il talento, quando c’è, si esprime
attraverso immagini leccate che sembrano tanto artistiche e in realtà sono solo
banali compiacimenti grafici. Monicelli, invece, appartiene a tutt’altra
cultura cinematografica, quella incisiva degli Steno & Co. che alla Mostre
veneziane del ventennio irridevano i gerarchi analfabeti incantati dalle “belle
inquadrature”. A novant’anni suonati, si permette perciò di dare una piccola
lezione con questo dimesso film di guerra, in cui immette un ritmo brusco e
nervoso, animato da un continuo movimento interno, fatto di strappi, ellissi e
dettagli sarcastici. Un cinema sbrigativo e dinamico, tutto campi medi, qua e
là anche sgrammaticato per via dei limiti produttivi: ma nel suo insieme vitale
e caustico, anche se poi limitato da un impianto che inserisce in schemi
bozzettistici le unghiate più pungenti sulla guerra d’Africa dei soldati
italiani.
A SCANNER
DARKLY (Usa, 2006) di Richard
Linklater – animazione
Il cinema contemporaneo intreccia sempre più
freneticamente realtà e finzione, da una parte puntando sul docudrama,
dall’altra imboccando la strada della cartoonizzazione del reale. E’ quello che
succede in questo film, dove il regista indipendente Linklater (“Prima
dell’alba”, “School of Rock”) riprende un processo di animazione rotoscope
digitale già sperimentato nel noiosissimo “Waking Life”, e trasforma in disegni
animati riprese effettuate dal vero con attori in carne ed ossa. Stavolta, il
risultato è più intrigante, anche perché la sua sospensione tra realtà e
artificio permette di inoltrarsi in un universo alterato e visionario come
quello di Philip K.Dick: e la vicenda riguarda l’agente Arctor, che in un
prossimo futuro s’infiltra fra i tossici per scoprire i traffici di una
sostanza psichedelica, ma finisce così in una sconvolgente deriva mentale. Il
tutto con disegni fluttuanti, in una sorta di trip ai margini del sistema, dove
si riconoscono i tratti di Keanu Reeves, Robert Downey jr., Woody Harrelson...
SNAKES ON A
PLANE (Usa, 2006) di Robert
Ellis, con Samuel Jackson
Ecco uno di quei film che un tempo faceva
piacere scoprire in qualche sala di periferia, godendosi tutto il loro
estremismo demenziale, il delirio action, il ritmo infernale senza personaggi
né motivazioni credibili. Tutto si svolge a bordo di un aereo, dove l’agente
Samuel Jackson deve scortare il testimone di un omicidio: per impedire che
arrivi in tribunale, l’assassino non troverà di meglio che stipare l’aereo di
serpenti, liberarli durante il volo e aspettare che scoppi il caos a bordo. Per
un po’ il film va avanti con trovate da thriller goliardico (i serpenti si
scatenano nelle toilettes, assaltano i genitali delle vittime, s’infilano sotto
i vestiti), poi passa a gratuiti effetti splatter ed infine sprofonda
nell’incubo freudiano costellato di gag farsesche (un passeggero afferra il
cagnolino della vicina e lo getta tra le fauci di un rettile). Come variante
sull’ossessione aerea Usa non è male, e si prende meno sul serio di “United
93”: ma restando nell’ambito di uno spettacolo allegramente primitivo.
LA
SCONOSCIUTA (Italia, 2006) di
Giuseppe Tornatore, con Xenia Rappoport, Michele Placido
Una ragazza ucraina cerca disperatamente
lavoro in una città settentrionale, ricorre a metodi spicci per sistemarsi
presso la famiglia di un orefice e si comporta poi in modo sempre più strano.
Ma chi è in realtà quella donna? E’ un’ex-prostituta sfuggita alle grinfie del
racket, sta progettando qualche furto clamoroso, oppure c’è sotto qualcosa di
più tortuoso? Tornando al cinema sei
anni dopo “Malèna”, Tornatore recupera la tradizione del racconto “di genere”,
mescolando noir e melodramma al servizio di un’idea di spettacolo come catena
di montaggio delle emozioni. Per tutta la prima ora riesce a conquistare lo
spettatore, nonostante il mistero della protagonista venga inframmezzato da
flashback trucemente didascalici: poi non resiste alla tentazione di accumulare
scene forti, puntando ogni volta sull’effetto più ridondante, sottolineato
dalle musiche di Morricone. Il risultato è un film di situazioni alla lunga
artificiose, girate però con un respiro visivo così raro nel cinema italiano da
far dimenticare i difetti: ma se le stroncature per banali dettagli d’intreccio
sono criticamente penose, è anche vero che la presunzione d’autore impedisce
qui a Tornatore di scalare l’umile moralità del cinema di genere.
SCOOP (Gb-Usa, 2006) di Woody Allen, con Woody
Allen, Scarlett Johansson
Una giovane giornalista seduce un rampollo dell’alta
società britannica, e intanto cerca di scoprire se è lui un misterioso serial
killer di belle ragazze: ad aiutarla ci penserà un mago pasticcione, abituato
ad ingannare i suoi spettatori con trucchi ed espedienti. Questo secondo film
di Woody Allen girato in Inghilterra sembra quasi la storia drammatica di
“Match Point” raccontata dal punto di vista delle amate commedie
giallo-rosa-fantasy: lo spunto è apparentemente frivolo e il ritmo leggero, ma
dietro la storiellina da commedia d’altri tempi Allen ripropone una sua visione
del mondo e dello spettacolo, dove le ambizioni alte si nascondono dietro un esercizio
di illusionismo teatrale. Appesantito da citazionismi sterili e dalla solita
discutibilissima direzione d’attori, ma con una sua esile grazia: ogni film di
Allen, in fondo, è un tenero e un po’ pretenzioso elogio dell’artigianato dello
spettacolo. Battuta: “Come nascita sono di confessione ebraica, poi mi sono
convertito al narcisismo”.
LA STELLA CHE
NON C’È (Italia, 2006) di Gianni
Amelio, con Sergio Castellitto
La vicenda raccontata in quest’ultimo film
di Amelio, ammettiamolo, è molto esile: protagonista, un operaio dell’Ilva che
si accorge come un altoforno venduto ai cinesi abbia un pericoloso difetto, e
parte allora per la Cina mettendosi faticosamente in cerca della località
sperduta in cui è finito l’impianto. Anche la morale è un po’ scontata, in
quanto contrappone un singolo lavoratore scrupoloso e “all’antica” ad una
società globale di precarietà diffusa, di cialtroneria e di mancanza di
responsabilità etica. Ma i pregi del film, va detto chiaramente, vanno cercati
altrove. E vanno cercati soprattutto in quella prima ora in cui Amelio segue il
suo protagonista in un mondo sconosciuto, costruendo ogni sequenza sul filo di
una tensione e di un’emozione che stanno tutte dentro l’inquadratura, nel
rapporto tra un corpo e uno spazio, un attore professionista e un universo
sconosciuto ripreso dal vero, una finzione debole immersa in un viaggio dentro
la realtà. Un cinema al tempo stesso semplice ma denso e sapiente.
IL VENTO CHE
ACCAREZZA L’ERBA (Gb, 2006) di
Ken Loach, con Cillian Murphy
Nel 1990, Ken Loach aveva scatenato un
putiferio al festival di Cannes, denunciando in “L’agenda nascosta” i crimini
inglesi nell’Irlanda anni ’80. Adesso torna sulla questione irlandese da un
altro punto di vista: rievocando cioè le lotte che portarono all’accordo anni
‘20 per l’indipendenza, secondo quanto già narrato da un kolossal pompier come
“Michael Collins”. Puntualmente, è stato accusato di contrapporre in modo
schematico irlandesi buoni ed inglesi cattivi, ma in realtà l’argomento del
film è tutt’altro: dopo aver posto una serie di interrogativi sull’uso della
violenza, Loach passa infatti a concentrarsi sulla divisione all’interno dello
schieramento irlandese tra quanti vogliono proseguire la rivoluzione per
cambiare davvero anche la società, e quanti invece si accontentano di una
prospettiva nazionalista. Il problema del film, narrativamente squadrato ed
efficace attorno al suo nucleo
familiar-melodrammatico, non sta insomma nell’opporre irlandesi a inglesi: ma
nel domandarsi se può esserci vera libertà in una società ingiusta.