CarloRomano
anime strane
Ci sono i Genna e gli Evangelisti, i Camilleri e i Falletti, i Moresco
e i Siti, gli Scarpa e le Mazzantini, c’è Piperno e c’è Busi, tutti in qualche
modo glorificati o come grandi scrittori - il più grande dell’ultimo secolo,
dice un recente esegeta di Busi e c’è chi ha detto altrettanto di Falletti - o
come scrittori di successo o come quel che passa il convento. Si ragiona anche
dei tempi e gli scrittori possono essere grandi proprio perché i tempi sono
piccoli e anche piccoli coi tempi grandi oppure piccoli coi piccoli e grandi
coi grandi. Esaurito lo sperimentalismo, estinta l’avanguardia, il momento
sembrerebbe propizio a un ritorno in grande stile della grande narrazione, ai
fasti dell’Ottocento, ai vertici dell’intrigo e dell’agnizione. L’abbondanza di
romanzi che superano le trecento pagine, spesso del doppio e oltre, la
naturalezza con la quale li si affronta, andrebbe vista, così fosse, come una
conferma.
Il libro che negli ultimi tempi
più mi ha preso nelle sue spire è tuttavia un libro che non arriva alle
centocinquanta pagine, per giunta lo si deve forse considerare tributario più
del vecchio sperimentalismo che d’altro. Ad ogni modo, se per Anime strane di Marco Ercolani e
Lucetta Frisa (Greco & Greco editori, Euro 11,00) dovessi ragionare in
termini di “capolavoro” non avrei esitazioni a farlo. Fra l’altro la metà
maschile della coppia di autori è dedita per il solito a scrivere di “vite
immaginarie”, questa volta però le vicende raccontate sono sì strane, ma
le anime son vere, cosicché sulla base delle personali convinzioni il
lettore potrà decidere se la realtà supera la fantasia o è l’arte a farla più
vera di tutte e due.
Trovo emblematico il seguente
racconto: una donna è ricoverata per demenza senile. In casa viveva fra cataste di carta di ogni tipo, dal
pavimento al soffitto, dal bagno alla cucina. Sul letto teneva due sagome di
cartone, due simulacri sui quali si poteva leggere, con lettere ritagliate dai
giornali, “ti amo”. Eccola la realtà, potrebbe essere un’ “installazione d’arte
ambientale” o, più semplicemente, una storia di “matti”. Ercolani d’altra parte
lavora in qualità di psichiatra presso una struttura pubblica della periferia
genovese, facile per lui attingere dunque a una casistica educatamente
riservata. Per parte sua la Frisa – che con Ercolani collabora in diverse
avventure intellettuali oltreché nella vita - ha partecipato alla “regia” del
libro e vi ha aggiunto alcuni casi personalmente osservati. Il libro è un
succedersi di rapide “schede” nelle quali non si distingue il garbo di una
tenue ironia dalla più pessimistica delle crudeltà.
Interessante è collegare questi levigati racconti che in uno schizzo
riescono a dire tutto, alla prosopopea del linguaggio burocratico e delle sue
pretese di verità. Un altro libro di gestazione genovese appena uscito in
libreria ce ne offre l’opportunità. In Il
delitto non sa scrivere (DeriveApprodi, Euro 14) Alfredo Verde,
professore di Criminologia all’Università di Genova, insieme a Francesca
Angelini, Silvia Boverini e Margherita Majorana, disseziona, con esiti a tratti
comici, lo stile agghiacciante – il più delle volte venato di malcelate
ambizioni letterarie - di quelle perizie che vengono portate in tribunale come
frutto scientifico di indagini psichiatriche. In particolare viene sviscerata
quella relativa al caso di due fratelli che, giudicando il mondo esterno alla
loro abitazione come un’accozzaglia di drogati e delinquenti abituali,
finiscono per innescare una gigantesca rissa nel piccolo centro dove vivono. A
detta degli autori del libro questa perizia si avvale poco del “sapere”
specifico e si concentra maggiormente sull’aspetto narrativo, dunque sul
crescendo di paranoia e violenza.
Andrebbe a questo punto valutato dove si manifesti più cattivo cinismo,
se nei racconti di Ercolani e Frisa o nella perizia di un tribunale per
definizione umanamente equo. Uno scrittore della “grande Vienna”, maturo di
studi medici e curioso della nascente psicanalisi, Arthur Schnitzler, osservava
più di un secolo fa che se l’umanitarismo come idea religiosa costituiva un
equivoco, come idea etica era un’illusione.
“Il secolo XIX”,
8 ottobre 2006