Jean Montalbano

Anders dalla torre

nther  Anders:  LO SGUARDO DALLA TORRE. Mimesis, 2012

Quando negli ultimi anni G. Anders (1902-1992) sostenne la possibilità di ricorrere ad atti mirati ad personam come autodifesa dagli sfregi di coloro che nel mondo avevano, da Hiroshima in poi, installato il dominio del terrore, ci fu chi, ex-R.A.F., gli diede del terrorista da salotto dubitando che il filosofo disponesse del fegato necessario per passare dalla teoria, per quanto critica, ai fatti. L'episodio va ricordato almeno per situare la posizione cui un pacifista ed attivista di insospettabile pedigree venne costretto dalla logica delle cose al cui svelamento (soprattutto con L'uomo è antiquato ) aveva pur dato un formidabile contributo per un mezzo secolo. A prima vista leggibile come bilanciamento di un disperato programma filosofico, la produzione letteraria di Anders vuole dotare di un supplemento immaginativo l'uomo distorto e reso invalido dalla razionalizzazione tecnica, atrofizzato nello sviluppo della sensibilità dalla logica produttiva che lo fa sentire colpevolmente inaffidabile rispetto ad una strumentalità cui pure ha dato avvio. La ragione totalizzante produce oggetti calcolabili che nascondono potenzialità incalcolabili; l'uomo di Anders è incompetente nel prevedere le conseguenze del suo agire, tanto da fargli sostenere che forse il solo potere che sfugga all'uomo contemporaneo è di non sapere-potere disfare quanto con la tecnica è divenuto possibile fare. L'uomo andersiano può progettare la distruzione pur restando, per un analfabetismo dei “sentimenti”, incapace di sentirsene responsabile. Fatalmente imprevidente, è  come se con l'immaginazione  non riuscisse ad essere all'altezza di quel che produce, col rischio di perdere, insieme alla costruzione dell'esperienza, tutto un mondo; questa insicurezza, esemplificata dalla condizione atomica, cui Anders dedicherà molto del proprio tempo nel secondo dopoguerra, colloca il mondo umano “alessandrino” a lui contemporaneo in uno scarto o discrepanza fra  il produrre e l'immaginare, nel mercato dove prolifera una pluralità di deboli mondi equivalenti. In generale, dove prima c'erano, ancora rassicuranti, il modello ideale e la replica, subentrerà  il rinvio seriale.

Da qui l'arrancare del passo corto della nostra sensibilità (immaginazione, sentimenti, perfino senso morale) dietro la logica e verità sfuggenti del funzionamento dei prodotti. Questo inatteso e non calcolabile sovrappiù di possibilità alcuni decenni fa poteva ancora  essere colto (come fecero i surrealisti) ricorrendo all'immaginazione, diventata un altro organo della verità. Solo che ora, constata amaramente Anders, possiamo fare a meno del progetto di Breton essendo il nostro mondo già troppo fantasioso ed incomprensibile di suo. Se il mondo è un muro d'immagini che catturano lo sguardo seducendolo ed accompagnandolo nella falsa prassi, “il fantasticare che oggi è richiesto...non consiste più nel raffigurarci l'irreale e nell'immaginare esseri fiabeschi...Al contrario significa confrontarci con l'odierna realtà davvero fantastica, interpretandola in maniera adeguata”; la fantasia diventa un metodo dell'empiria, organo per percepire quanto, oltre la confortante funzionalità, può profilarsi come effettivamente enorme, spropositato e inatteso. Trasformare ciò che si presenta come dato naturale, che va da sé, in mostruosità, scorgere faglie e incrinature nella liscia costruzione della tecnica è compito di questa  immaginativa fenomenologia, unica risposta all'altro fantasticare che consiste nel minimizzarne la portata facendoci incolpevolmente colpevoli.

In questo rilancio Anders incontra la deformazione informe di Kafka ( su cui scrisse un saggio, contro i kafkismi del dopoguerra ) e un artista come John Heartfield che nel fotomontaggio sfigurava e ricomponeva la realtà per rendere percepibile quanto è invisibile ad occhio nudo (il montaggio non maschera o imbelletta, makes up, le cose ma rivela e scopre un mondo). L'odradek del praghese esalta il gioco dei rimandi di cui l'uomo non riesce a scorgere lo scopo finale, mentre la metamorfosi ricorda la tradizione favolistica che mediante lo scambio uomo-bestia esercita una funzione didattica. Inversione e rovesciamento servono in un mondo in cui l'abituale, l'immediatamente evidente, non desta più orrore: qui lo spaventoso, l'uomo divenuto insetto, va indicato come abituale, realistico. Pure l'aggressività di un Georg Grosz è letta in questa costellazione di nomi. Essa toglie le “forme” alla sua epoca lasciando la brutalità dell'apparenza: vestita e nuda, la realtà si presenta sempre insieme al maquillage, lo scheletro con la carne. Le immagini predilette da Anders tentano di bloccare le reazioni banali e meccaniche. Lo choc si produce dall'incontro tra irrealtà e precisione di un' immagine, nella sua dissonanza echeggia l'asincronia tra soggetto e mondo. Risorse come la deformazione e l'iperbole, riprendendo ed accelerando fattori e tendenze già operanti, ne anticipano gli effetti. Dunque “l'esagerazione è un'attività politica” e l'immaginazione un organo di verità che sospende, scrive Anders, “le relazioni abituali e meccanizzate”.

Con queste premesse, contro l'indebolimento di sensazioni ed immaginazione, si sarà intuito quanto peculiare sia la favolistica raccolta in Lo sguardo dalla torre (per la cura di Devis Colombo). I mini-racconti, apologhi o parabole, da leggere insieme al romanzo La catacomba molussica (edita da Lupetti qualche anno fa) coprono circa un quarantennio di vita dello scrittore, facendo irrompere nell'agone filosofico re, viandanti e divinità, secondo modalità che ricordano le raccolte medievali ma non disprezzando improvvise aperture e sgomenti futuristici. Gli dei, spesso smemorati o distratti, hanno nomi che suonano come quelli di idoli o feticci (Zao, Bamba), giusto contraltare di un'umanità contratta ed impaurita. Sono favole, antidoto alla forza seduttiva delle immagini-del-mondo già vincenti, che, assecondando l'intento andersiano di una filosofia “d'occasione “, portano il dubbio dove sembrano dispiegarsi il funzionale, il rassicurante ed il naturale del mondo regolato dalla tecnica. Invece di sospendere il giudizio, Anders plaude alla deformazione ed all'esagerazione, fino a vedere mostri dove, remissivamente, altri vorrebbero scorgere l'assegnato procedere della tecnica.

Meno didattico di quello brechtiano, il suo “teatro” richiede le fatiche del lettore poco abituato a simili “misteri”, le sue allegorie rovesciate mal si adagiano nel solco della piacevole testualità. Sono testi, dal quasi aforisma alle poche pagine, modellati da una duplice esigenza. Se viste dall'alto di una torre le nostre vite rischiano di sembrare istanti d'irreale brevità, solo uno sguardo tendenzialmente portato a livello della strada può coglierne la disperazione e l'inespressa infelicità. Per Anders, accompagnare la saggistica astratta con interventi in forma favolistico-immaginativa fu il modo di esemplificare il proprio cammino di “volgarizzazione”, sottraendosi al fuoco congiunto del discorso accademico e del'irriflesso senso comune, la sua maniera di comunicare l'ostinato rifiuto di dar alcunché per scontato o di-per-sé-evidente. Era un'altra maniera di svolgere il programma già tracciato in gioventù, quando neppure gli echi e motivi rilkiani riuscivano a imbalsamarne l'irrequieta intelligenza: “Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Abbiamo pure il compito d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si muti in un mondo senza di noi”. Questo dovrebbe bastare per non ricordarlo come un minore a fronte degli affini Kafka, Brecht o Beckett o  un epigono, con la sua tesi della “dittatura morbida”, del più fortunato Marcuse con la sua “tolleranza repressiva”. “Fogli di Via” Luglio 2012