Eric Stark
americani
John Jeremiah Sullivan: AMERICANI . Sellerio, 2014 | Chuck Rosenthal: A OVEST DELL’EDEN. Mattioli, 2013
Si sa come vengono assemblati certi libri: la
collezione di articoli, reportages, interviste originariamente apparsi su
riviste trova nella firma dell'autore spesso la più consistente ragion
d'essere. Così quel che istruiva e distraeva, nella sala d'aspetto o nel
viaggio verso il lavoro, stretto adesso, con altri congeneri, nella forma di un
libro, rischia di vedersi porre domande e richieste per le quali non era
attrezzato. Nei casi migliori, il filo rosso dell' abilità narrativa ed
argomentativa dovrebbe bastare a tenere insieme la disparità oggettiva di testi
dal respiro appena più lungo di quelli apparsi sulla stampa quotidiana, che
come ormai sappiamo, non servono neanche più ad incartare il pesce.
Gli Americani
(titolo it. del più problematico originale Pulphead) di J. J.
Sullivan non fa eccezione e probabilmente occuperà un posticino nella lunga
storia del nuovo giornalismo americano finchè saremo disposti a dar largo
credito all'immaginario cui si alimenta e alla minitradizione cui si apparenta.
Passato qualche mese, i testi ivi raccolti seguiranno forse il tracciato dei
periodici (GQ, Harper's, Paris Review ecc.) di partenza avendo
beneficiato però di una seconda chance ed apportando pure qualche spicciolo
all' eterno autore sottopagato. Epicizzare le gesta del cantante dei Guns 'n'
Roses o togliere qualche schizzo di fango al Michael Jackson degli ultimi anni,
dandogli merito di essere entrato nella tradizione americana assumendo (e
giocando con) l'ambiguità (anche razziale): se questo programma non affascina,
sarà più piacevole soffermarsi sulle pagine dedicate al naturalista sui generis
francese Rafinesque, il quale appuntava nel primo ottocento che le Storie
d'America somigliano a sogni e frammenti. Nel ricordarlo, Sullivan aggiunge che
spesso il “Nuovo Mondo ha una maniera tutta sua per riuscire a non essere mai
nuovo“. Tra i due scogli dell'invenzione/scoperta e del tramandato/tradito si
barcamena molto del giornalismo americano che riesce a trovare editori in
Italia. Subito anche per il giovane Sullivan si corre a fare i soliti nomi (G.
Lewis, H. S. Thompson, N. Tosches, G. Marcus): stessi ambienti frequentati
(blues, meglio se d'anteguerra, rock-pop e dintorni, aggiornati e degradati,
tenuti a distanza da un testimone disincantato e consapevole, mai acido),
lontani dalla generazione dei vecchi maestri (Talese, Wolfe, Capote o Mailer).
Il megaraduno di christian rock, dove le migliaia di
candele accese nella valle notturna fanno subito pensare alla messinscena della
Riefensthal, sotto altre penne o tasti avrebbe originato fiumi di invettive
sociologizzanti: qui niente sarcasmi, anzi ammissione che nelle facce meglio
scrutate vi è certezza di speranza. La stessa ormai scomparsa dalla posa
dell'ultimo agrario Andrew Lytle (amico di Allen Tate e R. P. Warren, estremo
avanzo del “rinascimento sudista”) o smarrita dalle tante famiglie Manson
sfornate dai reality shows. Pagine più o meno riuscite ma che attestano una
pulsione tuttora viva in America, quella di favoleggiare, producendo miti in
continuazione con cui dar senso alle paure. Per tal urgenza il reportage
programmato e scadenzato rischia di andare stretto all'anima profonda dello
scrittore, spingendolo a trasformare anche la canonica gita familiare nella
perversa utopia di Disneyworld (Florida) in un'esperienza psichedelica.
Su questo pedale spinge Chuck Rosenthal in A
ovest dell'Eden (Mattioli), pagine dove risulta problematico tracciare
linee divisorie fra dati di partenza e trasfigurazioni. Nella sua furia
mitologizzante, le colline di Topanga sono rampe per impennate liriche che
trascinano resti di celebrità hollywoodiana, avanzi di fama letteraria e
spazzatura people (dalla lettura abbiamo tra l'altro appreso che, tra le pieghe di quel presente astorico, sopravvivono
gli hyppies). Ogni cosa in quella regione collabora ad una permanente
disneywold, tutto è talmente libero da poter rimanere intrappolati all'interno
di un film.
Rosenthal ha ben chiare le filiazioni: “ Se un
giornalista indaga i fatti, il new journalism i problemi, il gonzo
writer se stesso e lo scrittore di creative non-fiction l'esperienza
personale, il giornalista magico indaga la metafora della vita “. Fuori non c'è
nessun fatto/verità da riportare nel medium trasparente della scrittura.
Postmoderno, consapevole che non ci sono fatti da scoprire dietro le parole ma
da ritrovare nelle storie, Rosenthal fa finta di scrivere libri per creare miti
su se stesso. E pazienza se il risultato sarà una scrittura propiziatoria,
tanto quanto poteva esserlo una pittura rupestre e se i soli miracoli
destrutturati somiglieranno a quelli della figlia, Jesus, che moltiplica gli
hamburger con l'aiuto di una Master Card. In questo clima di accettazione e
resa all'inaspettato, a tratti Rosenthal ricorda pagine di Brautigan
(decostruzionismi in meno) e, al di là di tutto il teorizzare, proprio dai
beats, e da Kerouac cui ha dedicato un libro, discende quello sguardo zen sulla
spazzatura del suo giardino, materia prima da cui partire.
“Fogli di Via”, novembre
2014