Carlo Romano
libri e almanacchi
La
stagione classica degli Almanacchi Letterari in Italia comincia con Valentino
Bompiani alla Mondadori (1925) e si conclude con Valentino Bompiani alla
Bompiani (1980). La tradizione è stata ripresa negli ultimi anni, con raffinata
discrezione affidata alle cure di Ranieri Polese, dalla Guanda, casa editrice a
sua volta raffinata e discreta. L'ultimo di questi Almanacchi coinvolge il Fare
libri e come, con l'avvento delle nuove tecnologie, stia cambiando il
lavoro dell'editoria. I contributi sono numerosi e toccano argomenti salienti
che vanno dall'usuale richiamo esteriore relativo alla confezione delle
copertine (Marco Belpoliti) al mestiere di libraio (James Daunt) con
l'interrogativo, in quest'ultimo caso, se sia più opportuno trasformarsi in
venditore in rete o mantenere scaffali e vetrine sulla pubblica via (Daunt,
fondatore di una catena di librerie in Gran Bretagna, propende per la seconda
soluzione). Il fatto è che tutto risulta complicato da una situazione di
incertezza dove prendere delle decisioni, per chi vuole investire nel settore,
è non solo difficile sul piano dei risultati economici ma anche su quello
personale, della considerazione di sé e dell'estetica. Per giunta, le
tecnologie informatiche hanno scombussolato il sistema del “diritto d'autore” e
“di copia”, magari poco popolare per quanto da tempo ormai immemorabile
acquisito e dato per scontato. Quelle stesse tecnologie hanno del resto
favorito la massiva soddisfazione di un bisogno di pubblicazione che la stampa,
coi suoi costi, rendeva gravoso.
Non
è lontano dal vero Robert Darnton, il grande storico del Settecento che si è
interessato fin nei dettagli alla produzione libraria di quel secolo, a
sostenere che con la biblioteca digitale “rinasce l'illuminismo”, perlomeno
rinasce qualcosa di molto vicino a quel gran daffare di articoli, libelli,
libri che al tempo dello Stato assoluto, per evitare grane, si davano per
stampati un po' ovunque (in specie ad Amsterdam) ma non dove erano stati
effettivamente impressi. Lo stesso “diritto d'autore”, in altre parole la
proprietà letteraria, poteva agli inizi rivelarsi un'arma di garanzia contro
l'invadenza dei governi per tentare così di evitare l'odioso monopolio che i
sovrani pretendevano di avere sulle idee e quindi la regia censura. Le colonie
del Nordamerica ammettevano tuttavia che si potessero riprodurre liberamente le
opere pubblicate oltreoceano, “una virtù inestimabile” la definiva Beniamino
Franklin. Le cose andarono poi diversamente e gli antichi privilegi regali
finirono per ripresentarsi nel nuovo monopolio che conosciamo. Giulio Giorello,
nel suo contributo, non ha remore nell'affiancare la moderna pirateria
informatica al democratico repubblicanesimo dei pirati dell'Atlantico dei
secoli che furono e lo fa con quel suo ben conosciuto brio dove amalgama
fervori infantili a solide convinzioni filosofiche e, torcendo la teoria dei
“tre mondi” (gli oggetti fisici, gli stati mentali, i prodotti del pensiero)
del suo favorito Karl Popper, arriva alla conclusione che “occorre la libertà
di riprodurre i supporti fisici”, quella “di poterne fare esperienza” e quella
“di poterli valutare secondo i modi dell'atteggiamento critico”. Non sono tre
differenti libertà, precisa, “quanto tre diversi attributi di un'unica,
sostanziale libertà”.
“il Secolo XIX”, 23 febbraio
2013