Jean Montalbano
Alligator blues
Bruce Iglauer et Patrick A. Roberts: Bitten
by the Blues. The University of Chicago
Press, 2018
Bruce Iglauer, oltre che fondatore e presidente della etichetta Alligator, è pure all'origine della rivista “Living
Blues” e del Chicago Blues Festival: buona parte dell'interesse delle pagine
(stese in coppia con il prof. Roberts) si deve, oltre che agli artisti da lui
messi sotto contratto, alla stessa irrequieta personalità di Iglauer, non esente da difetti, intransigente,
perfezionista fino all'autoritarismo cosa che non gli ha negato la riconoscenza
e fedeltà degli stessi musicisti.
Senza risalire
all'Africa, gli autori dipanano per almeno mezzo secolo la memoria della label chicagoana ripassando per
il lettore i momenti migliori del blues elettrico (oltre 300 album pubblicati)
ad opera di Albert Collins, Carey Bell, Luther Allison,
Son Seals, Walter Horton o Hound Dog Taylor, e ripercorrendo alti e bassi di
un'impresa dedicata al blues nero all'interno dell'ascesa e declino
dell'industria discografica indipendente.
A spingere il
giovane Inglauer, all'alba dei anni 70 stagista
presso la Delmark (etichetta e negozio centrati sul
blues) verso il mestiere discografico fu il desiderio di registrare e
pubblicare la slide di H. D. Taylor giudicata,
diversamente dalla vulgata che vuole il blues triste, la più gioiosa mai
ascoltata, ritmica, intensa capace di infondere buonumore anche negli episodi
lenti e tematicamenti tristi (condizione riassumibile
nel motto: meglio una cattiva sorte che nessuna). Più in generale lo scopo era
di portare il “verbo” delle zone depresse della città ventosa, perlopiù
ignorato fuori dai confini chicagoani, a conoscenza
di un pubblico bianco ignaro, spesso più di quello europeo, della cultura nera
cresciuta nei ghetti affollati di immigrati provenienti dal sud. La promozione
curata dallo stesso factotum mirava soprattutto ai colleges
e alle radio FM: un bacino prevaricato dalle dominanti sonorità rock cui però
il blues crudo proposto dagli artisti Alligator
poteva risultare non del tutto alieno.
Nell'impresa di
metter su una label dedicata alla musica di nicchia
preferita, Inglauer era stato preceduto tra gli altri
(oltre a Koester, nel caso della Delmark,
anch'egli studente al college) da Chris Strachwitz
per l'Arhoolie, tutti ripetendo le mosse delle
etichette indipendenti degli anni della depressione come la Paramount o
l'American Record Co. Già attive da anni, con cataloghi più inclusivi, erano la
Federal, la King e le notissime Chess e Sun. Il boss dell'Alligator ben
servito da una buona memoria rievoca la scoperta dei piccoli club di Chicago (Florence's, Theresa's, Zoo Bar ecc) la scommessa sul trio di Hound
Taylor e la sua "genuine houserockin' music",
la distribuzione in proprio porta a porta, la crescita e gli intoppi
finanziari, le difficoltà comunque superate grazie alla ricchezza della scena
musicale cui attingere, i guai personali dei musicisti di cui occuparsi in
quanto loro tour-manager e confidente, fino ai preoccupanti e irreversibili
smottamenti dell'industria discografica negli ultimi decenni. Col passare degli
anni il rigore degli inizi si sarebbe allentato, dando modo a Iglauer di avventurarsi anche in altri territori, vedi il
rock di Johnny Winter, la Louisiana di Prof. Longhair o Dr. John o la zydeco
music di C. Chenier, o addirittura (ma fu un flop) il
reggae. In un accesso di pentimento, Iglauer segnala
la mancata collaborazione (per propria colpa) con l'esordiente Stevie Ray Vaughan o il suo disinteresse
verso il lato british del blues revival (affare di
ragazzi bianchi e radici corrotte o forse era chiedere troppo a chi già aveva
subito una precedente british invasion).
Vero è che quel capitolo, come l'operazione di scavo e recupero del blues tra
le due guerre e del “primitivismo americano”, erano già presidiati
autorevolmente da altrettanti fan e ossessionati: tanta era l'attualità da
documentare da sconsigliare a Iglauer ogni
intenerimento verso un'età mitica da riesumare.