Alfredo Passadore

ossa nel deserto

 

L’abisso si spalanca  a pochi chilometri dalla modernissima  El Paso, Texas, un’oasi di cemento, quarzo e giardini lussureggianti che sorge, come un miraggio, in mezzo al deserto. Basta attraversare il ponte internazionale Lerdo e si è già in Messico: Ciudad Juàrez, benvenuti all’inferno. Un inferno le cui vittime sacrificali sono in maggioranza giovanissime ragazze o addirittura bambine. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, dal 1993 a oggi vi sono state violentate e uccise 382 donne, mentre quelle scomparse letteralmente nel nulla sarebbero quasi un migliaio. E in  almeno 142 casi, questi omicidi sono quasi certamente opera di assassini seriali.

  Ciudad Juàrez è una città di poco più di un milione di abitanti, che sorge al confine settentrionale tra Messico e Stati Uniti, nello stato di Chihuahua,  alla confluenza tra Rio Grande e  Rio Bravo, una zona di confine dove, ogni anno, transitano nei due sensi quasi quaranta milioni di persone, molte delle quali clandestini diretti al Nord, verso il sogno americano. Ma è anche l’epicentro delle maquiladoras, le fabbriche a capitale straniero, soprattutto statunitense, che producono a basso costo per il mercato estero: a Juàrez nel 1996 se ne contavano 372, che davano lavoro a 220 mila persone, in maggioranza donne. La città inoltre è uno snodo focale sulla mappa del narcotraffico, con l’omonimo cartello legato alla famiglia Fuentes che controlla un fiorentissimo  mercato della droga.

  “Al pari di tante città messicane – scrive Sergio Gonzàlez Rodrìguez, autore di un saggio fondamentale sulle stragi, edito ora da Adelphi con il titolo Ossa nel deserto – Juàrez si presenta come un enorme cortile sul retro in cui il sovraffollamento, l’accumulo di oggetti obsoleti, il verde sporadico, l’asfalto irregolare e le strade polverose convivono con l’efficienza delle macchine, le telecomunicazioni, i servizi moderni, l’industria d’avanguardia. La protesi di cemento e l’alta tecnologia con i terreni incolti cosparsi di immondizia, di plastica, buche, ruggine e brandelli di stoffa”.

  La strage comincia il 23 gennaio 1993 con l’uccisione di Alma Chavira Farel, il 25 tocca a Angelina Luna Villalobos, il 17 febbraio viene ritrovato un nuovo cadavere in condizioni talmente pietose che è impossibile identificarlo. Continuerà così, a un ritmo martellante, fino ai giorni nostri.  All’inizio pochi danno eccessiva importanza alla cosa: Ciudad Juàrez, con i suoi oltre mille bordelli,  è un luogo pericoloso per le donne, ogni anno vi vengono denunciati migliaia di reati a sfondo sessuale. La città va fiera per aver inventato la Margarita, ma il cocktail che propone ai suoi abitanti ha il sapore molto più acre della violenza gratuita, dello sfruttamento esasperato e del cinismo che annienta il valore della vita umana. Le donne sembrano vittime predestinate: la società maschilista e patriarcale sfoga su di loro le proprie frustrazioni impotenti. Il lavoro, che avrebbe dovuto renderle libere, le fa oggetto di rabbia ulteriore per la pretesa indipendenza e le espone, mentre si avviano sole verso le fabbriche al mattino, o quando rientrano a casa a tarda notte, alla piaga dei  rapimenti di strada, trasformandole in altrettanti corpi a perdere di un’industria del massacro.

  Nel 1995 gli omicidi di donne hanno già superato la quarantina e, con la morte di Elisabeth Castro Garcia, 17 anni, che scompare all’uscita da scuola il 14 agosto e il cui corpo viene ritrovato massacrato cinque giorni dopo in una discarica, il caso esplode a livello nazionale. La polizia deve finalmente riconoscere che a Ciudad Juàrez sono all’opera uno o più killer seriali. Le modalità delle morti non lasciano dubbi: le vittime si assomigliano tutte, sono giovanissime, carine e portano quasi sempre lunghi capelli castani. Sono state strangolate dopo aver subito violenza sessuale, le modalità del ritrovamento dei corpi sono sempre identiche: le ragazze giacciono pancia a terra, nude dalla cintola in giù, scarpe e vestiti ammucchiati in ordine accanto al cadavere, spesso le mani legate dietro la schiena,  in quello che appare come un macabro rituale. Tutte sono state uccise in un  luogo diverso da quello dove vengono ritrovate. A ottobre dello stesso anno la polizia fa un arresto, si tratta di un cittadino egiziano, Abdel Latif Sharif, un chimico fuggito dagli Usa con una serie di accuse per violenza sessuale alle spalle, denunciato in Messico da una prostituta tossicodipendente. E’ il candidato ideale per fungere da capro espiatorio e le autorità annunciano con la grancassa la cattura del preteso serial killer, che ha per di più il pregio di non risultare messicano.

  Sarà l’inizio di una farsa nella tragedia. L’egiziano è imputato di otto omicidi, ma alla fine verrà condannato soltanto per uno, e anche in questo caso in totale assenza di prove consistenti. Intanto le uccisioni continuano a ritmo serrato. Le autorità, per non smentirsi, arrestano i presunti appartenenti a una gang, i “Rebeldes”, che avrebbero continuato la strage seguendo gli ordini dal carcere del chimico egiziano. I ragazzi manco si conoscono tra loro e tutta l’operazione appare una sfacciata montatura. La polizia si ripeterà anni dopo, quando arresterà una decina di autisti di autobus, presunti appartenenti alla gang dei “Chofores”, accusati anch’essi delle stragi in ottemperanza agli ordini del solito terribile Abdel Sharif.

  Ma la verità, purtroppo, è di ben altra natura. Le autorità non hanno nessuna voglia di indagare. Alle famiglie disperate delle ragazze scomparse spesso rispondono che le figlie o sorelle se la sono cercata, che magari avevano una doppia vita, che probabilmente sono scappate al di là della frontiera, e rinviano le ricerche fino a che non si trova un cadavere semisommerso in un rio o nascosto nella sabbia. Non è solo la iattanza del potere, il disprezzo per i più deboli di chi sta dalla parte dei potenti, c’è di peggio, molto peggio: il narcotraffico genera un flusso di denaro immenso, che ha corrotto non solo la polizia locale, ma addirittura le autorità dello stato e arriverebbe a lambire Città del Messico, lo stesso presidente Vicente Fox , nella persona di suo genero Valentin Fuentes Tèllez, la cui famiglia è una delle più in vista di Ciudad Juàrez.

  E i sospetti puntano decisamente in quella direzione. Si parla di un gruppo di locali notturni in cui si riuniscono membri della ricca borghesia e appartenenti ai narcos, di sordidi intrecci occulti tra potere e crimine organizzato, di festini orgiastici in cui verrebbero violentate e uccise ragazze e a cui parteciperebbero anche membri della polizia e della procura. Si vocifera di narcosàtanicos, di gangster affiliati alla santeria, al culto abominevole della “Santa Morte”, di iniziazioni con sacrifici umani, di  orge all’interno dei grandi ranch  che spesso nascondono sofisticati laboratori chimici per la raffinazione della droga. Nel 1989 la scomparsa di un giovane americano, Mark Kirloy, ha aperto uno squarcio inquietante su questo inferno: nello stato di Matamoros la polizia ha trovato, in un ranch appartenete a un noto narcotrafficante, 13 cadaveri orrendamente mutilati, resti di offerte rituali, scritte sui muri fatte col sangue e feticci. Il responsabile delle stragi, arrestato sul posto, ha ammesso  di appartenere a una setta di brujos satanici. C’è chi dice che anche Amado Carrillo Fuentes, il capo assoluto del cartello di Juàrez, sia stato uno stregone vudù: sono scenari che ricordano da vicino gli incubi del  film “Dal tramonto all’alba” di Robert Rodrìguez.

  Nel deserto di Ciudad Juàrez vengono fatte scoperte inquietanti, tra cui una grande tavola dipinta, marchiata con il segno dello scorpione, il simbolo dei narcos, ricoperta di figure di donne nude e di tracce di cera rossa e nera, che sembrerebbe un altare per riti malefici. Molte delle ragazze uccise presentano segni di mutilazioni corporee di tipo rituale, il più delle volte il taglio di un seno o di un capezzolo, l’asportazione di alcune dita della mano, coltellate alle parti intime. E molti cadaveri, ritrovati a pochi metri dall’ingresso dei ranch dei signori del narcotraffico, sono un segno sprezzante di sfida, un macabro avvertimento di intangibilità, orridi segnali di una guerra intestina per il controllo del territorio.

    Il caso, frattanto, ha assunto rilievo internazionale. L’FBI americana offre il proprio aiuto nelle indagini, ma non riceve alcun incoraggiamento dal Messico. Si mobilitano comitati internazionali. A una manifestazione a Ciudad Juarez per protestare dopo il ritrovamento di otto cadaveri di ragazze in un campo di cotone, partecipano anche Jane Fonda e Sally Field. Manu Chao tiene un concerto a favore delle vittime, Jennifer Lopez annuncia un film in cui sarà una coraggiosa giornalista che indaga sui delitti.

  Ma chi ha davvero indagato, nel frattempo, ha già pagato un prezzo esorbitante. Rodriguez autore del libro in questione, è stato aggredito su un taxi a Città del Messico ed ha dovuto essere operato al cervello. Altri sono stati meno “fortunati”: Lourdes Diaque, una giornalista messicana che conduceva una seguita rubrica radiofonica sul mondo femminile, e che si era occupata del caso Juàrez, è stata ritrovata morta in un sobborgo della capitale, uccisa e mutilata dopo essere stata stuprata. Stessa sorte per il giornalista Josè Ramìrez Puente, dell’emittente Radio Net di Ciudad Juàrez, anch’egli ucciso brutalmente dopo essersi occupato della strage.

Su Ciudad Juàrez cala un silenzio sepolcrale: allo spettro della morte in agguato, si è aggiunta ora  la piaga della disoccupazione, dopo la crisi che dal 2001 ha colpito le maquiladoras. In quest’inferno di polvere e miseria, per ogni donna sopravvivere è davvero un rischio letale.

“Il secolo XIX”, agosto 2006