Massimo Bacigalupo

James Agee, l’America nel bosco

James Agee (1909-1955) è una figura di rilievo dell’America progressista degli anni ’30-40, cui diede un fondamentale libro-documentario, Sia lode ora a uomini di fama (Il Saggiatore), poderoso inno ai contadini dell’Alabama accompagnato da una serie di foto-rivelazione di Walker Evans. Ammirato e autorevole recensore di cinema e autore di sceneggiature per John Huston e altri, nel dopoguerra tornò alla scrittura creativa (aveva pubblicato delle poesie a 25 anni) con un breve e intenso romanzo autobiografico, La veglia all’alba (1951), edito originalmente sulla rivista romana "Botteghe Oscure", ora opportunamente riproposto nella traduzione di Giorgio Monicelli da SE (pp. 111, L. 28.000), con in appendice un’utile lettura critica di William J. Rewak.

Agee era nato a Knoxville nel rurale Tennessee, in un clima di affetti familiari subitamente lacerato dalla morte del padre in un incidente automobilistico quando Jim aveva solo sei anni. Fu messo a collegio in una vicina scuola di severi religiosi anglicani, St. Andrew’s, inizio di una brillante carriera che lo portò a Harvard e poi al centro della cultura urbana di New York, ricercato articolista per "Fortune" e "Time", ma sempre con la sua identità di ragazzone solitario e meditabondo, assillato dalla coscienza inquieta, fra bevute, crisi matrimoniali e nottate alla macchina da scrivere.

La veglia all’alba rivisita appunto le origini di questo irrisolto rovello psicologico nella vicenda esemplare di un tredicenne, Richard, che come Jim vive non lontano dalla madre vedova in una scuola di religiosi. Lo seguiamo sull’arco di poche ore, da quando viene svegliato alle 4 di mattina del Venerdì Santo 1923 per andare a pregare in cappella con alcuni compagni, fino al rientro in collegio a giorno fatto, dopo una serie di avventure impreviste e cruciali nella vita del giovane. Uomo di cinema, Agee costruisce cinematograficamente il racconto in terza persona attraverso immagini e primi piani e battute irriverenti dei ragazzi semiaddormentari. Nella lunga sezione centrale segue in modo pressoché estenuante le preghiere e i pensieri di Richard, il quale cerca di concentrarsi e di esprimere una fede e un dolore sincero, e in effetti è calato nel clima religioso come può esserlo un adolescente riflessivo e impressionabile, e tuttavia si trova sempre assillato da ricordi estranei: i primi turbamenti sessuali, lo scherno di uno zio ateo, le associazioni involontarie delle parole delle preghiere. "Un ragazzo un po’ più grande, il solo che Richard conoscesse appassionato come lui alla lettura, gli aveva spiegato con grande sottigliezza e diletto che cosa significassero, nel Venere e Adone di Shakespeare, le parole ‘egli vide più d’una ferita’, e questo si era immediatamente associato nella sua mente con quel che di più crudamente intimo aveva scorto, tre o quattro anni prima, di Minnielee Henley, mentre si stavano arrampicando su un albero; e ora dicendo le parole Entro le tue ferite nascondimi, l’immagine lottava nella sua mente con quella delle piaghe piccole ma mortali nel corpo di Gesù…"

Così il lettore è tenuto claustrofobicamente nella mente di Richard, con un effetto che può e forse vuole disturbare, comunicare lo stesso senso di soffoco da cui tuttavia il ragazzo esce con una esperienza di presenza a se stesso e raggiunta serenità. E questo conduce alla terza fondamentale parte del racconto, in cui i giovani anziché rientrare in dormitorio penetrano nel bosco dove in qualche modo rivivono nella natura che rinasce il senso mitico della Passione, una serie di scoperte che permettono di passare dal mondo asfittico ma pur possente del Cristianesimo a una visione più universale della morte e rinascita della persona. Richard in qualche modo uccide Gesù ed è ucciso, ma il confronto è oramai tutto con l’universo naturale. E’, in piccolo, una storia dell’America: i Padri Pellegrini che arrivano con la loro religione severa sulle sponde desolate della Nuova Inghilterra e si trovano davanti a un universo nuovo che un po’ per volta si impone al loro immaginario. Lo stesso conflitto fecondo fra religione e naturalismo è in Moby-Dick, e la Bibbia si confronta con la politica fin dal paradossale titolo Sia lode ora a uomini di fama. Agee ha imparato molto dalla crisi religiosa di Stephen nel Dedalus di Joyce, dove è lo stesso clima di macerazione di una giovane anima dalle ambizioni ascetiche. Ma in Agee la religiosità è vista non tanto come struttura di potere, affresco barocco, quanto come scenario dell’interiorità, un abito che uno cerca di farsi e mettersi, e l’avventura nel bosco riprende (come spesso nella letteratura americana) un antico elemento fiabesco. Si torna all’inizio dei tempi.

Dopo La veglia all’alba Agee lavorò al suo romanzo più importante, A Death in the Family (tradotto da Lucia Rodocanachi e edito nel 1960 con lo strano titolo Il mito del padre), che risale ancora più indietro nell’infanzia di Jim, all’evento che anche qui è più volte evocato, l’incidente mortale del padre e la coscienza di esso nel figlio bambino e tutto il senso della famiglia e della sua storia rivissuta in quella luce. Quando Agee morì di infarto a soli 46 anni il romanzo era pressoché compiuto, e alla pubblicazione nel 1957 fu premiato dal Pulitzer, giustamente perché qui la prosa di Agee si è ulteriormente decantata, è divenuta veramente degna della visione nitida delle foto di Walker Evans. "Compito del fotografo" aveva scritto a questo riguardo "non è alterare il mondo come lo vede l’occhio in un mondo di realtà estetica, ma percepire la realtà estetica nel mondo stesso, e fare una registrazione indisturbata e fedele dell’istante in cui questo movimento creativo raggiunge la sua più espressiva cristallizzazione". Un’auspicabile riedizione italiana di A Death in the Family aiuterebbe a completare il ritratto di uno scrittore di razza.

("Alias"/"il Manifesto", 23 dicembre 2000)

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