Che non ci sia stata nessuna guerra civile tra il
1861 ed il 1865, ma piuttosto un’aggressione del nord ai danni di un sud deciso
a rompere un patto di libera associazione (e dunque di secessione) e che,
attraverso ogni invasione, si assista all’offesa degli stessi assiomi di
proprietà e non aggressione posti a fondamento del pensiero libertario, è cosa
che potrà lasciar freddo un liberale che rifugga da teorie ritenute estreme e
stravaganti; ma non occorre chiamarsi Walter Block per considerare il
salvataggio e rafforzamento del potere centrale a scapito del locale, dietro la
sbandierata causa antischiavista, l’esito immorale della missione lincolniana. Lord Acton, chiusi
gli occhi al miraggio centralista come scorciatoia
verso l’efficientismo, spogliò Lincoln dell’abito nuovo della filantropia e
tentò di gettare sguardi diffidenti nella ritrovata pace intavolando una
corrispondenza con il generale Lee di cui sotto
riportiamo, a cura di Erik Stark,
gli atti inaugurali (altri scritti correlati si rintracciano nel primo volume
della scelta di scritti edita da Liberty Classics a
Indianapolis, pagg. 280 segg.)
(...)
Lord Acton-Gen. Lee, corrispondenza
Bologna
4 Novembre 1866
Signore
la gentilissima lettera che la Signora Lee
scrisse a mia moglie lo scorso inverno mi ha incoraggiato a sperare che
perdonerete il mio ardire nel rivolgermi a Voi, e che non giudicherete uno
sgarbo la lettera di un serio ed appassionato amante della causa di cui foste
gloria e forza.
Mi è stato richiesto di fornire un’opinione privata sugli affari
Americani ad uso dei redattori di una Rivista settimanale che uscirà per l’anno
nuovo, e che sarà diretta da persone vicine a Mr. Gladstone.
Voi sapete, senza dubbio, che Mr. Gladstone era in
quella minoranza del gabinetto di Lord Palmerston
desiderosa d’accogliere la proposta dell’Imperatore Francese di mediazione
nella guerra Americana.
La ragione della fiducia riservata al mio parere risiede solo nel fatto
che in precedenza ho viaggiato in America, e che poi ho seguito l’evolversi
della lotta durata quattro anni tanto da vicino e sentitamente per quanto fu
possibile fare con le informazioni parziali ed incerte che ci raggiungevano.
Nei gravi problemi che sono sorti da
quando Voi ringuainaste la spada, ho tentato di commisurare il mio giudizio al
Vostro per mezzo delle testimonianze trasmesse dai pochi viaggiatori Inglesi
che ebbero il privilegio di parlarVi, ed in special modo dal Generale Beauregard, che manifestò, da quel che compresi, tanto i
suoi che i Vostri sentimenti. I miei viaggi in America non mi hanno portato mai
a sud del Maryland, ed i soli amici cui mi rivolgo per insegnamenti, sono
Nordisti, maggiormente di scuola Webster.
In questa situazione, spinto dall’importanza dei problemi in
discussione negli Stati Uniti, e dal pericolo di un opinione pubblica in errore
circa i nostri due paesi, cerco dunque di rivolgermi alle autorità del sud, e
subito mi spingo deciso verso il Quartier generale.
Se, Signore, acconsentirete a prendere in considerazione la mia
proposta, e mi informerete sulla prospettiva in base a cui desiderereste che
fossero comprese le attuali politiche in America, mi impegno affinché la nuova
Rivista segua il percorso che Voi prescriverete e ogni comunicazione di cui mi
onorerete sarà mantenuta nella massima riservatezza, e da me gelosamente
custodita. Anche se doveste respingere la mia richiesta come ingiustificata,
confido che la ricorderete soltanto come un tentativo di rompere la barriera di
false comunicazioni e false simpatie che circonda le vedute dei miei
compatrioti.
Non può esserVi sfuggito che molta della simpatia sentita in
Inghilterra verso il Sud, per quanto non fosse semplicemente il tributo di
stupore ed ammirazione ottenuto dalle sue campagne, non era né disinteressata
né sincera. Sorgeva parzialmente dalla fede entusiasta nella speranza che
l’America si sarebbe indebolita con la separazione, e dal terrore della remota
prospettiva che Farragut si profilasse nel canale e
che Sherman approdasse in Irlanda.
Mi preoccupo che distinguiate i sentimenti che mi hanno attratto verso
la Vostra causa e carriera, e che ora guidano la mia penna, da quella simpatia
sgradevole e indegna.
Senza presumere di risolvere il versante legale del problema, su cui mi
sembra evidente dalle carte di Madison e Hamilton che
i Padri della Costituzione non concordassero, ho visto nei Diritti dello Stato
(State Rights)
il solo controllo valido sull’assolutismo della volontà sovrana, e la
secessione mi ha interessato con la speranza non di distruzione ma di
redenzione della Democrazia. Le istituzioni della Vostra Repubblica non hanno
esercitato sul vecchio mondo l’influenza liberatrice e salutare che si pensava
ne promanasse, a cagione di quei difetti ed abusi di principio per il cui
rimedio venne saggiamente ed espressamente calcolata la Costituzione
Confederata. Credevo che l’esempio di quella grande Riforma avrebbe reso felice
ogni razza umana stabilendo la vera libertà purgata dai pericoli e disordini connaturati
alle Repubbliche. Pertanto ritengo che Voi steste combattendo le battaglie della nostra libertà, del nostro
progresso e della nostra civiltà; e lamento la posta perduta a Richmond più
ancora di quanto mi rallegri per quella salvata a Waterloo.
Il Generale Beauregard mi ha confermato la
notizia che state preparando un resoconto delle Vostre campagne. Spero
sinceramente che sia vero, e che la perdita che diceste di aver subito
nell’evacuazione di Richmond non Vi abbia sottratto i materiali necessari.
Scrittori europei stanno cercando di ricostruire quella terribile storia con
informazioni derivate da una sola parte. Ho qui di fronte a me un accurato
lavoro di un ufficiale Prussiano di nome Sander. E’
difficile che pubblicazioni future possano essere più onorevoli per la
reputazione del Vostro esercito e di Voi stesso. I suoi sentimenti sono
fortemente Federali, e i suoi schemi, specie nella stima delle Vostre forze,
derivano dai giornali Nordisti, e tuttavia il suo libro termina diventando un
entusiastico panegirico per le Vostre abilità militari. Vi impressionerà
favorevolmente sapere che lo scrittore insiste in dettaglio e con particolare piacere sulle Vostre
operazioni contro Meade quando Longstreet
era assente, nell’autunno del 1863.
Ma ho sentito i migliori critici militari Prussiani rimpiangere di non
avere i dati esatti necessari per un apprezzamento scientifico della Vostra
strategia, e certamente il credito dovuto agli ufficiali al Vostro servizio può
essere assegnato e giustificato solo per mano Vostra.
Se mi farete l’onore di scrivermi, indirizzate le lettere a Sir J. Acton, Hotel Serry, Roma. Nel frattempo rimango, Signore,
rispettosamente il
Vostro devotissimo
John Dalberg
Acton
§
Lexington, Virginia
15 Dicembre 1866
Signore,
nonostante la Vostra lettera
del 4 del mese scorso sia rimasta per giorni senza risposta, spero non lo
attribuirete tanto a scarso interesse dell’argomento, quanto alla mia
incapacità di tenere il ritmo della corrispondenza. Come cittadino del Sud mi
sento in debito per la simpatia da Voi mostrata verso la sua causa, e
consapevole che alla mia connessione con essa debbo la Vostra benevola
considerazione verso di me. L’influenza dell’attuale opinione in Europa sulla
politica corrente in America deve sempre esser salutare; e l’importanza dei
problemi in discussione negli Stati Uniti, comprendenti non solo la libertà ed
il governo costituzionali nel paese, ma
il progresso della libertà e della civiltà universali, conferisce alla Vostra
proposta un particolare valore, in aggiunta al riguardo che ogni vero Americano
Vi deve per i Vostri sforzi nel ben dirigere quell’opinione.
Tra le asserzioni e i sentimenti in conflitto in entrambi i paesi, non sarà un
compito facile discernere il vero, o estrarlo dalla massa di pregiudizi e
passioni con cui è stato occultato dallo spirito di parte. So che alla cortesia
si accompagnava la Vostra richiesta di una mia opinione riguardo al quadro in
cui la politica americana dovrebbe essere considerata, e pur se ne avessi
l’abilità, non ho il tempo per entrare in una discussione, che fu iniziata dai
fondatori della costituzione e continua fino ai nostri giorni. Posso solo dire
che mentre ho considerato la conservazione del potere costituzionale del
Governo Pubblico come il fondamento della nostra pace e sicurezza interne ed
estere, tuttora ritengo la difesa dei diritti e dell’autorità riservati agli
stati e al popolo non soltanto essenziali alla regolazione e all’equilibrio del
sistema generale, ma salvaguardia per la continuità di un libero governo. La
ritengo la sorgente principale della stabilità nel nostro sistema politico, mentre
il consolidamento degli stati in una grande repubblica, oltre ad essere
aggressivo all’esterno e dispotico all’interno, sarà certamente precursore di
quella rovina che ha sopraffatto tutti quelli che l’hanno preceduto. Non ho
bisogno di ricordare a chi come Voi ben conosce la storia americana le testi di
Washington e Jefferson, rappresentanti dei partiti
federalista e democratico, denuncianti il consolidarsi e centralizzarsi del
potere, in quanto tendenti alla sovversione dei Governi Statali e al dispotismo.
Gli stati del New England, i cui cittadini sono i più
fieri oppositori degli stati Sudisti, non sempre ammisero le opinioni che
adesso difendono. Al momento dell’acquisto della Louisiana da parte di Jefferson, essi asserirono virtualmente il diritto alla
secessione attraverso i loro uomini eminenti; e nella convenzione tenuta a Hartford nel 1814 essi minacciarono la rottura dell’Unione
salvo che la guerra cessasse. L’asserzione di questo diritto è stata
avanzata ripetutamente dai loro politici
quando il loro partito era debole, e il Massachusetts, lo stato guida
nell’ostilità verso il Sud, dichiara nel preambolo alla sua costituzione che
solo il popolo di quella repubblica “ha il diritto esclusivo di governarsi in
quanto stato indipendente e sovrano ed esercita e dispone, ora e sempre, di
ogni potere, giurisdizione, e diritto che non siano espressamente delegati agli
Stati Uniti d’America in un congresso riunito”. Questo è stato in sostanza il
linguaggio di altri governi statali, e tale la dottrina propugnata dagli uomini
guida del paese negli ultimi settanta
anni. Del giudice Chase, Presidente della Corte degli
S.U., ancora nel 1850, si riporta abbia affermato nel
Senato, di cui faceva parte, che “non conosceva alcun rimedio nel caso di
rifiuto da parte di uno stato di adempiere ai patti stipulati”, riconoscendo
dunque la sovranità ed indipendenza dell’azione statale. Ma non Vi tedierò
oltre con un’infruttuosa discussione. Infruttuosa perché il giudizio della
ragione è stato evacuato dall’arbitrato della guerra, intrapresa con lo scopo
dichiarato di mantenere l’unione degli stati. Se, perciò, si ritiene che il
risultato della guerra abbia deciso che l’unione degli stati è inviolabile e
perpetua sotto la costituzione, ne segue naturalmente che è tanto improprio per
un governo centrale indebolire la sua integrità con l’esclusione di uno stato,
quanto per gli stati farlo con la secessione; e che l’esistenza e i diritti di
uno stato grazie alla costituzione sono indistruttibili quanto l’unione stessa.
La conseguenza legittima allora deve essere la perfetta eguaglianza di diritti
di tutti gli stati; il diritto esclusivo di ognuno di regolare i suoi affari
interni secondo norme stabilite dalla Costituzione e il diritto di ogni stato
di applicare a sé stesso le condizioni derivate dal suffragio. Il Sud ha
lottato solo per la supremazia della costituzione, e la giusta amministrazione
delle leggi varate a tale scopo. La Virginia fino all’ultimo fece grossi sforzi
per salvare l’unione, raccomandando armonia e compromesso. Il senatore Douglass, nelle sue note sul progetto d’accordo
raccomandato dal comitato dei tredici nel 1861, affermò che ogni membro del
Sud, inclusi i Sigg. Toombs
e Davis, espresse la sua propensione ad accettare la
proposta del Senatore Crittenden del Kentucky, come
risoluzione finale della controversia, se sostenuta dal partito repubblicano, e
che l’unica difficoltà sulla via di un accordo amichevole sorgeva col partito
repubblicano. Chi è allora responsabile della guerra ? Nonostante il Sud avesse
preferito un onorevole compromesso alla guerra fratricida che ha avuto luogo,
esso ora ne accetta in buona fede i risultati costituzionali, e accoglie senza
riserve l’emendamento che è già stato fatto alla costituzione per l’estinzione
della schiavitù. Cioè un risultato che è stato a lungo cercato, seppure in modo
diverso, e da nessuno è stato più seriamente desiderato che dai cittadini della
Virginia. Sotto un altro rapporto confido che la costituzione non sia
sottoposta a mutamenti, ma che possa essere trasmessa alle seguenti generazioni
nella forma ricevuta dai nostri predecessori. Il desiderio che gli stati del
Sud godano la buona opinione di chi, come Voi, da me è tanto stimato, mi ha
fatto estendere queste note oltre l’intenzione, e temo mi abbia portato ad
esaurire la Vostra pazienza. Se ciò che ho detto servisse a fornire qualche
informazione sulla politica Americana, consentendoVi di illuminare la pubblica
opinione riguardo i veri interessi di questo paese sconvolto, spero che ne
perdonerete la prolissità.
Circa la Vostra domanda intorno al mio impegno nella preparazione di un
resoconto delle campagne in Virginia, mi spiace dire che progredisco con
lentezza nella raccolta della documentazione necessaria al suo compimento.
Avverto in particolare modo la perdita dei rendiconti ufficiali attestanti i
piccoli numeri con cui furono impegnate le battaglie. Non ho visto l’opera
dell’ufficiale Prussiano da Voi menzionato e dunque non posso pronunciarmi
sulla sua accuratezza.
Con i sensi di grande rispetto, resto il Vostro devotissimo
R.E. Lee