maschera e specchio
La maschera allo specchio di
Giorgio Aceto (Canova,
Treviso 2005) è un libro dove «la scienza delle illusioni», il
movimento metamorfico e incantatorio delle maschere, non si scinde mai dalla pietas
illuminista e dalla lucidità disincantata della terapia analitica. L’autore,
fin dall’inizio, esplora il territorio borderline e non rassicurante di
una psicoanalisi che non spiega le strategie dell’arte e di un’arte che
non ripudia gli strumenti della psicoanalisi. Le due maschere identiche,
raffigurate sulla copertina e libro, sono le maschere di Apollo e di Dioniso:
una si riflette nell'altra, una contrasta l'altra, ma sono esattamente uguali.
Nel primo capitolo troviamo descritto uno dei concetti cardine del libro:
quello di atopia. Aceto distingue tra l'utopia che «annulla il luogo
stesso delle origini psichiche poiché è motivato da una pretesa di megalomania
che confligge radicalmente con la realtà» e l'atopia che «designa l'atto dello
spostarsi sperimentalmente altrove senza annullare il punto di partenza, senza
cancellare le radici dell'esperienza e con essa il senso ultimo dell'identità
personale». Indagando le metafore della maschera e dello specchio, l’autore ci
propone, con radicale chiarezza, l'atopia come modello del nostro
precario abitare il limite tra realtà e follia. L'equilibrio fra le maschere
dell'evento artistico e le strategie della relazione analitica è, per l'autore,
tutto da inventare, in un gioco incessante di trasmutazioni e di rimandi, dove
domina l'etica dell'ascolto, la
capacità di percepire la ricchezza degli eventi psicopatologici e artistici
come un magma da esplorare sia con gli strumenti della ragione sia con quelli
della non-ragione.
Aceto
evidenzia come ricchezza e non come difetto la «scienza del limite», descritta
da Nietzsche, citando le parole di una soprano dodicenne, di nome Church: «Se
voglio tirare fuori tutto il senso di un brano, mi devo in un certo modo
astrarre dal luogo, e cercare un centro dentro di me, su cui appoggiare la voce
perché vibri nel modo giusto, secondo il colore della musica… E in mezzo a
tutto questo problema dei suoni c'è poi il fattore basilare dell'emozione che
devi provare, se vuoi comunicare emozione. Allo stesso tempo, se ti coinvolgi
troppo, perdi il controllo. Cantare, insomma per me è come essere un'altra
persona». Le parole di Church ci spiegano, più di molti trattati filosofici,
come, per essere in grado di emozionare, bisogna saper controllare l'emozione.
Questo vale tanto per l’opera di un artista quanto per la sofferenza di un
paziente. Un artista troppo «commosso» non ci offrirà delle opere che possano
«commuoverci», proprio perché manca la necessaria distanza. Céchov, per
descrivere l’incantesimo di un plenilunio, parla dei riflessi di un pezzo di
vetro sotto la luna. Allo stesso modo un paziente, per sopportare i suoi
sintomi, deve attenuare il loro dolore.
Aceto mostra simultaneamente la necessità di essere se stessi e la
necessità di «essere un altro», ripercorrendo gli eteronimi di Pessoa o i
monologhi dell’Enrico V pirandelliano. Una «per-sona», secondo l’etimologia
latina, si fa «per-suonare» da mille voci possibili, da una molteplicità di
pulsioni contraddittorie. L’uomo non è mai una monade assoluta o abiterebbe
solo il piccolo terreno del suo io, incapace di vivere l’avventura
dell’immaginazione. Deve cercare sempre il suo altrove, cosciente che
non potrà essere la psicotica terra di Utopia, il paradiso che ingoia ogni
conflitto, ma la molteplice terra di Atopia, che fa dei conflitti un terreno
lavico, ora solido e ora gassoso, in continua metamorfosi.
Pur trattando argomenti
psicoanalitici e mitici, La maschera allo specchio non intende
semplificare e divulgare i temi trattati, ma semmai arricchirli e complicarli,
grazie a una vera «selva» di citazioni. Che, in questo contesto, non sono
simbolo di una erudizione morta ma la viva e fisiologica necessità di trovare
compagni, vivi e morti, in questa felice avventura tra «maschera» e «specchio»,
tra individuazione dell’uomo e suo sdoppiamento nei regni della maschera e
dell’ombra.
Nel gioco incessante fra nascosto e rivelato il libro ci consente di
avvicinarci alla penultima maschera - la più sottile, la più scorticata
- quella che ci permette di essere «quasi noi stessi» e ci fa abitare il nostro
fertile squilibrio senza gli eccessi dell’emozione e senza i semplicismi della
ragione. Aceto suggerisce che il narcisismo dell’artista e le certezze dello
psicoanalista non possono mai essere soddisfatte, in quanto per l’uno si
prospettano le «colonne d’Ercole» della psicoanalisi e per il secondo il «mare
magnum» dell’immaginazione. Questo felice inappagamento è alla radice del
libro, che potrebbe deludere tanto lo psicoanalista, per eccesso di exempla
artistici, quanto l’artista, per eccesso di coscienza analitica. È proprio
questo «de-ludere», invece, questo saper portare fuori il lettore dalle règles
du jeu, il suo valore e la sua cifra: in sostanza, non arretrare di fronte
alla disperante, fecondissima ambivalenza che costringe l’io a guardare
l’abisso del non-io e a «ri-flettere» in modi diversi questa vertigine.