Wolf Bruno

Arte Cruda 15 (su L.F. Céline)

“Ci sono troppi idioti in questo mondo. E detto questo, ho l'onere di dimostrarlo”

Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche (ETS, 2015)

Céline non si sentiva a suo agio nelle origini piccolo borghesi benché se ne fosse abbondantemente emancipato.

Ebbe rapporti con la fondazione Rockefeller e fu assunto come igienista dalla Società delle Nazioni di Ginevra. Dalla città Svizzera partì per numerose missioni in vari paesi, dall’America all’Africa. Si sposò e si innamorò di altre donne. Aprì un ambulatorio a Clichy e si qualificò onorevolmente come “medico dei poveri”. Nel 1932 pubblicò Voyage au bout de la nuit. Forse non tutti i critici ne furono entusiasti, ma perfino uno scrittore considerato mediocre ma buon polemista come Léon Daudet, fondatore con Maurras dell’Action française, lo indicò come un libro che schiudeva gli occhi su una società ormai priva di valori. Non fu da meno Leone Trotsky che ne scrisse la prefazione per l’edizione russa. Paul Nizan, l’autore di Aden-Arabie e di La Conspiration, critico all’”Humanité”, lo apprezzò e con lui l’intellighenzia radicale impressionata dall’anticolonialismo.

Ma tutto ciò non gli basta.

Intanto viene superato al premio Goncourt da Le Loups di Guy Mazeline, sconfitta che gli anni medicheranno condannando all’oblio il romanzo vincitore e il suo sventurato autore.  Lo aiutano magari giudizi come quello di Bernanos che vede Céline come mandato da dio “a dare scandalo”. O come quello di Jack Cahane, patron dell’Obelisk Press, che lo vede sì veritiero ma “turpe, tremendo sordido”.  Son cose che lo fanno sentire come il più grande scrittore dei suoi tempi. Ne è convinta anche Peggy Guggenehim che lo confida a letto all’arcano Samuel Beckett.

Sentirsi anche solo il più grande scrittore francese dei suoi tempi, quando questi son quelli di Bernanos e Mauriac ben più vigili di lui a smascherare il male nell’animo umano (ma il secondo accredita Céline di altrettanto) o anche quelli di Paul Nizan, che non è soltanto l’autore di uno degli incipit più belli se non il più bello di tutta la letteratura quello di Aden Arabia ("Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita") ma anche l’autore de La Conspiration, insuperato romanzo nel raffigurare il rapporto fra la gioventù dell’alta borghesia e le scelte sociali radicali (il tradimento di classe è già profilato in Antoine Bloyé, ispirato alla figura paterna) in una trama di cospirazioni, tradimenti e morte di cui Walter Benjamin scrive in una lettera a Horkheimer.

Per altro nel 1932, l’anno del Voyage, era in circolazione ormai da anni Le Paysan de Paris di Louis Aragon che se non incontrò universale accoglienza (salvo colpire profondamente Walter Benjamin) lavorò lungo il secolo non solo attraverso i surrealisti campioni di quel genere di letteratura (specialmente Breton) ma attraverso le conversioni e riconversioni del suo autore rientrato - con tutto un inatteso armamentario che non trascura il “nouveau roman” - nell’Ottocento alla maniera più di Stendhal che di Balzac così da piacere a quel gruppo di scrittori di cui faceva parte il paladino di Céline in divisa da ussaro e precoce scolaro , se così ci si può esprimere, Roger Nimier che come Céline fa entrare nel mirino di un suo pamphlet Jean Paul Sartre all’apice della fama.

Diverse tuttavia le motivazioni, più di costume quelle di Nimier, in tema di cattivi maestri, di fanfaroni, di rivoluzionari per ridere nel modo in cui oggi si parlerebbe di “gauche caviar”. Avvelenate quelle di Céline (À l'agité du bocal del 1947, scritto durante l’esilio e la prigionia in Danimarca, dove precauzionalmente aveva trasferito i suoi risparmi) che risponde al Portrait d'un antisémite pubblicato da Sartre a fine ’45 su “Les Temps modernes” dove l’autore è paragonato al verme solitario nel momento stesso che i russi lo definivano ”iena dattilografa”.  Balza agli occhi che l’autore di alcuni libelli zeppi di pronunciamenti antisemiti che vorrebbe ridurre a bagatelle (e che rimangono fra le sue cose migliori sul piano dell’efficacia letteraria) non sopporta che lo si accusi di simili colpe e che soprattutto non lo sopportino i suoi sostenitori che rispediscono tutto alle sollazzevoli birichinate di quel novello Swift o Rabelais che sarebbe Céline (ma le mie letture in tema di umorismo non ricorrono a lui).

Ho cominciato questo testo prendendo ispirazione da quello di Hans-Erich Kaminski Céline en chemise brune scritto “in memoria di Carlo Rosselli, compagno dell’autore in Spagna, nel 1938: “Céline è insoddisfatto. La vita è per lui divenuta troppo facile e priva di preoccupazioni. Solo critiche favorevoli sui giornali e lettere d’ammiratori, niente insulti” (a proposito di cominciamenti capolavori). Non posso paragonare il mio a una tale precisione psicologica ma è arrivato il momento di dire dove volevo arrivare.

Céline era figlio di un assicuratore e di una merciaia, quindi crescendo non dovette avere gravi preoccupazioni. Tuttavia nel libro successivo al Voyage, Mort à credit del 1936 trasfigura la famiglia in una devastazione controllata dal padre e il passage Choiseul dove la mamma cura il suo negozietto in un vicolo sordido che sa di urina e minestrone. Sarà per sempre una vittima, un proletario al quale i potenti negano, maledetti loro, il più che meritato Goncourt, anarchico per questo. Si ritroverà meglio negli ultimi anni (assai proficui dal punto di vista di trame romanzesche come da quello dei tre puntini di sospensione che lo hanno reso famoso), in una tenuta simil-barbonesca (ma l’autore del Semelweiss starà sempre ben attento alla pulizia) circondato  con la moglie da cani e gatti in una scenografia che pur con tutta l’attenzione che ci mette non riesce nemmeno a raggiungere lontanamente quella disegnata da Paul Leautaud, insigne gattaro, come la si può osservare nelle fotografie di Doisneau.

Chissà che smacco poi vedere assegnato l’agognato Goncourt a Simone de Beauvoir o, peggio, a Roger Vailland che il buonuomo Céline aveva evitato di denunciare ai tedeschi pur al corrente delle riunioni sovversive che si tenevano nell’appartamento vicino. E che umiliazione dover constatare che una ragazza di diciannove anni, Françoise Sagan,  si era assicurata, insieme alla messa “all’indice” dal Vaticano, il “Prix des Critiques” (dove i critici erano, fra gli altri, Blanchot, Paulhan, Bataille, Starobinski) con un titolo, Bonjour tristesse,  certamente preso parzialmente in prestito da Eluard ma la cui penetrante forza esistenziale sarebbe vano ricercare fra quelli di Céline. Come del resto quello sartriano, pressato da Gallimard, de La Nausée, che tanto Céline vorrebbe farci credere di provare senza saperne veramente scrivere.

Non sfuggono le differenze politiche di Céline e Sartre. 

Al primo “comunista senza gli ebrei”, non bastava più esser cattivo, si sentiva “molto amico” di Hitler e dei tedeschi, voleva “una terribile fede” atrocemente intollerante nei confronti di massoni ed ebrei.  Ciò nondimeno nel corso dell’occupazione tedesca lo si poteva incontrare all’Istituto di cultura tedesco di Parigi ma con interessi per così dire culturali senza vere compromissioni benché non esitasse a lanciare “folli dichiarazioni sugli ebrei”, come testimonia Gerhart Heller, capo della sezione letteraria della Propaganda tedesca in Francia. Tutta l’amarezza che gli intellettuali d’ogni parte (e soprattutto di quella antifascista) hanno espresso per l’esasperante Céline – malgrado tutto pensato come un creatore assoluto che si è battuto per la poesia – deplorando “il modo disgustoso in cui è stato trattato dall’intellighenzia francese” (Dubuffet) per la sua “creazione folle” di una formidabile “macchina di scrittura” (Deleuze e Guattari). E giù tutti a bocca aperta, dai Beat a Henry Miller, da Vonnegut a Le Clézio, da Celati a Bukowski. Cosa lo ha messo al riparo dal peggio è stato il suo ribellistico individualismo che faceva sembrare che tutto nascesse e morisse con lui.

Quanto a Jean Paul Sartre, il grande filosofo, il grande scrittore si fece anche la fama – per quanto all’epoca in una porzione qualitativamente alta ma numericamente limitata dell’intellighenzia – di grande coglione, perlomeno politicamente.  Sembrò perfino che tutto si potesse ridurre a Saint Germain des Prés, a dei bistrot e a dei maglioni sporchi (cosa che in effetti non era esclusa dallo sartrismo da quando Simone de Beauvoir si recò in casa dell’amico e non vide altro che sporcizia e disordine). Dopo aver subito gli attacchi di Jean Kanapa, Laurent Casanova e di tutti gli zdanovisti del PCF radunati dal 1948 attorno alla neonata “Nouvelle Critique”, Sartre si spostò fino a diventare il compagno di strada per eccellenza del partito comunista, e accusò i suoi accusatori di disonorare il partito. Arrivò ad affermare in un’intervista che nell’URSS ci fosse totale libertà di critica. Ebbe anche un ruolo importante nell’accreditare lo stalinismo togliattiano come “via italiana al socialismo”, un esempio da seguire. L’Italia gli piaceva e a Roma incontrava volentieri Alberto Moravia che alcuni critici presero a considerare come un esistenzialista ante litteram. Nicola Chiaromonte attribuì a questo “comunista impossibile” quella stessa “malafede” che aveva teorizzato. Ciò nondimeno ne apprezzava (e come non farlo) le pronunciate peculiarità intellettuali. Frasi diventate celebri come “l’uomo è una passione inutile” o “il mondo può benissimo fare a meno della letteratura. Ma ancor di più può fare a meno dell'uomo” non sono semplici passi di una conversazione, sono invece un atteggiamento, un clima nel quale nel bene e nel male, ieri come oggi, ci si trova immersi.

Confronti a ben vedere inutili i miei. Certo, prima del turpe antisemita Céline fu innalzato col Voyage, che tanto piacque a Sartre e al Castoro, a campione dell’anticolonialismo. Non mi risulta tuttavia che abbia scritto frasi efficaci, e che vanno oltre l’anticolonialismo investendo l’alienazione, come questa del “verme solitario” nella celebre (e di una razionale violenza di scrittura di cui mai Céline. un piantagrane al massimo, fu capace) prefazione ai Dannati della Terra di Frantz Fanon: “Abbandoniamo quest’ Europa che non la finisce di parlare dell’uomo pur massacrandolo ovunque l’incontra”.

Ma voglio dirla tutta: cos’è un grande scrittore e come lo si diventa? Qualcuno lo sa? Si fanno tante parole ma alla fine c’è solo l’ambizione di chi dà credito alla sua olimpica esistenza e raccoglie magari, in parte guidandole per lo sfizio di essere controcorrente, asprezze critiche insieme a protezioni, a calcoli statistici, a determinazioni sociali. Mi permetto di dire che chi sostiene Céline come il più grande scrittore francese del XX secolo (insieme a Proust, ci mancherebbe) possiede lo stesso stordimento del politico Sartre, il quale, lo si tenga presente, pensò perfino di allargare la mente attraverso la mescalina.