Omar
Wisyam
Proletari, se voi aveste saputo...
Il fascicolo di “Insurrezione”, a cura di Renato Varani, dal titolo “Proletari, se voi sapeste...”, quando uscì assolse il compito di riflettere sulla repressione e sulla sconfitta del movimento del 1977.
La prima parte del testo porta il titolo di “Il laboratorio della controrivoluzione. Italia 1979-80”.
Il titolo è impegnativo, perché sottintende che l'Italia sia stato un laboratorio politico, cioè un luogo dove si sia sperimentato qualcosa prima che altrove nel mondo e che, soprattutto, vi sia stata una rivoluzione che abbia reso necessario il dispiegarsi di una controrivoluzione. Le cose andarono realmente così?
L'autore, peraltro, indica semplicemente il manifestarsi di “caratteristiche di radicalità nuove” per il nostro paese, e che queste consistettero nel fatto che, per la prima volta, “interi settori del proletariato italiano hanno combattuto come propri nemici implacabili non solo lo Stato e le sue forze armate, ma anche le organizzazioni operaie e particolarmente il partito comunista italiano”.
Il movimento era composto in gran parte da studenti, giovani disoccupati o precari e in misura molto minore da lavoratori che non fossero giovani. A questo movimento “non sono mancati né il numero, né la forza militare di impossessarsi del centro cittadino di una delle maggiori e più ricche città italiane, Bologna, né la spinta vitale per abbozzare una critica della vita quotidiana e della politica.”
Non poco dunque, ma neppure moltissimo, perché, come suggerisce il termine impiegato, si trattò di un abbozzo e non di una strategia o di un disegno dominante. Si vuol dire che esistevano le condizioni per attuare un salto qualitativo, che tuttavia non ebbe luogo.
Molte pagine del testo sono dedicate all'autonomia operaia organizzata. Il giudizio su quest'insieme è controverso. Dei gruppi che la componevano si dice che erano legati, quasi tutti, alla tradizione leninista, se non “apertamente stalinisti”. Si dice anche che se furono un polo di attrazione, lo furono per la loro pratica illegale e violenta e alla loro decisa opposizione al PCI e ai sindacati.
Tuttavia l'attenzione dei gruppi dell'autonomia, rivolta essenzialmente agli aspetti militari dello scontro, a vantaggio dei “risultati immediati di efficacia ammirevole”, cioè a vantaggio dello spettacolo della rivolta, finì per chiudere la strada alle altre prospettive del movimento e ai contenuti stessi della critica.
Il movimento seguiva due direzioni principali; vi era l'ala armata e tendenzialmente clandestina e quella controculturale. Intorno a questi due spezzoni del movimento operò una grande impresa di falsificazione e repressione.
Il mito della lotta armata fu manipolato a piacimento dai media nei primi mesi del 1977. Il fenomeno fu amplificato, i giornali e le tv collaborarono divulgando il modello della militarizzazione, falsificando la situazione in atto, proponendolo come quello dominante nelle frange più avanzate dell'autonomia. Il mito dello scontro armato trovò un'immediata sponda negli ex di Potere Operaio (il gruppo si era sciolto, o dissolto, già dal 1973), si costruiva l'epopea dei giovani armati e con il passamontagna sulle strade italiane e gli autonomi cascarono nella trappola mediatica, anche perché la repressione dello Stato non fu immediata: si lasciò fare per alcuni mesi, perché ci prendessero gusto. Per prima cosa si fece della rivolta uno spettacolo e perché fosse credibile si doveva suscitare una suspence, un clima adatto allo scopo, dare dei brividi agli spettatori, poi la trama cambiò...
La repressione fu scandita da due date: 7 aprile e 21 dicembre 1979. L'operazione fu suggellata da evidenti falsità che portarono all'incriminazione dei capi storici dell'autonomia, per un ruolo di leadership delle formazioni clandestine, ruolo che non potevano assolutamente (e logicamente) avere avuto. Ma che importava, ormai?
“La verità è che, improvvisamente, gli spazi che si chiudono all'autonomia operaia organizzata sono gli spazi dello spettacolo. In scena c'è un'altra rappresentazione e in questa agli autonomi è riservata la parte di imputati.”
D'altra parte l'autore del testo riconosce che a mancare fu la teoria, una debolezza mortale, celata dall'entusiasmo e dallo slancio dei primi mesi, ma nel 1978 arrivarono “l'esaurimento e la paura”.
Il culmine dello spettacolo del terrorismo fu il sequestro Moro. “Il sistema aveva scelto il suo nemico – il terrorismo – ed era riuscito ad imporlo a tutti. La finzione si realizzava.” La finzione, dice l'autore, ovvero i prodigi della fiction, poiché i mezzi di comunicazione di massa furono i veri vincitori della vicenda.
Dei leader arrestati il 7 aprile, l'autore scrive che, se erano in gran parte molto noti, erano in realtà separati dal movimento reale:
“Di Negri, Scalzone, Piperno, i giornali avevano sempre parlato, etichettandoli sempre come leader del movimento anche quando non contavano niente. Loro stessi anzi avevano ampiamente parlato attraverso i giornali e più di ogni altro avevano contribuito a formare l'immagine spettacolare dell'autonomia, a falsificare, in ultima analisi, la realtà del movimento italiano, facendosi costantemente interpreti di tutto ciò che esprimeva di nuovo, amplificandone trionfalisticamente le pratiche fino a fargli raggiungere lo stadio di puro spettacolo, ed essere riprodotte sotto forma di imitazione.”
L'autore ritiene che “in tutta l'operazione repressiva l'aspetto di guerra psicologica fu più importante della repressione immediata” ed inoltre che più decisiva ancora fu la controrivoluzione culturale: “per dieci soggetti che passavano alla lotta armata, mille rifluivano nel quotidianismo”.
Tuttavia, si è costretti a pensare che una campagna di demoralizzazione non può avere avuto così facilmente successo senza delle più gravi carenze all'interno del movimento. Ed infatti l'autore scrive che “una delle mancanze più gravi del movimento del 1977 è stata quella di non aver avuto un momento di riflessione e neppure delle prospettive precise su quello che stava accadendo”. Lo scrive e lo ripete: mancò una teoria.
Una controprova di questa vistosa debolezza fu la diffusione rapidissima dell'eroina, dal 1978. Ma non solo. In “Proletari, se voi sapeste...” si trova una “Nota aggiuntiva sull'uso della cultura e dello spettacolo nell'accelerazione della decomposizione: personaggi e interpreti” con un piccolo organigramma per difetto del - così chiamato dall'autore - Partito del Riflusso. Questo evento non fu una fatalità. Tra i primi esempi del suo manifestarsi, del propagarsi della “rimozione collettiva dell'esperienza del 1977”, l'autore indica gli ultimi numeri della rivista “A/traverso”, dove con l'esaltazione della merce-musica, della merce-spettacolo, del business rockettaro, si gettarono (“avanguardie incoscienti”) le fondamenta di un “comportamento alienato di massa”, di una “controrivoluzione culturale”, ai quali parteciparono, o ne furono complici, esperienze diverse e diversi mezzi come “Re nudo”, “Macondo”, “Cramps”, “Alfabeta”, ecc.
Il giudizio dell'autore su “A/traverso” è netto: “Tra i primi a percepire i rigurgiti del riflusso, hanno finto di combatterlo riproponendone tutte le cause,osannando la disgregazione sociale metropolitana e i suoi effetti intrinseci: miserabilismo, ammiccamento euforico ai tossici, oltranzismo dell'anestetizzazione dei sensi e della morte della percettività, estremismo della lobotomizzazione (per tramite dell'eroina) che fa accettare tutto e tutti, persino il dominio che – prima della foga modernista – combattevano. Hanno sostenuto la velocificazione, ossia cavalcare la disgregazione per precipitarla, col risultato di arrivare prima degli altri al fondo della merda: all'apologia dell'esistente.”
Ciò che tutte queste esperienze hanno in comune è di essere nate, per così dire, a sinistra, e questo significava che il riflusso scaturiva dall'interno del movimento (o dai suoi margini o dai suoi paraggi), sottolineandone, ancora una volta, la sua fragilità costitutiva.
La campagna di demoralizzazione raggiunge il suo culmine con il caso Peci che, da pentito, “fa smantellare tutta la struttura organizzativa di Torino e spedisce in carcere un centinaio di militanti”.
I gruppi clandestini si sfaldano e “potranno sopravvivere solo come fenomeno controllato che giustifichi il mantenimento del mastodontico apparato repressivo”, scrive l'autore, che un paio di pagine prima aveva affermato che lo stesso Peci era, in realtà, un infiltrato dei carabinieri all'interno delle Brigate Rosse. Quindi è facile pensare che delle forme di controllo potessero essere in opera già in precedenza, oppure che da parte dello Stato, o di qualche frangia dei Servizi si consentisse alle formazioni clandestine, con le loro azioni, di occupare le prime pagine dei giornali e dei tg per poter meglio soffocarne le cellule operative quando se ne fosse ravveduta l'utilità politica o di carriera, per non parlare di infiltrazioni o deviazioni da parte di Servizi esteri volte a condizionare la situazione politica italiana. Comunque sia andata, in linea generale, si può affermare che una sorta di etero-direzione è sempre plausibile, se non semplicemente realistica, in ogni struttura separata e clandestina.
L'autore conclude osservando che “qualsiasi apparato che si costituisce al di fuori del divenire di un movimento è profondamente controrivoluzionario”. Questo è indubbiamente vero, ma in pratica come si sarebbe provveduto in quel frangente storico alle esclusioni? E chi l'avrebbe fatto? Per effetto di quale mandato che scaturisca dal movimento? Ricevuto da chi? E come sarebbe potuto accadere se il movimento, in quasi tutte le sue manifestazioni, indulgeva a celebrare (o a simulare con le dita della mano, in mancanza) la P38?
Al di là della repressione statale (che non si può, in nessun caso, sottovalutare), il riflusso - l'autore lo dice - sorse e si sviluppò all'interno del movimento, e quindi? Quel poco (o quasi niente) di teoria che praticò il movimento, e cioè l'operaismo, servì a bruciarlo in fretta e, dopo averlo incendiato al mito della lotta armata, di successo immediato in successo immediato, lo condusse brillantemente al suo incenerimento.
Nel fascicolo curato da Renato Varani, un capitolo è dedicato al tema cruciale dell'operaismo italiano. La riflessione avrebbe richiesto (e, in generale, richiede ancora) un ulteriore approfondimenti dell'analisi. L'autore del fascicolo, riconoscendo i limiti dell'operaismo, ravvisa la necessità di una critica severa di questi ma, al tempo stesso, teme l'intempestività e il cattivo gusto di un giudizio del genere rivolto a chi, nel momento in cui sta scrivendo, si trovava in carcere o era latitante. Tuttavia non esita a cogliere le principali incapacità e limitazioni dell'ideologia, per esempio quando scrive che “mai gli operaisti hanno superato la sfera dell'economia e del produttivismo, mai sono giunti ad affermare l'autonomia soggettiva come parte integrante e basilare dell'autonomia proletaria”.
In definitiva, “l'unica soggettività che [gli operaisti] conoscono è quella astratta della fetta di proletariato da incensare e quella burocratica dell'organizzazione.”
Personalmente ritengo che gli operaisti, proprio per l'influenza decisiva che ebbero (l'influenza diretta degli operaisti presenti nei collettivi autonomi, indiretta per l'influsso delle tematiche del disciolto “Potere Operaio” e del suo gruppo dirigente nei discorsi, negli obiettivi, nelle pratiche e nelle azioni illegali, ma ci furono anche semplice imitazione, manovre mediatiche, passività, debolezza di altri modelli, ignoranza di altre teorie, ecc.) accelerarono il crollo svelto del movimento e che i loro errori furono quelli decisivi.
Potevano le cose andare diversamente? Le rivolte non sempre (o quasi mai) nascono con delle teorie efficaci pronte per l'uso e con le persone giuste nel posto giusto al momento giusto disposte a metterle in pratica.
Il movimento del 1977 si manifestò improvvisamente e non fu previsto da molti. I moti tellurici, ctonii, delle rivolte presentano delle somiglianze con i terremoti naturali. Spesso colgono impreparati.
A mancare è stata una teoria all'altezza del disagio generale che investiva, in particolare e più direttamente, le giovani generazioni della metà degli anni Settanta. In un certo senso, una base teorica ci sarebbe stata, ma era marginale, poco conosciuta e la sua voce quasi non si sentì in quel periodo. Ciò che si era prodotto con la sezione italiana dell'I.S., con “Ludd”, e negli stessi tempi ma più in modo più confuso, trionfalistico e con troppe sbandate, con “Comontismo”, poi con “Puzz-Provocazione-Gatti selvaggi” e con altre iniziative a Bari, a Caserta e altrove, ma soprattutto il grande lascito del pensiero di Giorgio Cesarano, se fosse diventato il linguaggio comune delle assemblee e dei gruppi autonomi del 1977, forse avrebbe permesso al movimento di forgiare gli strumenti per la critica dello spettacolo e per la trasformazione della vita quotidiana con cui avrebbe potuto evitare i vicoli ciechi dell'ideologia operaistica e la fascinazione suicida della lotta armata.
Non ne sono del tutto sicuro, perché l'infelice meteora di “Azione Rivoluzionaria”, nella costellazione delle sigle della lotta armata, sembra dire il contrario, e cioè che la fascinazione delle armi aveva contagiato settori che avrebbero dovuto difendersene e resisterle. Ma non sembra un evento paradossale.
Una traccia di questa accidentata situazione la si trova anche nel brusco interrompersi della collaborazione cordiale tra Debord e Sanguinetti, un mutamento che si materializzò in una lettera, proprio sul giudizio verso i gruppi armati: tutti nelle mani del nemico, oggettivamente e soggettivamente, secondo Debord.
Un'altra questione riguarda l'organizzazione di un movimento montante su scale nazionale. Che strutture di collegamento, di discussione ed elaborazione comuni avrebbe dovuto darsi? Per gli operaisti “vertebrare il movimento” significava applicare “rigide centralizzazioni”. Ma era questa la strada da seguire?
A conclusione del discorso resta la convinzione che il fascicolo “Proletari, se voi sapeste...” costituisca ancora oggi uno dei migliori testi a disposizione per riflettere sul movimento del 1977 e sul successivo riflusso e che ci si debba augurare che una riflessione in proposito riprenda, approfondendo e criticando, se necessario, le basi analitiche di quell'indagine.
Quanto prima (non si sa mai, potrebbe servire).