Erik Stark
’70 visionari
Erik Davis: High Weirdness: Drugs, Esoterica, and Visionary
Experience in the Seventies (MIT Press 2019)
Se, a onor della scienza, bisognerebbe diffidare di chi si
dichiara “interno” e in qualche maniera troppo implicato nell'oggetto studiato,
Erik Davis ha sempre rivendicato l'essere un risultato, un “prodotto”, allo
stesso tempo, dello studio universitario della religione Americana, delle
teorie mediali e delle tante correnti del pensiero psichedelico (nel senso
ampio che arriva a includere Lovecraft e i Jesus
Freaks). High Weirdness ruota intorno a tre esploratori delle
reti riferibili alla cultura underground californiana mentalmente più
spericolata, ossia Philip K. Dick, Terence McKenna e
Robert Anton Wilson: tre esperimenti mentali (singolarmente estremi e via via
sempre più infiltrati dai media) nei cui resoconti enigmatici o profetici
scritti è labile se non dubbio il confine tra un frequente nonsenso e una
segreta rivelazione liberatoria. Nomi, ancora, che ossessionano ormai ogni
ricognizione di una scena, fine anni 60-inizio 70, ben nota al giornalista e
analista di misticismi esoterici Erik Davis, a suo agio nei terreni scivolosi
comuni al rock che si mette il cappello di Crowley e
al neo-gnosticismo che accompagna la matura diffusione della comunicazione
digitale. Che si tratti del 4° album dei Led Zeppelin o della galassia
repertoriata in Technognosis (1998), l'autore
testimonia quanto siano stati fertili, a partire dagli anni sessanta, gli
scambi tra le fanzine di s-f e l'emergente stampa rock e come l'abbraccio
accademico abbia faticato a soffocare e disciplinare una materia psichedelica,
occulta, marginale anche per le lenti ecumeniche degli studi culturali e di
religioni comparate d'oltreoceano.
Già Jesse Jarnow nel suo Heads: A Biography
of Psychedelic America cercò di documentare la
stretta parentela tra i programmatori del MIT e di Stanford, al lavoro sulle
prime e-mail e i balbettii di Arpanet, e la “cultura”
dell'ormai illegale Lsd. La coscienza in quanto affare di interconnessione,
nodo provvisorio in una rete più grande, l'interdipendenza ultimo orizzonte con
i sogni di libertà informatica dell'etica hacker da un lato, le fantasie di
controllo mentale dall'altro: di tanto è questione nei tre “campioni”
selezionati da Davis. E in tutti e tre la scrittura simpatetica e tutt'altro
che scettica dell'autore permette di seguire l'evoluzione dell'esperienza
religiosa americana dell'ultimo secolo senza separarla, e qui soccorre William
James, dall'empirismo radicale lungo l'intreccio tra perdita d'innocenza e
nuovi motivi d'incantamento. In tanto scavare, non stupiscano i rimandi ai saperi e alle pratiche rinascimentali (in cui il rituale
esoterico traveste l'investigazione scientifica) all'intreccio del segreto e
dell'esperimento, del mito e della tecnologia; e tutto come un ultimo saluto
riconoscente della società interconnessa alle tradizioni ermetiche-occultiste
rinascimentali all'origine della modernità.
Dalle
implicazioni religiose, anzi esoteriche, delle infrastrutture della
comunicazione (l'hacker, pallida ombra di Hermes, ad es.) discenderebbe la non
casuale duplicità della rete: liberante ed oppressiva, spaziosa quanto un
firmamento ma spesso, come quello, soffocante. Iperconnessione
come nome presentabile per "prigione cosmica", dove sono aboliti i
confini tra fatti e fantasie e ogni coincidenza occulta una cospirazione di
qualche mafia psichica pronta a modellare menti. I semi di tanta gnosi internetiana, tascabile, sarebbero stati rilasciati dal
profetizzare eroico e dagli stati visionari (magari col piccolo aiuto dell'Lsd) di quei primi navigatori, sempre a rischio
d'inabissamento nel maelstrom dell'indifferenziato.
Ancora oggi,
fonti religiose ed esoteriche alimentano o meglio riempiono i buchi della rete
imbastita dall'immaginazione tecnologica; la disintegrazione di una realtà
consensuale, l'opzione paranoica, con l'eventuale formazione di comunità
sottoculturali da essa dominate, sono la versione digitalizzata dell'antico animismo
ansioso col suo fervore di deliri interpretativi e glosse infinite. Wilson, McKenna e Dick partecipano di questa rapida corrosione, un
postmodernismo che vede, oltre l'astrazione linguistica, possibilità d'incontri
e condivisioni con un “altro” alieno rese vicine e accessibili via i nuovi
media digitali. La realtà presa a calci in cervelli recettori di informazioni
da Sirio o invasi da intelligenze divine, per cui il paesaggio circostante
diventa invisibile e l'allucinazione si fa opzione praticabile: i tre scrittori
vengono citati a testimoniare il picco del weirdness,
dell'inquietante stranezza, toccato negli anni 70.
T. Mc Kenna: più che etnobotanico, gran
profeta della psilocibina, questa “televisione
vegetale” distorta con I Ching e alchimia; P. K.
Dick: l'intelligenza gnostica si scrive nei nostri racconti (di cui la teofania
del 1974 fu momento topico); R. A. Wilson: la consapevolezza crowleyana da raggiungere spargendo i semi del caos, la
rivalutazione di W. Reich, gli Illuminati come parodia del bombardamento
mediatico in cui respiriamo, partendo dalla guerriglia a suon di lettere
arrivate a “Playboy” (di cui Wilson fu redattore). Qui le origini delle
febbrili fantasie sguinzagliate nei labirinti discorsivi odierni, condivisivi
proprio in quanto apocalittici, da qui il loop
odierno dell'informazione che si specchia in sé stessa, con meno gaudii mistici e più sorveglianza elettronica. Anche ai
loro testi va imputata la possibilità che qualcuno faccia discendere
dall'ideale anarchico libertario le aberrazioni di un “mercato taoista”.
Davis per
parte sua, nella lettura di tanti “stati alterati” chiama a sostegno scritti di
Latour, Sloterdijk o Deleuze (nelle sue pagine D&G sta per Deleuze e Guattari e non per i
sarti siculo-milanesi), dà per acquisiti Eliade, Mc Luhan e Jung (la storia della
religione, insomma, in quanto parte della storia dei media); incrociando le
culture accademiche e freak, senza tacere i punti in cui il weird,
lo strano ha le franche sembianze del patologico e a separare illuminazione e
disturbo c'è solo il vibrare di una verbosa sottile parete. Ma hai voglia a
tirare in ballo “pieghe” deleuziane nello sforzo di
trasferire le filosofie da garage al piano nobile: il weird-parola
magica, non tanto fenomeno psicologico quanto modo del reale, non solo
allucinazione ma aspetto dello stesso esistere, disturbante ma vero; in un
angolo del cervello, cresce il sospetto che tante sperimentazioni,
distaccatamente rilette e meditate di qua dall'atlantico, nell'Europa più
disingannata e cinica, sarebbero finite dritte al museo dell'Art Brut di
Losanna.