Carlo Romano
sessantotto da rivedere
Mario Perniola: BERLUSCONI
O IL '68 REALIZZATO. Mimesis, 2011 | Valerio Magrelli: IL
SESSANTOTTO REALIZZATO DA MEDIASET. UN DIALOGO AGLI INFERI. Einaudi, 2011
Anni fa Saverio Vertone
scrisse che col "sessantotto" era iniziato, trascinandosi a
lungo, lo "strano percorso",
dal movimentismo alla normalizzazione, finito poi col legittimare "un
modesto liberalismo", così che, passando per Bifo
e Toni Negri, si approdava disinvoltamente a Schumpeter
e Bossi. Vertone era un intellettuale incisivo nel
giornalismo quanto solido nella cultura, ma qualcuno avrebbe potuto obiettargli
che lui stesso era passato con qualche disinvoltura dal comunismo a Berlusconi.
Quel che andava scrivendo a proposito del "sessantotto" come evento
centrale di un ciclo di omologazione della borghesia che portava, "tra
pause, riprese e controsensi di ogni genere", allo stadio più nuovo e
spavaldo del capitalismo, sebbene non fosse una novità, e per giunta fosse
immerso in un contesto di personale chiarimento, riusciva stuzzicante grazie
alla peculiarità della sintesi (Le
Rivoluzioni incrociate, Passigli 2001).
Dieci anni dopo, un altro piemontese di cultura
altrettanto solida, l'astigiano Mario Perniola,
avrebbe dedicato uno spazio più appropriato, pur rimanendo nella misura del
libello, allo stesso tema, legandolo tuttavia senza indugi a quel Berlusconi
fra le cui grinfie per qualche tempo il torinese Vertone
era finito. Fu quel famoso imprenditore televisivo e primo ministro a compiere
il passo fatale attraverso il quale "quella volontà di potenza, quel
trionfalismo farneticante, quell'estrema determinazione di destabilizzare tutta
la società da cui il Sessantotto fu pervaso" si sarebbe alla fine
incarnata come perno estetico di relazioni sociali tanto vuote quanto condivise
e provvidenziali per i suoi stessi denigratori (i "saviani",
con l'espressione di Perniola).
A giudizio di Diego Gabutti,
torinese, il pamphlet di Perniola "merita
d'essere già considerato un mezzo classico". Più prudente, ma sempre di
buoni contorni intellettuali, si è dimostrato viceversa il novese Giovanni Bottiroli che se condivide "molte affermazioni di Perniola" esita a riconoscere in un libriccino di tal
fatta "la formula che riassume un'epoca". Bottiroli inoltre
lo legge come una "provocazione", per quanto "utile". È
veramente difficile che un libello ne faccia a meno, d'altro canto non mi pare
sia la provocazione a pilotare questo scritto. Ciò che vi ho individuato è in
primo luogo una caustica impoliticità pervasa dalla malinconia. Il senso della
decadenza (specialmente intellettuale) vale, nel testo di Perniola,
quello che nell'ordinaria libellistica è impiegato
dal veleno di qualche frase. Ma a volte, negli esempi migliori, basta qualche
frase a coprire il sentimento del proprio tempo. Può anche bastare un titolo!
Singolare è che contemporaneamente a quello di Perniola finisse sugli scaffali un libro del romano Valerio
Magrelli somigliante all'altro proprio nel titolo e,
quindi, si poteva presumere nei contenuti, ma non era così, e non perché Magrelli si affidava, a differenza di Perniola
ma come in tanti classici pamphlet, a un dialogo fittizio. Ripercorrendo alcuni
luoghi della storia italiana contemporanea, più che di decadenza si occupava
"politicamente" del rovesciamento dell'utopia nel suo contrario. Fin
qui comunque, si poteva rimanere nell'affinità, cosa che non avveniva nella
critica all'egualitarismo che in Perniola, a
differenza di Magrelli, era sostanziale. Magrelli si accontentava, stando all'allessandrino
Roberto Cotroneo, dell'esortazione a vivere in "un paese normale",
cosa sentita troppe volte per emozionare. Servirebbero i poeti, rilanciava
Cotroneo, forse dimenticando che Magrelli aveva fama
di esserlo.
Cosa accomuna i due scritti in questione è tuttavia
lo spostamento della nozione di “cultura alta” dal carico squisitamente
sociologico – per non dire statistico -
a quello morale. Sembrerebbe che l’onere della decadenza e della
distopia debba ricadere tutto sul pernicioso interesse che destò la cultura
popolare in tante intelligenze che ne finirono contagiate contagiando a loro
volta l’insieme della cultura. Disquisire dei fumetti, dei b-movie e delle
telenovela con lo stesso impegno che si dedica a Thomas Mann corromperebbe
dunque il pensiero. Come li si dovrebbe analizzare, del resto? L’unico metodo suggerito è forse quello del
disprezzo? Mi viene da dire che in questo modo si perverrebbe a disprezzare la
vita come si svolge per tutti ma non per gli “ottimati”, se veramente esistono.
È in fin dei conti lo stesso medesimo atteggiamento di tanti critici (i “saviani”) del “berlusconismo” i
quali nella sua comprensione non sono andati più in là dell’atteggiamento,
appesantendolo magari con una caricatura poliziesca di quel Sessantotto sul
quale i due pamphlet indugiano con molte ragioni. Non dimentico tuttavia che
fra l’anno famigerato e Berlusconi, ci
sono stati, nel complesso marasma di quei tempi, anche il “compromesso
storico”, Enrico Berlinguer e il “fermo di polizia”. Ad esser sincero preferisco
il magari “incolto” libertinaggio televisivo all’austero pauperismo delle
“magnifiche sorti”. “Fogli di Via”, Marzo 2012