Quel che segue è l’editoriale
dell’almanacco “Quaderni Genovesi 2011” (De Ferrari).
(…)
dopo i 150 anni
Altri
tempi quando chi erano gli italiani lo sapevano soprattutto gli altri, mentre
per loro vigeva la legge del campanile, tanto da non alzarsi in piedi alle note
dell’inno nazionale. Poi, d’improvviso, sollecitati da un Presidente della loro
Repubblica, ne impararono la prima strofa cominciando per giunta a sollevare la
mano all’altezza del cuore al pari degli americani i quali, tuttavia, fino al
1942 stendevano il braccio all’alzabandiera come facevano gli italiani ai tempi
di Mussolini col “saluto romano”.
Gli
stessi uomini di cultura mal incorrevano nel termine di italiani e per sé proponevano
irrispettose definizioni, come “l’antitaliano” Giorgio Bocca o
“l’antinazionale” Franco Lucentini. C’era stato a onor del vero anche
“l’arcitaliano” che di nome faceva Kurt Erich Suckert prima di decidersi per un
più confacente Malaparte. Cosa gli italiani fossero restava ciò nondimeno un
arcano, appena schiarito da due guerre mondiali dove si ritrovarono dapprima a
fianco a fianco e in seguito atrocemente divisi, ma sempre cagionati da
un’improbabile riscossa alla quale non era avulsa la macabra simbologia della
morte, fonte di un pesante tributo di regola poco gradito.
L’ignoranza
verso se stessi non li preoccupava ad ogni modo più di tanto e di quel
quotidiano plebiscito blaterato a suo tempo da un biografo di Gesù se ne
fottevano allegramente, ritrovandosi comunità ora coi guelfi ora coi
ghibellini, con Bartali o con Coppi, con la piccola patria dei loro natali o
con quella estranea che si sforzavano di imitare, americani a Roma e devoti
alla pasta in ogni dove. Forti casomai di quei politici che pur proni alla
nazione si ostinavano in un anno giubilare a parlare del proprio popolo che
andava a coincidere con le tessere del partito e il consenso elettorale,
presero con ogni attendibilità consapevolezza di fedeltà sovranazionali che non
erano soltanto quelle per la Chiesa romana o l’ebraismo, ma un variegato
campionario di gusti che accomunava i collezionisti di annullamenti postali
come gli amanti del velluto a coste. Perché dunque non dirsi anche italiani dal
momento che si poteva continuare bonariamente a mettere insieme le colorate
serie dei francobolli Sammarinesi?
È
quel che al centocinquantesimo anno puntualmente accadde, malgrado l’avversa
ostinazione di certi sacerdoti del Dio Po all’apparenza indifferenti agli Dei
della piana Girgentina. Ma non potevano costoro comporre, più dell’eccezione
che va a confermare la regola, la pattuglia dei patrioti che non volevano
smentire l’italianità del carattere amoralmente familista, come è da tempo noto
agli etnologi americani? Sta di fatto che se uno spassoso giornalista - Edmondo
Berselli, sottratto ancor giovane al-la vita - si era permesso anni addietro di
configurare l’eventualità dei “post italiani”, Fabrizio Rondolino e Aldo
Cazzullo, due giornalisti provenienti da quel Piemonte che fu sede di una monarchia
furba anche nella ferocia, presero su di sé, nel moto unitario dei centocinquant’anni
italiani, la responsabilità di rifondare la nazione sulle loro divergenze
interpretative. A quanto è dato sapere per mezzo delle classifiche librarie
riportate da un piemontesissimo giornale, l’Italia che legge (è pressoché
inevitabile l’elitarismo in queste faccende) sembra avergli dato ragione.
Teniamoci di conseguenza allegri, siamo
italiani e continuiamo perciò a ignorarne il significato.